Corriere 29.4.18
Primo Maggio
La festa senza sinistra
di Antonio Polito
Sarà
 il primo Primo Maggio senza una sinistra politica. Per più di un secolo
 il mondo del lavoro ha avuto un suo partito, un riferimento 
parlamentare, ma dopo il 4 marzo non ce l’ha. Il Pd, la forza politica 
più prossima a quel mondo almeno per estrazione storica, non lo 
rappresenta più e neanche vuole farlo, essendosi piuttosto impegnata 
negli anni di governo a trasformarsi in un partito pigliatutto, dei ceti
 medi, della nazione, al punto che la sua componente di sinistra se ne è
 andata.
Così ora il Pd non ha più una sinistra, e la sinistra non
 ha più un partito, vista la prova elettorale disastrosa di chi ha 
cercato fortuna fuori dalla casa dei padri, sia nella versione dalemiana
 più vicina alla Cgil, sia nella versione ulivista nostalgica di Prodi. 
Al punto che oggi — per riconoscimento unanime — il programma del Pd 
troverebbe più convergenze con quello dell’altro partito moderato, Forza
 Italia, che con qualsiasi altra forza in Parlamento.
Non si 
capisce la drammaticità della scelta che è chiamata a fare il Pd tra 
pochi giorni se non si parte da questo dato: la voragine culturale e 
ideale che si è aperta nel campo progressista, e che ha preso il posto 
di un collaudato e antico sistema di valori, di certezze, di opzioni 
morali. Nell’ultima legislatura la sinistra democratica ha in verità 
prodotto il suo massimo sforzo per ridarsi un orizzonte politico. Lo ha 
spiegato molto male, e in modo spesso arrogante, ma ci ha provato. E il 
nuovo orizzonte era una politica che promuovesse l’uguaglianza delle 
opportunità, l’empowerment dei ceti deboli attraverso la crescita. Al 
posto di protezione sociale e redistribuzione, cuore tradizionale della 
sinistra, dinamismo economico e sviluppo. Il messaggio era: se saremo 
bravi a governare, competenti, riformisti, amici dell’impresa, 
rispettati in Europa, la ripresa arriverà. E quando sale la marea, come 
diceva John Kennedy, tutte le barche salgono.
Questa strategia, 
inceppatasi nella sinistra europea dai tempi di Blair, non è riuscita 
(per molte ragioni, che forse prima o poi converrebbe al Pd di 
analizzare). Sono anzi rimaste dolorosamente aperte le tre grandi 
disuguaglianze di cui parla lo storico Emanuele Felice: quella di 
istruzione, tra noi e il resto d’Europa; quella territoriale, tra Nord e
 Mezzogiorno; quella generazionale, a danno dei giovani. Nelle urne è 
arrivato forte e chiaro l’effetto di questo insuccesso. Analizzando i 
voti dei vari strati sociali, Carlo Trigilia ha segnalato sul Mulino che
 il Pd «ha perso la connotazione tipica dei partiti socialdemocratici 
europei, basta sulla forte presenza della classe operaia, dei salariati 
dei servizi e dei nuovi ceti medi dipendenti, specie di quelli legati al
 settore pubblico, senza avvicinarsi al profilo di un partito con 
un’ampia base moderata». In tutta Europa la sinistra è in affanno, ma, 
con l’eccezione del Ps francese, la crisi di rappresentanza del Pd è la 
più grave e la più rapida: tra il 2013 e i 2018 il voto dei salariati 
dell’industria e dei servizi è sceso dal 26% al 14%, mentre è al 40% per
 i Cinquestelle e al 19% per la Lega. E, quel che è peggio, neanche un 
tale risultato sembra dare una scossa, accendere una scintilla. La ormai
 proverbiale divisione non si traduce mai in discussione e decisione, e 
non emerge alcun nuovo gruppo dirigente: tant’è vero che stasera torna 
sulla scena Matteo Renzi, chiaramente ancora il deus ex machina del suo 
partito.
La sensazione è dunque che la tattica, la manovra, abbia 
completamente preso il sopravvento sulla necessità di una strategia e di
 un rinnovamento della cultura politica. Con quale proposta, con quale 
idea il Pd potrebbe dunque andare «a schiena dritta», come dicono i suoi
 dirigenti, alla trattativa con M5S per la formazione di un governo? 
Questo è il punto. Ci interroghiamo tutti se i democratici debbano 
oppure no accettare questa alleanza. Ma non dobbiamo smettere di 
chiederci se gli italiani la accetteranno, visto che nelle ultime due 
occasioni in cui hanno votato, al referendum e alle Politiche, hanno 
detto molte cose contraddittorie ma hanno chiaramente punito il Pd. E 
infatti la percentuale di elettori democratici che nei sondaggi si 
dicono favorevoli al governo con i Cinquestelle (39%) è tre volte più 
elevata di quella, molto scarsa, degli elettori in generale (13%). Per 
tanti italiani, soprattutto nel Nord che vota centrodestra, sarebbe 
paradossale vedere una trattativa condotta da chi ha espresso i governi 
uscenti, così duramente bocciati nelle urne.
Il gruppo dirigente 
del Pd è perciò chiamato a una scelta davvero cruciale. Da un lato, 
dicendo sì renderebbe un servizio alla Repubblica (e non sarebbe il 
primo), che ha bisogno come l’aria di un governo, di un Parlamento che 
funzioni, di un’attività legislativa; e garantirebbe alla nuova 
compagine il peso di competenza ed esperienza del suo personale 
politico. Dall’altro, però, dovrebbe farlo nel segno della continuità, 
di un’autodifesa del suo passato e della sua leadership, condizioni che 
potrebbero addirittura aggravare la crisi di fiducia con l’elettorato; 
oppure, in alternativa, accettando per puro spirito di conservazione una
 subalternità politica e culturale rispetto al partner maggiore, ciò che
 potrebbe segnarne la fine.
 
