domenica 29 aprile 2018

Corriere 29.4.18
Primo Maggio
La festa senza sinistra
di Antonio Polito


Sarà il primo Primo Maggio senza una sinistra politica. Per più di un secolo il mondo del lavoro ha avuto un suo partito, un riferimento parlamentare, ma dopo il 4 marzo non ce l’ha. Il Pd, la forza politica più prossima a quel mondo almeno per estrazione storica, non lo rappresenta più e neanche vuole farlo, essendosi piuttosto impegnata negli anni di governo a trasformarsi in un partito pigliatutto, dei ceti medi, della nazione, al punto che la sua componente di sinistra se ne è andata.
Così ora il Pd non ha più una sinistra, e la sinistra non ha più un partito, vista la prova elettorale disastrosa di chi ha cercato fortuna fuori dalla casa dei padri, sia nella versione dalemiana più vicina alla Cgil, sia nella versione ulivista nostalgica di Prodi. Al punto che oggi — per riconoscimento unanime — il programma del Pd troverebbe più convergenze con quello dell’altro partito moderato, Forza Italia, che con qualsiasi altra forza in Parlamento.
Non si capisce la drammaticità della scelta che è chiamata a fare il Pd tra pochi giorni se non si parte da questo dato: la voragine culturale e ideale che si è aperta nel campo progressista, e che ha preso il posto di un collaudato e antico sistema di valori, di certezze, di opzioni morali. Nell’ultima legislatura la sinistra democratica ha in verità prodotto il suo massimo sforzo per ridarsi un orizzonte politico. Lo ha spiegato molto male, e in modo spesso arrogante, ma ci ha provato. E il nuovo orizzonte era una politica che promuovesse l’uguaglianza delle opportunità, l’empowerment dei ceti deboli attraverso la crescita. Al posto di protezione sociale e redistribuzione, cuore tradizionale della sinistra, dinamismo economico e sviluppo. Il messaggio era: se saremo bravi a governare, competenti, riformisti, amici dell’impresa, rispettati in Europa, la ripresa arriverà. E quando sale la marea, come diceva John Kennedy, tutte le barche salgono.
Questa strategia, inceppatasi nella sinistra europea dai tempi di Blair, non è riuscita (per molte ragioni, che forse prima o poi converrebbe al Pd di analizzare). Sono anzi rimaste dolorosamente aperte le tre grandi disuguaglianze di cui parla lo storico Emanuele Felice: quella di istruzione, tra noi e il resto d’Europa; quella territoriale, tra Nord e Mezzogiorno; quella generazionale, a danno dei giovani. Nelle urne è arrivato forte e chiaro l’effetto di questo insuccesso. Analizzando i voti dei vari strati sociali, Carlo Trigilia ha segnalato sul Mulino che il Pd «ha perso la connotazione tipica dei partiti socialdemocratici europei, basta sulla forte presenza della classe operaia, dei salariati dei servizi e dei nuovi ceti medi dipendenti, specie di quelli legati al settore pubblico, senza avvicinarsi al profilo di un partito con un’ampia base moderata». In tutta Europa la sinistra è in affanno, ma, con l’eccezione del Ps francese, la crisi di rappresentanza del Pd è la più grave e la più rapida: tra il 2013 e i 2018 il voto dei salariati dell’industria e dei servizi è sceso dal 26% al 14%, mentre è al 40% per i Cinquestelle e al 19% per la Lega. E, quel che è peggio, neanche un tale risultato sembra dare una scossa, accendere una scintilla. La ormai proverbiale divisione non si traduce mai in discussione e decisione, e non emerge alcun nuovo gruppo dirigente: tant’è vero che stasera torna sulla scena Matteo Renzi, chiaramente ancora il deus ex machina del suo partito.
La sensazione è dunque che la tattica, la manovra, abbia completamente preso il sopravvento sulla necessità di una strategia e di un rinnovamento della cultura politica. Con quale proposta, con quale idea il Pd potrebbe dunque andare «a schiena dritta», come dicono i suoi dirigenti, alla trattativa con M5S per la formazione di un governo? Questo è il punto. Ci interroghiamo tutti se i democratici debbano oppure no accettare questa alleanza. Ma non dobbiamo smettere di chiederci se gli italiani la accetteranno, visto che nelle ultime due occasioni in cui hanno votato, al referendum e alle Politiche, hanno detto molte cose contraddittorie ma hanno chiaramente punito il Pd. E infatti la percentuale di elettori democratici che nei sondaggi si dicono favorevoli al governo con i Cinquestelle (39%) è tre volte più elevata di quella, molto scarsa, degli elettori in generale (13%). Per tanti italiani, soprattutto nel Nord che vota centrodestra, sarebbe paradossale vedere una trattativa condotta da chi ha espresso i governi uscenti, così duramente bocciati nelle urne.
Il gruppo dirigente del Pd è perciò chiamato a una scelta davvero cruciale. Da un lato, dicendo sì renderebbe un servizio alla Repubblica (e non sarebbe il primo), che ha bisogno come l’aria di un governo, di un Parlamento che funzioni, di un’attività legislativa; e garantirebbe alla nuova compagine il peso di competenza ed esperienza del suo personale politico. Dall’altro, però, dovrebbe farlo nel segno della continuità, di un’autodifesa del suo passato e della sua leadership, condizioni che potrebbero addirittura aggravare la crisi di fiducia con l’elettorato; oppure, in alternativa, accettando per puro spirito di conservazione una subalternità politica e culturale rispetto al partner maggiore, ciò che potrebbe segnarne la fine.

Repubblica Robinson 29.4.18
A duecento anni dalla nascita di quel che resta del padre del comunismo
Un altro spettro si aggira per l’Europa?
Avanti Marx
di Simonetta Fiori


Uno spettro si aggira per il mondo ed è quello di Karl Marx. A dispetto della veneranda età — avrebbe compiuto duecento anni il 5 maggio — e a dispetto delle rivoluzioni fallite, il suo barbone continua a sventolare nelle librerie e nelle università di tutto il pianeta. Senza disdegnare i luoghi del capitalismo più avanzato — il gigante Google gli dedica quasi novantatré milioni di link — e le lusinghe dell’industria cinematografica che proprio in questi mesi ne proietta la figura rinverdita. Ed è un segno dei tempi che il regista nero Raoul Peck abbia osato oggi quel che nel passato in pochi avevano tentato, ossia tradurre in un film la rivoluzione politico- intellettuale del giovane Karl. Più facile raccontare vite romanzesche che l’avventura di un pensiero irrequieto.
Al principio del XXI secolo un sondaggio della Bbc l’ha incoronato filosofo più influente del precedente millennio. Prima di Newton e di Einstein. E prima di Tommaso D’Aquino. Alla sua icona si è inchinato di recente anche il mondo dell’arte, issando Das Kapital sul palcoscenico della Biennale: come interpretare le fratture della contemporaneità se non ricorrendo al filosofo di Treviri? E forse proprio da qui occorre cominciare, dalle contraddizioni e dalle aporie del mondo circostante, per tentare di capire una renaissance che supera i confini del Novecento. Un’imprevista fioritura che attecchisce nel cuore pulsante del capitalismo americano, tra i ventenni e trentenni di Jacobin, la rivista della sinistra radicale che non ha paura di evocare parole ritenute imbarazzanti dalla generazione precedente perché inseparabili dai regimi totalitari. « Quando avevo vent’anni » , ha dichiarato il caporedattore Seth Ackerman, « dirsi socialista era davvero eccentrico, mentre oggi è una qualifica che molti giovani rivendicano». Oggi Seth ha trentacinque anni, e non insegue certo la rivoluzione. Ma legge Il Capitale per denunciare le diseguaglianze, e come lui altri millennial che su precarietà e indebitamento hanno visto infrangersi il sogno americano.
E qui ci avviciniamo alla data di rinascita di Marx, da collocare tra il 2007 e il 2008, in coincidenza con il terremoto economico e finanziario. Perché, come suggerisce Jonathan Wolff nella monografia pubblicata ora dal Mulino, “anche se non ne condividiamo le soluzioni, è innegabile che i problemi da lui individuati siano tuttora molto gravi”. In altre parole, il comunismo è fallito, la sua utopia s’è rivelata un incubo, “ma l’avversario storico non è innocente e una sua assoluzione parrebbe fuori luogo”, sostiene il professore di Oxford che scrive sul Guardian. Ed è proprio Marx a fornirci gli strumenti per analizzarlo. Quali gli attrezzi spendibili oggi? «Il suo merito principale consiste nell’aver messo in luce, centocinquanta anni fa, alcune grandi contraddizioni del sistema di produzione capitalistico che ancora persistono», dice Stefano Petrucciani, autore di una monografia e curatore per Carocci di Una storia del marxismo
in tre volumi. «Prendiamo la diagnosi del capitalismo come crescita e innovazione, con un progressivo risparmio di lavoro. Oggi questa sua tesi risulta drammaticamente vera: la crescita non riesce a essere espansiva, ma intensifica il ricorso alle macchine a danno dell’occupazione». Con conseguenze serie sul terreno della giustizia sociale che possiamo osservare anche attraverso un’altra lente fornita dal Capitale, la stessa sulla quale l’economista francese Thomas Picketty ha costruito la sua fortuna editoriale. «Nella sua teoria sull’immiserimento progressivo», spiega Petrucciani, «Marx immaginava che il capitalismo avrebbe peggiorato le condizioni della classe operaia: in realtà non è stato così. Ma in questi ultimi anni abbiamo assistito a una sorta di “ immiserimento relativo”: i poveri non sono diventati più poveri in senso assoluto ma in senso relativo, essendosi accresciuta di molto la distanza tra le fasce più basse dei livelli di reddito e quelle più alte » . La terza faglia intravista da Marx s’incunea tra la necessità di comprimere i salari — per aumentare il profitto — e il bisogno di vendere le merci ai lavoratori. «L’ultima grande crisi del capitalismo scaturisce proprio da questa contraddizione », sostiene Petrucciani. «Per sostenere il consumo delle classi a basso reddito le si è spinte a indebitarsi con finanziamenti, mutui etc. E da qui è nata la grande bolla immobiliare poi deflagrata nell’economia mondiale».
Marx anticipatore del fallimento della Lehman Brothers? A pensarci bene, sono proprio le mani nei capelli degli operatori finanziari di Wall Street a chiudere le immagini che scorrono in coda a Il giovane Karl Marx, in sottofondo le note di Like a Rolling Stone di Bob Dylan. Anche David Harvey, studioso di geografia politica, è convinto che le analisi sulla spregiudicatezza e l’irrazionalità del capitalismo siano più pertinenti oggi di quanto lo fossero all’epoca in cui sono state scritte. “ Quello che ai suoi tempi era un sistema economico dominante solo in un angolo della terra ora si estende in tutto il mondo”, sostiene Harvey in un saggio esplicito fin dal titolo, Marx e le follie del capitale (Feltrinelli). E qui ci si imbatte in un altro aspetto del suo pensiero quanto mai vitale: la globalizzazione della produzione e del mercato. « Marx aveva capito che era nella natura del capitalismo essere una “forma mondo” capace di rompere i confini nazionali e continentali», interviene Mario Tronti, antico operaista e intellettuale con largo seguito a sinistra. Allo studioso piace evocare l’immagine di un “ Marx profeta” cara a Schumpeter. « Un’altra sua grande intuizione riguarda una condizione umana mai davvero superata, quella dell’alienazione. Il giovane Marx dei Manoscritti economico- filosofici seppe osservare la perdita d’umanità nell’operaio che mette qualcosa di sé nel prodotto senza riuscire mai a riconquistare integrità. Oggi, in un mondo per molti aspetti disumano, mi sembrano sempre più evidenti i segni di questa perdita di sé».
Alienazione, classe, ideologia, sfruttamento: anche se detestate dalle scienze sociali mainstream, sono parole che hanno cambiato il modo di guardare il mondo. Così come oggi sarebbe difficile ignorare la visione marxista della storia che vede le forze economiche al primo posto. Ma un’attrezzatura così duttile per l’attualità non rischia di favorire una lettura troppo schiacciata sul presente? Al contrario. Il Marx che oggi trionfa nelle aule universitarie e nei circoli colti è il classico liberato da ogni ipoteca ideologica novecentesca, da leggere criticamente nelle sue mancanze e contraddizioni. E non è casuale che il rilancio sia partito dal mondo anglofono, regno della filosofia analitica, per rimbalzare in Francia dove oggi registra un rinnovato interesse accademico. Il dogma sembra cedere il passo alla filologia, con nuove edizioni delle opere nate postume e frammentarie. « Anche se in Italia si fa più fatica a liberarlo da vecchie incrostazione » , annota Petrucciani del quale sta uscendo in Francia Marx critique du libéralisme (éditions Mimésis). E intanto si potrebbe misurarne la popolarità dal numero di saggi e riedizioni che invadono gli scaffali, dall’affilato Marxismo dopo Marx di Giuseppe Bedeschi (Castelvecchi) agli scritti inediti di Ágnes Heller che ne valorizzano la dimensione filosofica (sempre Castelvecchi), da Senza comunismo di Antonio A. Santucci, riedito dagli Editori Riuniti, alla nuova edizione del Manifesto con i commenti di Balibar e Žižek ( Ponte alle Grazie). Con un’incursione nel suo privato più doloroso in Karl Marx dal barbiere ( Edt) di Uwe Wittstock, che prende spunto da un episodio poco conosciuto della sua vita, il viaggio ad Algeri dopo la morte della moglie Jenny.
“ Finora i filosofi hanno interpretato il mondo. Ora è venuto il momento di cambiarlo”. Potrebbe essere un tweet, invece è l’undicesima tesi su Feuerbach che ha nutrito la fantasia di molti intellettuali engagé. Ma il mondo Marx è riuscito davvero a cambiarlo? Seppure con tutti i suoi scossoni, l’economia capitalistica sembra infischiarsene di rivoluzioni e profezie. « Senza Marx » , riflette Petrucciani, «non avremmo avuto fondamentali conquiste sociali. I partiti socialisti moderni nascono dal suo pensiero politico, anche se non c’è accordo su quale sia la vera filiazione: quella riformista gradualista o quella radicale rivoluzionaria». Secondo Tronti la sua grande intuizione è di aver capito che il capitale è come un Proteo, capace di cambiare forma in ogni momento. « E la sua lezione è stata compresa più dalla borghesia che dai suoi avversari, irrigiditi dal dogmatismo». Poco prima di morire, Eric Hobsbawm raccontò di aver ricevuto una telefonata inattesa. «Il mio interlocutore voleva sapere che pensassi di Marx, per poi dirmi in tono grave: “ Quell’uomo riuscì a scoprire sul capitalismo cose di cui oggi dobbiamo tenere conto”». Era George Soros, uno degli uomini più ricchi del pianeta.

Repubblica Robinson  29.4.18
Il filosofo/1
Marxisti nel tempo
Che cosa rispondere a chi ti chiede, oggi: “Sei marxista?”. E se insistono: “Sei comunista”? Due suggerimenti. E qualche altra piccola domanda
di Pier Aldo Rovatti


Se mi chiedono “Sei marxista?”, dopo una breve esitazione rispondo “Sì”. Marx mi ha insegnato come funziona il capitalismo nella sua dinamica essenziale. La lettura del Capitale è stata decisiva per la mia formazione intellettuale e per la mia vita di cittadino responsabile. Purtroppo oggi i giovani quasi mai passano attraverso questa esperienza e sono tantissimi quelli meno giovani che credono di aver letto Marx senza averlo fatto. Mi domando come si possa possedere un po’ di spirito critico senza avere letto almeno il primo volume del Capitale, senza avere un’idea non del tutto vaga di cosa sia una “merce”, il “valore di scambio”, la “forza lavoro”, lo “sfruttamento”, il “plusvalore”. E come sia possibile orientarsi nel mondo attuale della finanza planetaria, o magari solo ascoltare un bollettino sull’andamento delle borse, senza avere chiaro il fatto che Marx, lungi dal darci lezioni di economia politica, ci spiega che il nostro compito, culturale e politico, è quello di riuscire a esercitare una “critica dell’economia politica” (sottotitolo fondamentale per capire cosa troviamo nelle pagine del Capitale e, direi, in tutto ciò che Marx ha scritto).
Marx “inattuale”? Ci sono due sensi della parola inattualità. Quello ovvio che caratterizza che qualcosa è ormai invecchiato e non è più rilevante per i problemi del nostro tempo, e quello meno ovvio che indica l’esatto contrario, cioè qualcosa che abbiamo rimosso mentre ha a che fare non solo con la società in cui siamo ma soprattutto con quella società in cui vorremmo poter vivere e che ci sembra attualmente sbarrata. Basta pensare alla condizione culturale in cui ci troviamo, completamente dominata dall’idea di individualismo.
Marx mi ha insegnato che l’individualismo è il principale nemico e che tra l’idea di individuo e l’idea di soggetto c’è uno scarto drammatico. La chiusura nell’individualismo è la morte del soggetto perché c’è soggettività solo dove si realizza comunità e socializzazione. Ecco l’insegnamento “politico” che Marx ci trasmette, quanto di più inattuale immaginabile se solo pensiamo che oggi tutti noi viviamo dentro una bolla (possiamo chiamarla neoliberale ma non è il nome che conta) in cui ciascuno viene spinto a diventare imprenditore di sé stesso. Gli altri sono spariti o, se ci sono, diventano ostacoli sul cammino della pura e semplice realizzazione individuale. Marx va proprio nella direzione opposta e non stupisce che oggi risulti culturalmente rimosso.
Quanto alla mia vicenda personale, vorrei solo ricordare che ho combattuto la mia piccola battaglia contro coloro che sostenevano che la “vera” lettura di Marx, quella cosiddetta scientifica, consisteva nel buttar via ogni ciarpame filosofico relativo alla soggettività. Al contrario, io volevo evidenziare quel Marx che mi aiutava a capire come il “bisogno” sfondi ogni rigida concettualizzazione perché possiede una radicalità non negoziabile che fa tutt’uno con la politicità dei soggetti sociali.
Un Marx “rivoluzionario” per il suo stesso modo di pensare e che non può mai essere avulso dal rapporto con la storia. Non possiamo farlo diventare una figura di pensatore distaccato, un modello semplicemente intellettuale, il che ha reso sempre più difficile collocarlo negli apparati che disciplinano la nostra formazione scolastica. Con una battuta, direi che oggi Marx farebbe fatica ad avere successo in un concorso universitario. Devo comunque giustificare la mia inziale esitazione. Non è facile, perché vi si coagulano diversi elementi che agiscono da freno. La domanda “Sei marxista?” già di per sé contiene una provocazione. “Sei ancora marxista?”, ecco la provocazione sottesa, che sarebbe come dire che oggi è strano, improprio e perfino inopportuno dichiararsi tale. Come negarlo? Marxisti si dichiarano, di solito, quelli che impettiti vogliono qualificarsi come irriducibili. Quasi fossero dei reduci impegnati a salvare le loro memorie di lotta, incuranti e magari masochisticamente desiderosi di vedere la loro rappresentanza politica ridotta al minimo. Ma c’è qualcosa di più. Esito (per poi dire di “sì”) perché considero da estinguere tutti gli “ismi”, compreso quello che risuona nella parola “marxismo”. È una parola che veicola tante vicende discutibili che corrispondono ad altrettanti tentativi di realizzazione, a partire da quella enorme vicenda che è stata la nascita dell’Unione Sovietica. Se rispondessi “No, sono rimasto marxiano”, farei sorridere anche me stesso, però è questo che dovrei dire e che ho cercato di tirar fuori in queste righe. Già, e se la domanda fosse “Sei comunista?”. È curioso, ma forse sarei meno imbarazzato nel dare una risposta affermativa. Se il comunismo, a quanto risulta, è qualcosa di impossibile e di ancora più inattuale, proprio per questo ne avverto nitidamente la sfida e l’urgenza.

Repubblica Robinson
Il filosofo/2
Toyota di classe
di Slavoj Žižek


Una vecchia, deliziosa barzelletta sovietica su Radio Erevan (le barzellette di epoca sovietica si basavano su domande e risposte a questa radio, così chiamata dal nome della capitale armena, ndr) dice così: un ascoltatore chiede: « È vero che Rabinovi? ha vinto alla lotteria un’auto nuova?», e la radio risponde: «Sì, in linea di principio, solo che non era un’auto nuova ma una vecchia bicicletta; ma non l’ha vinta, gliel’hanno rubata ». Non vale lo stesso per il Manifesto comunista?(...)
La reazione automatica dell’odierno progressista illuminato alla lettura del Manifesto è questa: il testo non è patentemente zeppo di errori empirici, sia nel quadro che fornisce della situazione sociale, sia riguardo alla prospettiva rivoluzionaria che sostiene e propala? È mai stato un manifesto politico così chiaramente falsificato dalla realtà storica a venire? Non è semmai, per essere generosi, un’estrapolazione gonfiata di alcune tendenze riscontrabili nell’Ottocento? Dunque, proviamo ad avvicinarci al Manifesto dal capo opposto: dove viviamo oggi, nella nostra società globale post-... ( postmoderna, postindustriale?), lo slogan che si afferma sempre più è quello della “ globalizzazione”: l’imposizione brutale di un mercato globale unificato che minaccia ogni tradizione etnica o locale, compresa la stessa forma dello Stato- nazione. Ma rispetto a questa situazione, la descrizione che il Manifesto dà dell’impatto sociale della borghesia non è più attuale che mai?
“ La borghesia — scriveva Marx — non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti e, dunque, i rapporti di produzione, quindi tutti i rapporti sociali... Il continuo rivoluzionamento della produzione, lo scuotimento ininterrotto di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca borghese da ogni altra... La borghesia, sfruttando il mercato mondiale, ha reso cosmopoliti la produzione e il consumo di tutti i paesi. Con grande dispiacere dei reazionari, ha tolto da sotto i piedi all’industria il terreno nazionale. Le più antiche industrie nazionali sono state — e ancora vengono, ogni giorno — annientate. Al posto dei vecchi bisogni soddisfatti con i prodotti del proprio paese ne subentrano di nuovi che esigono, per la loro soddisfazione, i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. Al posto dell’antica autosufficienza e dell’antico isolamento, locali e nazionali, subentra un traffico di merci universale, un’universale dipendenza delle nazioni tra loro. E questo avviene nella produzione materiale come in quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. La parzialità e la ristrettezza di vedute nazionali diventano sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale ”. Non è questa la nostra realtà, oggi più che mai? Le auto Toyota vengono prodotte per il 60 per cento negli Stati Uniti, la cultura di Hollywood pervade le regioni più remote del globo...
Giungiamo al modo, supremamente paradossale, in cui funziona oggi l’ideologia. Essa si presenta esattamente come il proprio opposto, come critica radicale delle utopie ideologiche. L’ideologia dominante è oggi non una visione positiva di qualche futuro utopico ma una rassegnazione cinica, un’accettazione del mondo “per com’è davvero”, accompagnata dall’avvertenza che se vogliamo cambiarlo ( troppo), non può che provenirne l’orrore del totalitarismo. Ogni visione di un mondo altro viene respinta in quanto ideologica. Alain Badiou descrive il fatto in modo meravigliosamente preciso: oggi, la funzione principale della censura ideologica non è sgominare una reale resistenza — a questo pensano gli apparati repressivi dello Stato — ma sgominare la speranza, condannare immediatamente a morte ogni progetto critico in quanto esso avvierebbe un percorso al termine del quale troveremmo i gulag o giù di lì. ?
IL LIBRO Il manifesto comunista di Marx e Engels (Ponte alle grazie, 192 pagine, 19,80 euro) esce il 3 maggio in una nuova traduzione arricchita da saggi di alcuni fra i maggiori studiosi di Marx. Anticipiamo qui uno stralcio di quello di Slavoj Žižek

Repubblica Robinson 29.4.18
Nella città natale
Nemo Propheta in Treviri
di Tonia Mastrobuoni da Treviri


Bandierine della Germania, portachiavi fucsia, racchettoni da spiaggia: “ tutto a 1 euro!” strillano i cartellini rossi del negozio di paccottiglie. Un gruppetto di turisti si accalca attorno alle ceste per accaparrarsi un cappellino o un paio di occhiali da sole. A Treviri fanno trenta gradi. E la canicola fuori stagione ha riempito le viuzze pedonali del centro di stranieri boccheggianti. Ma molti hanno l’aria di non sapere chi abitò in questa casa a due piani che ospita il negozio trash. Lo chiediamo a un ragazzo alto come un semaforo di nome Sven. « Non ne ho idea » , risponde, stringendosi nelle spalle. Gli mostriamo una piccola insegna scura al primo piano: “Karl Marx visse in questa casa dal 1819 al 1835”. Altra scrollata di spalle, poi Sven torna a concentrarsi su uno stick da selfie. Sembra indeciso tra il verde e il blu.
Per secoli, i turisti sono venuti nella più antica città tedesca per la tradizione romana, per visitare il trono di Costantino o il gigantesco monumento che anche Marx vedeva dalle sue finestre, la Porta Nigra. A pochi passi dalla casa dove il padre del comunismo visse la sua infanzia e adolescenza, la piazza antistante alla Porta è infestata da attori dilettanti travestiti da centurioni che si offrono come guide strillando “ ave!” o “ sequinimi!”. Duemila anni fa, quando i romani fondarono Augusta Treverorum, il loro avamposto fondamentale in Gallia, la Porta teneva lontani i nemici. Mille anni dopo, il monaco bizantino Simeone decise di farsi murare in una torre per morirvi da eremita. I cristiani lo fecero santo e trasformarono la Porta in una chiesa, risparmiandole qualche saccheggio medievale.
Ma nell’ufficio del turismo che affaccia sulla Porta Nigra, assediato dai finti centurioni con le spade di plastica, « fino agli anni Ottanta non volevano neanche esporre un mini busto di Marx » ci rivela Richard Leuckefeld. Consigliere comunale e proprietario di una libreria nel centro storico, Leuckefeld lavora non lontano dalla casa del « Grande Rimosso », come lo chiama. Sugli scaffali troneggiano mini busti di Marx e un’ampia bibliografia sul teorico del plusvalore. «Marx», racconta, « a Treviri è stato sempre tabù. Ovviamente durante la Guerra fredda, anche a causa del muro e della Germania comunista. Ma in realtà, da sempre». Nel 1968, per il centocinquantesimo anniversario, venne il grande cancelliere socialdemocratico Willy Brandt. « Un miracolo», commenta Leuckefeld, ironico.
Ignorata dall’Occidente, Treviri è sempre stata, invece, la Mecca dei comunisti di tutto il mondo, la tappa tedesca da fare, per i figli delle rivoluzioni bolsceviche e proletarie. Per i dirigenti cinesi, tanto per dirne una, fermarsi per un inchino alla casa di Marx ( non quella in cui ora c’è il negozio “ tutto a 1 euro”, ma la casa dove nacque), ha sempre significato garantirsi un avanzamento di carriera. « Da quando hanno tolto quella regola, qualche anno fa, i cinesi vengono meno » , ridacchia Norbert Kaethler, direttore di Trier Tourismus. Attualmente ne arrivano tra cinquanta e centomila l’anno, aggiunge, «cioè l’1 o il 2 per cento dei cinque milioni di turisti che visitano la città». Ma in Cina, su alcune cartine sono segnate ancora soltanto due città tedesche: Berlino e Treviri. E quando, due anni fa, Pechino decise di regalare un’enorme statua di Marx alla sua città natale, scoppiò il finimondo.
Tanti cittadini scrissero imbufaliti al Comune, contrari a un omaggio così vistoso da parte di un regime autoritario che calpesta i diritti umani — questa l’obiezione più frequente. Il Consiglio discusse a lungo la questione e la notizia fece il giro del mondo, ma alla fine deliberò di accettare l’ingombrante regalo, il “Mega-Marx” come lo hanno ribattezzato con un filo di disprezzo i giornali tedeschi. La statua è già lì, verrà scoperta in concomitanza con i solenni festeggiamenti per il bicentenario, il 5 maggio, che finalmente consentiranno un’ampia discussione pubblica sul suo genio. Persino la chiesa cattolica parteciperà alle celebrazioni — senza citare il padre del comunismo per nome, ma omaggiandolo con un seminario sul lavoro.
Il problema, in realtà, non è il “ Mega- Marx” di Pechino. «I cinesi hanno semplicemente riempito un vuoto » , ragiona Kaethler. Che ricorda una battuta del consigliere Leuckefeld, pronunciata nelle concitate riunioni comunali: « Chi dimentica Marx, sarà punito con una statua » . Una frase che riecheggia la famosa citazione di Gorbaciov dell’autunno dell’89, poco prima della caduta del Muro. Allora il padre della perestrojka
disse a Honecker che “chi arriva tardi sarà punito dalla Storia”, riferendosi alla spinta verso la libertà che stava travolgendo i regimi comunisti.
Il lungo oblìo di Marx a Treviri, poi, non sembra in sintonia con il sentimento nel resto del Paese. Secondo un sondaggio recente i tedeschi considerano l’ideologo della rivoluzione proletaria, insieme a Martin Lutero e al cancelliere Konrad Adenauer, uno dei tre connazionali più importanti di tutti i tempi. Invece, iper- cattolica e conservatrice com’è sempre stata, la sua città natale ha scelto di puntare sui classici due pilastri del suo turismo, “ sulle due R” come dicono le guide, cioè i “romani” e il “Riesling”, il vino bianco che attirava qui gli inglesi fin dal Settecento. Il futuro presidente americano Thomas Jefferson amava in particolare il Brauneberger, raccontano le cronache, “il primo in qualità, senza paragoni”, come scrisse nel 1778.
Peraltro, fu il vino a trasformare Marx in un comunista. Non perché bevesse molto, come raccontano i suoi biografi. Ma perché le sue prime riflessioni contro gli oppressori scaturirono dalla miseria delle sue terre, causata dai dazi olandesi e dalla legge prussiana che alla fine degli anni Venti dell’Ottocento equiparò dal punto di vista fiscale le uve del nord con quelle renane, facendo crollare i prezzi. Negli anni Quaranta tre quarti degli abitanti della valle della Mosella erano ridotti in povertà, costretti a vendere terre, vigneti, bestiame. E sulla Rheinische Zeitung un giovane Marx cominciò a scagliarsi contro i “ vampiri della Mosella”, gli esattori fiscali, gli avvocati e i giudici che approfittarono del trentennio nero del vino. Più tardi, nella prefazione a Per la Critica dell’economia politica, scrisse che quelle corrispondenze dalla Mosella erano state “ le prime opportunità per occuparmi di questioni economiche”.
Jens Baumeister ci tiene molto, invece, a raccontare aneddoti del figlio scomodo di Treviri, traghettando i turisti da una casa all’altra di Marx. Una è quella del negozio “tutto a 1 euro”, ma l’altra è la sua casa natale, che è appena stata restaurata. La guida turistica ha collezionato miriadi di episodi esilaranti, nei suoi anni di pazienti pellegrinaggi per la città. Un americano gli chiese per esempio, dopo aver visitato le due case di Marx, dove avesse scritto Mein Kampf. Quando Baumeister, un tantino scandalizzato, gli fece notare che quella era l’autobiografia-pamphlet di Adolf Hitler, l’americano non fece un plissé: “tanto erano farabutti tutt’e due”, borbottò. Un altro turista, un texano, gli chiese se poteva dormire nel letto di Marx e promise “qualsiasi cifra” per una notte sul letto del nemico giurato del capitalismo. Quel letto, per fortuna, non esiste più.

Repubblica Robinson 29.4.18
Nell’ex roccaforte russa
Noi fedeli alla linea
di Rosalba Castelletti da Mosca


Vladimir Isakov è troppo giovane per ricordare la vita sotto l’Urss. Quando il primo Stato socialista al mondo collassò nel 1991, aveva solo quattro anni. Eppure è certo che il sistema teorizzato da Karl Marx sia «l’unica via di sviluppo possibile per la Russia». Non è il solo. Sotto la spinta della crisi economica e della rabbia per la corruzione, nel Paese sempre più giovani si avvicinano all’opera del barbuto filosofo tedesco e al Partito erede del rivoluzionario Vladimir Lenin. «Impossibile scindere l’uno dall’altro. Marx enunciò la teoria, Lenin la tradusse nella pratica».
Laureato in Storia a Tula, biondo, faccia pulita, Isakov è uno dei volti nuovi del Partito comunista russo. A soli 31 anni ha scalato diversi gradini fino a sedere nel Segretariato generale e al vertice del Komsomol, l’Unione comunista della gioventù. In completo scuro e spilla d’ordinanza del partito appuntata sulla giacca, ci accoglie nell’ufficio della sezione giovanile comunista al nono piano della Duma. Il profilo allungato di Lenin campeggia ovunque, anche sulla tazza in cui ci offre un tè. Tappa obbligata nella vita dell’homo sovieticus, quest’anno il Komsomol festeggia cent’anni e conta quattordicimila membri tra i quattordici e i trentacinque anni.
Per loro Josif Stalin è un eroe che ha vinto la Seconda guerra mondiale e industrializzato il Paese: « È morto con una divisa militare e 500 rubli di risparmi, ecco perché la gente crede in lui». Depongono fiori alla sua tomba e al mausoleo di Lenin: «Non c’è bisogno di seppellirlo, è già sotto il livello della terra». E credono che non sia stata l’ideologia a fallire nel 1991, ma i dirigenti di allora ad averla tradita. Sono loro il motore dello svecchiamento del Kprf, a lungo considerato il partito delle babushke
e dei pensionati nostalgici delle bandiere rosse.
È per sfatare questo mito che, in vista delle ultime parlamentari, il Comitato centrale aveva lanciato una campagna immagine nazionale rivisitando in veste hipster gli idoli del pantheon comunista: Stalin con il vaporizzatore al posto della pipa, Lenin al portatile, infine Marx in jeans e chiodo che cita la celebre battuta di Terminator:
“I’ll be back”, “Tornerò”. «Il messaggio è chiaro», ci dice da San Pietroburgo Igor Petrygin-Rodionov, l’autore di volantini e manifesti. «Se hai dimenticato Marx, sarà lui a venirti a trovare perché prima o poi il capitalismo porta a cambi di regime e spargimenti di sangue. Il suo messaggio è moderno. Per questo l’ho vestito da figo».
Ci sono anche i suoi poster alla mostra sul bicentenario della nascita di Marx inaugurata a fine aprile alla Duma da Jaroslav Listov. Classe 1982, vicecaposezione del Partito comunista per le politiche giovanili e segretario del Comitato centrale del Komsomol per le attività d’informazione e analisi, Listov ne è convinto: «Marx è tornato a fare tendenza». Per l’occasione sfoggia sul petto una spilla argentata con l’icona dell’economista. L’ha comprata, ça va sans dire, alla stazione della metropolitana Marksistskaja. «Negli atenei si moltiplicano i circoli marxisti: ci si riunisce in un cafè e si legge Il Capitale. E l’Università statale di Mosca terrà un forum su Marx nel XXI secolo. Anche l’elettorato sta cambiando: la roccaforte di Putin sono gli anziani, la base dei comunisti sono i giovani che capiscono che non c’è speranza nel vicolo cieco del capitalismo e vogliono lottare per il loro futuro».
Eppure il Partito comunista non ha fama di combattente. Viene accusato di far parte della cosiddetta “opposizione sistemica” che oppone solo una resistenza di facciata al Cremlino. Anastasja Bajbikova, trentuno anni, segretaria del Comitato centrale del Komsomol e responsabile del Sindacato indipendente degli studenti, nonché deputata di Belgorod, è d’accordo solo parzialmente. «Il Partito si attiene alle dinamiche parlamentari, il Komsomol preferisce la piazza. Soprattutto nelle province. A Belgorod abbiamo fermato l’abbattimento della foresta locale. In molte città ci battiamo perché le strade vengano intitolate ai nostri eroi. E abbiamo creato l’unico sindacato degli studenti, grazie al quale liceali e universitari possono far sentire la loro voce senza temere ripercussioni » . Per Isakov è un ritorno alle origini. « Il partito fu fondato da ventenni che credevano nell’ideale romantico della Rivoluzione». Ma non vuole portare indietro l’orologio. «Non cerchiamo cambiamenti bruschi, ma graduali. Sulle orme di Marx, vorremmo riportare il lavoratore al centro della politica. Forse è la speranza che vince sull’esperienza».

Repubblica  Robinson 29.4.18
L’epistolario intimo
Caro Engels bene per il vino


BRUXELLES, 15 MAGGIO 1847
Caro Engels, Come sai, [l’editore] Vogler è in prigione ad Aquisgrana da inizio maggio. La stampa dell’opuscolo che ci hai inviato è quindi momentaneamente impossibile. La prima parte mi è piaciuta molto. Le altre due hanno bisogno di un po’ di cambiamenti. […] Non posso andare a Londra. I mezzi finanziari non me lo consentono. […] Voce denaro: […] Al momento sono in tali disgrazie pecuniarie che sono costretto a trovar rifugio nelle cambiali, ma in fin dei conti a quei somari non c’è proprio motivo di regalar nulla. […] La questione è assai urgente. Mi aspetto quindi che tu non perda neanche un giorno per mettere le cose a posto e darmene prontamente notizia. […] Non posso continuare a scrivere. Più o meno dodici giorni fa il dottor Breyer mi ha fatto un salasso, questa volta al braccio destro invece che, come al solito, al sinistro. Ho continuato a lavorare come se niente fosse e così la ferita, invece di cicatrizzare, è andata in suppurazione. Figurati che ho rischiato persino di rimetterci il braccio! Ma ora scampato pericolo: è quasi guarito, ma lo sento ancora debole e non devo affaticarlo.
Tuo Marx
COLONIA, 29 NOVEMBRE 1848
Caro Engels, le copie del giornale ti sono state inviate. Se non è stato fatto prima, è solo colpa di quel somaro di Korff cui avevo delegato le spedizioni perché sono sovraccarico di faccende da sbrigare e, come se non bastasse, sono tormentato da continui mandati di comparizione. Per ora rimani a Berna. Ti farò sapere quando puoi tornare. Sigilla meglio le tue lettere. Te ne avevano aperta una (ne ho dato notizia in un articolo, ovviamente senza nominarti). […] Scrivendo di Proudhon non scordarti di citarmi, perché ormai i nostri pezzi sono pubblicati anche in molti giornali francesi. […] Il nostro quotidiano si muove sempre sul piano della sommossa, ma nonostante tutte le imputazioni non è ancora incappato nel code pénal. Ora è molto en vogue. Pubblichiamo anche un manifesto al giorno. La révolution marche. Non smettere di scrivere.
Ho escogitato un piano sicuro per spremere denaro al tuo vecchio, dal momento che ora non ne abbiamo affatto. Butta giù una lettera in cui piangi miseria (il più disperatamente possibile) e indirizzala a me. Racconta le sciagure che ti sono capitate, ma scrivi solo cose che io possa poi riferire a tua madre. Il vecchio comincia ad aver paura.
Spero di rivederti presto Tuo Marx
LONDRA, 27 FEBBRAIO 1861
Caro Engels, domani parto, ma il passaporto per l’Olanda non è stato rilasciato a nome mio, bensì a nome di Bühring. Ottenerlo fu un enorme trouble, così come racimolare denaro a sufficienza per il viaggio. Ho pagato dei minimi acconti ai creditori più pressanti; con altri (ad esempio il grocer) ho invocato la scusa della crisi americana e mi sono procurato un altro po’ di tempo, solo a condizione, però, che mia moglie gli corrisponda qualcosa ogni settimana durante la mia assenza. E in più fra poco devo pagare due sterline e diciotto scellini di tasse.
Nota bene. Hai ricevuto la lettera di mia moglie (scritta about otto giorni fa) in cui ti ringrazia per il vino? È preoccupata perché teme che possa essere capitata nelle mani sbagliate. Anche le bambine ti sono molto grate per il vino. Sembrano aver preso dal padre e bevono volentieri. […] A Colonia hanno fatto affari con la mia biblioteca. Mi hanno rubato tutto Fourier, tutto Goethe, tutto Herder, tutto Voltaire e, quel che più mi brucia, gli Économistes français du XVIIIème siècle ( nuovo nuovo, mi era costato 500 franchi) e molti volumi di classici greci e diversi tomi scompagnati di altre opere. […] Mi sono sparite pure la Fenomenologia e la Logica di Hegel.
Con tutte le maledette brighe di queste ultime due settimane — mi ci è voluto del talento per evitare la definitiva rovina della famiglia — non ho aperto neppure un giornale, nemmeno il «Tribune» sull’American crisis.
La sera invece trovavo conforto nelle pagine di Appiano sulle guerre civili romane, dal testo greco originale. È un libro di grande valore. L’autore è di origine egiziana. Schlosser sostiene che sia «privo di anima», probabilmente perché va alla radice delle cause materiali delle guerre civili. Spartaco vi appare come il tipo più in gamba di tutta la storia classica. Grande generale (mica come Garibaldi), carattere nobile, real representative del proletariato dell’antichità. Pompeo, un vero stronzo che si appropria dei successi di Lucullo (contro Mitridate), di quelli di Sertorio ( Spagna) ecc. e come young man di Silla ecc. si costruisce una fama del tutto immeritata. […] Non appena si misura con Cesare, si rivela un mentecatto. Cesare ha commesso i più grossolani errori militari e l’ha fatto apposta per far perdere la bussola al filisteo che lo fronteggiava. Un qualunque generale romano, diciamo Crasso, lo avrebbe annientato sei volte durante le battaglie in Epiro. Ma con Pompeo tutto era possibile. Shakespeare nel suo Love’s Labour’s Lost mostra di aver intuito chi fosse veramente Pompeo.
Salut
Tuo K.M. Ti scriverò dall’Olanda. Tu sai, non c’è bisogno di ripeterlo, quanto ti sono grato per le straordinarie prove d’amicizia
LONDRA, 30 APRILE 1868
Dear Fred, […] Fra un paio di settimane compirò cinquant’anni. Come ti diceva quel militare prussiano: «Vent’anni di servizio alle spalle e sempre ancora sottotenente » , io ti posso dire: «Mezzo secolo sul groppone e sempre ancora povero in canna!». Quanto aveva ragione mia madre: « Ah, mio buon Karl, se ti fossi fatto un capitale, invece di ecc.!».
Tuo K.M.
LONDRA, 20 GIUGNO 1868
Dear Fred, appena tornato a Londra — il viaggio è stato splendido —, mi ha accolto un grosso fascio di lettere che minacciano denunce e pedate. Si erano mandati via i creditori con la scusa che ero «in viaggio». Ma pare che questi tipi abbiano saputo del mio ritorno con la rapidità del telegrafo elettrico. Si licet parva componere magnis, old Niebuhr (padre dello historian) racconta con quale rapidità i facts della Silesian war galoppassero in no time dall’Europa in Asia grazie alla sola telegrafia della bocca del popolo. Fra i miei creditori questa telegrafia naturale sembra agire con efficacia ancor maggiore. Molti dei solleciti possono attendere al massimo una settimana; ma il peggiore è il foglio che ti accludo, da pagare entro martedì: se ci chiudessero la gas- supply non potremmo proprio più andar avanti […].

Repubblica Robinson 29.4.18
L’intervista impossibile
Sigmund e Karl uniti nel sogno
di Stefano Massini


Fermo sulla porta, ancora col cappello in testa, Karl Marx fissa negli occhi Sigmund Freud. Aspetta un cenno, un assenso, un permesso di entrare oltre la soglia più che ambita del famosissimo studio sulla Berggasse. Il dottor Freud esita. Non perché abbia qualcosa contro l’autore de Il capitale, ma perché un’antica abitudine gli impone di osservare attentamente ogni estraneo prima di ammetterlo nel suo tempio. In questo caso chi si trova davanti?
Un uomo dagli abiti logori, perfino lisi, con un paio di plateali rammendi sulle maniche: sarebbe questo il celebre pensatore della Prima Internazionale, la mente temuta dai governi al punto tale da costringerla più volte a espatriare? La lunga attesa fra i due viene interrotta dallo stesso Marx, che con un guizzo risolutorio toglie il cappello e guadagna l’ingresso chiudendosi la porta dietro le spalle: non è da lui implorare udienza, e si sbaglia davvero questo Freud — medico dei pazzi — se crede di poterlo trattare come un ebreo qualsiasi reverente col rabbino.
FREUD — Di solito sono io a dire a chi entra di accomodarsi. Il rispetto della liturgia fa parte del rito. È la differenza fra un paziente e un intruso.
MARX — Non sono né l’uno né l’altro. Sono qui per pura curiosità. Mi hanno parlato di un medico viennese che scava nei meandri delle teste dei borghesi, il Freud che affonda le mani fra rimorsi, fobie, sensi di colpa, incubi. La questione mi interessa molto, visto che la borghesia ha la coscienza più che sporca.
FREUD — Lei sa che il sogno è un indagatore di noi stessi? C’è una componente di assoluto egoismo in questo: nei nostri racconti notturni ci serviamo degli altri come metafore per parlare di noi. Glielo chiedo perché lei si presenta qui da me ed emette un verdetto molto duro sulla borghesia, come se la guardasse dall’esterno. Ma resta il fatto che anche lei è un borghese. Dunque se la borghesia ha la coscienza sporca, significa che lei per primo ce l’ha. E magari è qui proprio per questo.
MARX — D’accordo: ribaltiamo la prospettiva, se le piace. Anche lei è un borghese, e cura le psicosi dei borghesi come lei. Il chirurgo apre il torace e toglie l’infezione, ma può farlo per la semplice ragione che non è a sua volta portatore d’infezione: mentre opera, il chirurgo è sano mentre il paziente è il malato. Lei è sano, dottor Freud, quando oltrepassa il cranio ed entra nella mente altrui?
FREUD — La domanda non è questa, la domanda è per quale ragione io e lei facciamo quel che facciamo. Siamo due figure molto simili: io cerco di curare una comunità psicotica, lei una comunità sfruttata. Si può dire che siamo due medici. Ma perché? Solo per altruismo? O anche per tornaconto? Io con le mie visite mantengo moglie e figli, così come fa lei con i suoi scritti. Temo che in questo si annidi il suo senso di colpa: non accetta l’idea di doversi servire del sistema che condanna.
MARX — Sono un filosofo, dottor Freud, non un industriale.
FREUD — Questo si chiama alibi, e ognuno di noi ne tiene sempre a portata di mano una manciata. Il fatto è che siamo perfettamente consapevoli che è solo un paravento. Il conflitto nasce qui, per tutti: sentire che le nostre giustificazioni non ci bastano, e che la grande commedia quotidiana ci obbliga a un certo ruolo, piaccia o meno. Il suo ruolo, herr Marx, qual è? Lei sostiene di essere solo un pensatore, ma usa inchiostro che acquista in un emporio, scrive su un giornale che la gente compra, paga un affitto, firma contratti per pubblicare un libro. In altri termini: noi siamo i nostri compromessi. E anche lei si sporca col lurido vile denaro.
MARX — E sia. Lo confesso: detesto il denaro. Di più: la dipendenza dal denaro. È lui la fonte di ogni falsità, di ogni assurdo, di ogni scompenso. Rende potente chi altrimenti sarebbe un idiota, e viceversa: nelle società moderne l’accesso alla conoscenza implica sempre un benessere sociale di partenza. Io ho potuto studiare perché mio padre non era un pezzente, altrimenti adesso sciacquerei i piatti in qualche bettola di Treviri. Le sembra giusto questo?
FREUD — La famiglia da cui discendiamo ci condiziona sempre, non solo per il denaro. È la prima comunità che incontriamo nella vita, mi spiego? E ogni comunità implica sempre aspettative, ruoli, equilibri. Sa che c’è? Mi fa sorridere la sua smania di rivoluzione: tutti da ragazzini abbiamo voluto incendiare il tempio della famiglia, negarne le autorità, riformarne il potere. In nome di cosa? Della libertà di esistere. La verità è che noi non siamo mai liberi, per il semplice fatto che per essere liberi dovremmo essere unici: siamo sempre illuminati da luci esterne, determinanti. La terra cosa sarebbe senza il sole? Una palla arida. Sono gli altri a decidere chi siamo, e le sorti della terra le decide il sole.
MARX — Con la differenza che il sole porta vita, mentre il sistema in cui viviamo ci uccide. Ma lei non si guarda attorno per strada? Non siamo più uomini, mi spiego? Siamo strumenti di produzione, solo questo. Nessuno lavora più per sé stesso, ma per qualcuno che poi incassa. La natura degli esseri viventi vuole che tu sia tutt’uno con il tuo lavoro, che ti appartenga. Come puoi dedicare giorni interi a qualcosa che è solo interesse di un altro, un altro che magari nemmeno vedi? Viviamo nel buio, dottore, viviamo in una grande macchina dove niente è chiaro. E poi lei si meraviglia che ci sia una fila di isterici fuori dalla sua porta? È l’altra faccia della schiavitù.
FREUD — Non lo nego: la gran parte delle nevrosi nasce dal non sentirsi all’altezza del grande torneo sociale. Tremiamo per le incertezze economiche, per l’ombra del tracollo finanziario, e se l’uomo primitivo temeva solo la malattia e la fame, noi rabbrividiamo all’idea di dover dare in pegno l’argenteria di casa. Siamo finiti in una realtà complessa, caro Marx, su questo le do ragione. Ma pretendere di riformularla è un’utopia senza pari, può solo creare altre frustrazioni.
MARX — Certo, me lo ripetono da trent’anni. Sarei un visionario. Il fatto è che il sistema protegge sé stesso, non può non farlo: il capitalismo pur di preservarsi ha elaborato una narrazione spietata, senza deroghe, per cui nessun modello sarebbe possibile se non quello basato sullo sfruttamento delle masse. Non mi sorprende: le classi dominanti creano sempre un pensiero dominante. Ma anche lei, dottor Freud, è pronto a marchiare il mio progetto come utopia? Proprio lei che ha interpretato i sogni dicendo che sono sempre materia vera, di cui fidarsi, talmente inammissibile da essere censurata? Mi chiedo se non sia proprio questo il punto cruciale: la censura toglie spazio ai sogni spacciando che sono sciocchezze, e allo stesso identico modo il potere umilia chi vuol cambiare bollandolo di utopia. Non abbiamo più niente da dirci: al mio sogno sono il primo a crederci. L’ho imparato da lei.

Repubblica Robinson 29.4.18
Rilettura capitale
Compagni burattini
Intervista con Pedro Reyes di Anna Lombardi da New York


Faccio dialogare Karl Marx e Donald Trump, Noam Chomsky ed Elon Musk. Perché ormai consideriamo il capitalismo una sorta di legge naturale, come se diversi modelli di organizzazione sociale fossero impossibili. Ma ci sono altre visioni che cerco di far emergere in maniera dialettica, proprio come insegna Marx, ma anche divertente: attraverso uno spettacolo di marionette». È un confronto impossibile quello al centro dello spettacolo che ha debuttato giovedì sul palcoscenico del Massachusetts Institute of Technology, il più importante istituto di ricerca del mondo. Intitolato Manufacturing Mischief, s’ispira al saggio di Chomsky — che insegna proprio al Mit — Manufacturing Consense, La fabbrica del consenso. A metterlo in scena Pedro Reyes, quarantasei anni, l’artista messicano che da sempre usa l’arte per risvegliare le coscienze, celebre soprattutto per il suo progetto Palas por Pistolas del 2008 dove scambiò pale con 1.527 pistole donate dagli abitanti di Città del Messico. Grazie alla residenza d’artista Dasha Zhukova del Mit Center for Art, Science & Technology ha scritto il suo spettacolo con la complicità del famoso linguista.
Ha iniziato a lavorare con le marionette nel 2008 lanciando la saga “Baby Marx”. Perché proprio il filosofo tedesco?
«Cerco di mostrare la continuità delle sue idee negli ultimi duecento anni attraverso un linguaggio comprensibile a tutti. Leggendo spesso ci appassioniamo all’idea di un autore, ne sposiamo le tesi. Poi affrontiamo un altro libro che dice cose differenti e ci sembrano convincenti anche quelle. Il dialogo dialettico che metto in scena, insomma, avviene innanzitutto nelle nostre menti».
È per questo che fa dialogare Marx con personaggi vissuti in altre ere?
« Serve a far capire la complessità delle conseguenze del suo pensiero. Ma per metterlo in scena ho usato un espediente fantascientifico: immaginando un aggeggio chiamato “ Print- a- friend”, stampa un amico, dove metti un libro e puf, esce l’autore. Nella trama gli inventori sono due studenti di Chomsky che partecipano a un concorso indetto da Elon Musk, l’imprenditore fondatore di Tesla appassionato di Intelligenze Artificiali, e in omaggio al prof partono dal Capitale. Ma poi la macchina viene rubata e succede di tutto: vengono fuori, fra gli altri, Donald Trump e Ayn Rand, teorica dell’egoismo razionale».
Qual è il messaggio?
« Affronto i dilemmi posti dalle nuove tecnologie dell’automazione — auto che si guidano da sole, robot al posto di esseri umani — provando a riflettere criticamente sui cambiamenti e il conflitto di classe che comporta».
Come ha reagito Chomsky all’idea di essere trasformato in marionetta?
« Abbiamo discusso molto. Gli portai una mia vecchia marionetta, quella di Trotsky, per spiegare come intendevo fare. Rise e chiese “E Rosa Luxemburg?”. Abbiamo inserito anche lei. Ha approvato la stesura finale dello spettacolo, dove la sua figura aiuta a smascherare la mancanza di cornice filosofica e morale in cui stanno avvenendo certi cambiamenti sociali che ci riguardano da vicino».
A Marx il suo spettacolo sarebbe piaciuto?
«Sono sicuro di sì. La sua interpretazione del capitalismo resta una delle questioni fondamentali della filosofia, ma serve un linguaggio nuovo per raccontarla alla gente».

Il Fatto 29.4.18
Guai ai vincitori
«Da quattro anni perdono rovinosamente tutte le elezioni – circoscrizionali, comunali, regionali, referendarie e politiche – e non si domandano mai il perché. O, casomai se lo chiedano, si rispondono che non è colpa loro, ma degli elettori che hanno sbagliato a votare. Dunque vanno severamente puniti, nella speranza che capiscano la lezione e la volta successiva imparino a votare meglio. Il che naturalmente non accade, la qual cosa incattivisce ulteriormente i vertici del Pd che, sempre più asserragliati e isolati nel loro bunker, si rafforzano nell’idea balzana di avere ragione, allargando vieppiù il fossato che li separa dai barbari che non li capiscono, in un cupio dissolvi che non finirà mai»
di Marco Travaglio


L’altra sera, a Otto e mezzo, mi è capitata una cosa tanto rara quanto inaspettata: ho imparato qualcosa da un politico. Nella fattispecie, dal presidente del Pd Matteo Orfini. Più lo sentivo parlare e più capivo perché l’unico governo possibile dopo il 4 marzo, quello fra 5Stelle e Pd (l’altro, quello 5Stelle-Lega, è impraticabile per l’indissolubilità del matrimonio fra B. & Salvini), probabilmente non nascerà mai. Almeno finché il Pd resterà quello che è: perché i suoi dirigenti non hanno ancora capito quel che è accaduto il 4 marzo, anzi non si sono neppure posti il problema. Da quattro anni perdono rovinosamente tutte le elezioni – circoscrizionali, comunali, regionali, referendarie e politiche – e non si domandano mai il perché. O, casomai se lo chiedano, si rispondono che non è colpa loro, ma degli elettori che hanno sbagliato a votare. Dunque vanno severamente puniti, nella speranza che capiscano la lezione e la volta successiva imparino a votare meglio. Il che naturalmente non accade, la qual cosa incattivisce ulteriormente i vertici del Pd che, sempre più asserragliati e isolati nel loro bunker, si rafforzano nell’idea balzana di avere ragione, allargando vieppiù il fossato che li separa dai barbari che non li capiscono, in un cupio dissolvi che non finirà mai. O meglio: finirà quando l’ultimo elettore cambierà partito o passerà a miglior vita. È proprio per evitare di estinguersi dopo un rovescio elettorale che, nelle democrazie vere, i partiti licenziano il leader sconfitto, lo sostituiscono con uno davvero nuovo, dotato di pieni poteri per cambiare radicalmente linea politica rispetto a quella bocciata dagli elettori. Perché ciò possa accadere, i partiti devono essere “scalabili”, con regole di democrazia interna che lascino sempre aperto un canale di collegamento fra la base e i vertici e consentano in qualunque momento la sostituzione del gruppo dirigente. Queste regole il Pd sulla carta le ha, con uno Statuto che prevede le primarie sia per gli organi dirigenti, sia per i candidati a cariche elettive. Infatti ha cambiato 8 volte segretario: Veltroni, Franceschini, Bersani, Epifani, Renzi, il reggente Orfini, ri-Renzi e il reggente Martina. Ma Renzi quelle regole le ha svuotate dall’interno, con vari colpi di mano culminati nella notte delle candidature, quando compilò personalmente le liste nominandosi i parlamentari senza passare per le primarie. Perciò oggi il Pd non esiste più: è il PdR, è cosa sua, almeno quanto lo è FI (il partito padronale per eccellenza) per B. e molto più del M5S e della Lega (non proprio due modelli di democrazia interna) per Di Maio e Salvini.
Perciò sono ridicoli i sondaggi pro o contro l’intesa col M5S fatti da Renzi fra i passanti: perché, statisticamente, meno di un passante su 5 vota Pd; perché, mentre lui cestinava il programma del Pd di Bersani votato dal 25,5% degli elettori per copiare quello di B., non gli veniva mai in mente di interpellare la base (se l’avesse fatto, non sarebbe sceso al 18,7%); e soprattutto perché ai neoparlamentari del Pd non importa una mazza dell’elettorato, visto che devono il seggio e lo stipendio a Renzi e a nessun altro. Infatti, nonostante le dimissioni da segretario, il figlio di babbo Tiziano continua a menare le danze e il torrone da dietro le quinte. Organizza riunioni con i fedelissimi e il presidente (a proposito: perché un perditore seriale come Orfini è ancora presidente?) nell’azienda privata del capogruppo Marcucci all’insaputa del segretario reggente Martina. E tutti attendono il suo Verbo stasera da Fazio per capire se l’Italia avrà un governo o tornerà al voto. Tant’è che, giustamente, qualcuno comincia a dire che sarebbe più onesto se ritirasse le dimissioni e tornasse a fare il segretario alla luce del sole, anziché nell’ombra. Se fossimo in Francia, in Gran Bretagna, in Germania, o negli Usa, il leader sconfitto sarebbe scomparso dalla circolazione, passerebbe il tempo a tenere conferenze (casomai qualcuno fosse interessato ad ascoltarle) e il partito avrebbe già voltato pagina: con una seria e severa analisi della sconfitta, con una radicale inversione di rotta, con un nuovo leader e un nuovo gruppo dirigente incaricati di interpretare la nuova linea e le nuove alleanze.
In Germania Schulz ha perso le elezioni sulla linea “mai più con la Merkel” e ora l’Spd ha un altro leader. In Francia i socialisti si sono estinti e ora la sinistra è quella radicale di Mélenchon. In Gran Bretagna il blairismo ha fallito e ora il Labour è quello rosso fuoco di Corbyn. Nel caso del Pd, ora che gli elettori hanno bocciato per l’ennesima volta la lunga sudditanza al pensiero (si fa per dire) berlusconian-confindustriale, la soluzione naturale sarebbe un ritorno ai valori del centrosinistra: politiche sociali e ambientali, lotta alle diseguaglianze, all’evasione, alla corruzione, alle mafie, ai conflitti d’interessi, rinegoziazione di alcuni trattati europei. Valori molto simili, se non sovrapponibili, a quelli dei 5Stelle, che renderebbero molto più facile, se non obbligata, un’intesa di governo col M5S. Invece, più elezioni e più voti perde, più il Pd si convince di non avere sbagliato nulla. Tant’è che Rosato, la sua più alta carica istituzionale (è vicepresidente della Camera, in omaggio alla sua strepitosa legge elettorale), confessa di sentirsi “incompatibile con i 5Stelle ma non con B.”. Orfini afferma che “Di Maio e Salvini sono uguali”, mentre vuoi mettere B. e Verdini. E i renziani ripetono che, se mai si siederanno al tavolo col M5S, sarà solo per far contento Mattarella. E a patto che Di Maio si cosparga il capo di cenere, rinneghi le critiche al governo Renzi e plauda al Jobs Act, alla Buona Scuola e alle altre porcate dell’ultimo quinquennio. A pentirsi e a fare autocritica devono essere i vincitori, non gli sconfitti.

Il Fatto 29.4.18
La sinistra scomparsa non cercatela in un partito
di Antonio Padellaro


“Il mutualismo esprime una solidarietà ‘contro’ lo stato di cose presente, ma esige anche una solidarietà ‘per’, fatta di risposte immediate a bisogni immediati. Il mutualismo è politico perché valorizza di nuovo ‘l’agire in comune’, la cooperazione non solo produttiva, ma morale, intellettuale, solidale su cui si è fondato il movimento operaio nella storia”.
Salvatore Cannavò Mutualismo. Ritorno al futuro per la sinistra (Alegre)

Nella chiacchiera infinita, compulsiva, inconcludente che affoga la politica e noi tutti, fa da sottofondo il piagnisteo, quanto mai vuoto e insopportabile, sulla fine della sinistra. In effetti, questo dicono i risultati del 4 marzo che nella somma tra Pd (sinistra?), Liberi e Uguali, Potere al Popolo e frammenti vari (a malapena il 23%) ci mostra un triste rigagnolo in mezzo alle secche là dove soltanto dieci anni fa scorreva ancora impetuosa l’acqua della passione e dell’impegno. Poi però scopriamo l’esistenza di una sinistra sommersa che come un fiume carsico agisce in profondità, invisibile agli sguardi superficiali. Non la troveremo nei talk show perché non di parole inutili è composta ma di vita reale. Se non ci credete nel libro di Cannavò, giornalista e manager del Fatto, già parlamentare della sinistra (che parte dalle ragioni storiche che hanno portato alla fine del movimento operaio) troverete la lista “virtuosa” di cooperative e aziende nate o recuperate sui principi e valori della mutualità. Una costellazione del “fare insieme”, dell’“agire in comune” composta da operai, agricoltori, manager. Collettività di lavoro che non si piangono addosso, che si danno da fare e che hanno riscoperto “la stessa capacità d’inventiva e innovazione di cui diedero prova gli operai e gli intellettuali della seconda metà dell’Ottocento”. Solo qualche esempio. Rimaflow, la fabbrica recuperata di Trezzano sul Naviglio – alle porte di Milano – avviata nel 2013, diventata una nuova cittadella operaia che ha puntato tutto su riuso e riciclo (carta e plastica, computer e cellulari, più un liquorificio sociale che produce il “Rimoncello” e l’“Amaro Partigiano”, tanto per essere chiari). San Rosarno (distretto delle arance). Sfrutta Zero (raccolta e distribuzione del pomodoro). Mondeggi bene comune (uliveti). Ex Asilo Filangeri (arte, cultura, spettacolo). E così via. Una miriade di esperienze che si muovono secondo un programma che rivendica un salario minimo legale, un reddito di base, il diritto a un nuovo welfare comune, autogovernato e modellato sui nuovi bisogni sociali. Fondamentali, naturalmente, “il carattere multietnico e multiculturale e il riconoscimento e la valorizzazione del lavoro femminile”. Cercate la sinistra scomparsa? È qui.

La Stampa 29.4.18
“Dopo anni di insulti è ridicolo che i grillini mi chiedano i voti”
Renzi oggi in tv, da Fabio Fazio
di Francesca Schianchi


«Mi sembra che questa vicenda si stia lentamente spegnendo come doveva…». A pochi giorni da una Direzione Pd carica di aspettative e di attese, il presidente Matteo Orfini, capofila nel partito dei contrari a qualunque dialogo con il M5S, sospira soddisfatto. L’appuntamento è confermato per giovedì prossimo alle 15, ma l’impressione tra i renziani è che la possibilità di un accordo con Di Maio e compagnia stia sfumando. Per l’ostilità dell’ex segretario, del drappello di suoi fedelissimi pronti a bombardare via social e dichiarazioni il quartier generale di largo del Nazareno, la riunione ha cambiato di segno, assumendo il significato non più di un via libera al governo ma semplicemente a sedersi a un tavolo. Un obiettivo tutto sommato minimale, tale, per il reggente Maurizio Martina, da poter sperare nell’unità del partito. Inclusi i più contrari, che tenta di rassicurare anche con un’altra arma, la garanzia di consultare la base in caso di accordo: «Se la direzione del 3 maggio darà il via libera al confronto con i Cinque Stelle – dichiara ospite di Maria Latella su Sky - penso sia giusto che l’eventuale esito finale di questo lavoro venga valutato anche dalla nostra base nei territori con una consultazione».
Un modo per rimettersi in sintonia con un elettorato disorientato e confuso, almeno in parte contrario (di ieri il lancio in rete di un appello-manifesto per il no all’accordo di cento iscritti romani al partito), oltre a essere un proposito difficile da evitare, dopo che il capo dei Cinque stelle Di Maio ha già annunciato una analoga consultazione tra i grillini, on line, in caso di contratto alla tedesca. Ma, appunto, l’intesa appare ancora lontana. «Stiamo dividendo il Pd sul nulla», scrive in un post su Facebook Matteo Richetti, già candidato alla corsa (congelata) a segretario, «non avrei mai convocato una Direzione per decidere se e con chi parlare», bacchetta il reggente con cui, pure, ha un buon rapporto. Il punto, spiega, è che non c’è convergenza possibile: i Cinque stelle non hanno intenzione di rinunciare a vedere Luigi Di Maio a Palazzo Chigi, e i dem non hanno intenzione di rinnegare riforme e provvedimenti di cinque anni di governo. «Evitiamo di fare una Direzione dove ci dividiamo sul “parliamo o non parliamo con il M5S” se ciò che ci unisce (che le condizioni poste non sono nemmeno discutibili) chiude la discussione», invita. Pur non avendo più un rapporto stretto con l’ex premier, la posizione che rappresenta è molto simile a quella che Renzi va illustrando.
C’è un problema di numeri al Senato, ripete il leader dimesso che, da dietro le quinte, in barba alla qualifica che si è autoassegnato di «senatore semplice di Scandicci», intende governare il processo. Numeri ballerini e posizioni inconciliabili su alcuni temi che per l’una o l’altra forza politica sono cavalli di battaglia. Oltre a esserci, ammette, un problema personale, come ricordato sbottando con i suoi: «Gli stessi che per anni mi hanno insultato per mandarmi a casa adesso mi chiedono per favore di votare il loro governo. Suona ridicolo e incoerente». Dopo che per giorni sono stati i suoi pasdaran a lanciare strali e hashtag, stasera sarà lui a intervenire, ospite da Fabio Fazio a «Che tempo che fa». Chi lo conosce, immagina che affronterà l’intervista affossando l’ipotesi di intesa con i Cinque stelle mettendo in luce tutti i punti di disaccordo, dal Jobs Act alla Buona scuola, alla premiership di Di Maio. Il dialogo si può tenere, è la linea, ma a precise condizioni capestro: un tentativo di mostrarsi formalmente dialoganti ma in realtà inaccessibili, cercando di evitare la parte del guastatore irresponsabile nel momento in cui è il presidente della Repubblica a chiedere di approfondire l’esplorazione. Anche se un improbabile epilogo di esecutivo dem-stellato potrebbe scatenare reazioni: «Migliaia di persone sono pronte a scendere in piazza», mette in guardia l’altro pretendente a Palazzo Chigi, Matteo Salvini. «Altro che consultare i militanti piddini e grillini in rete, la Lega è pronta a mobilitare milioni di italiani se il voto non sarà rispettato».

il manifesto 29.4.18
La grande indignación contagia anche il convento
Spagna. Oltre un milione di firme in 48 ore per chiedere la sospensione dei giudici responsabili della sentenza di abuso sessuale, non violenza, per i cinque stupratori del caso de La Manada
di Marina Turi


Sole 48 ore per raccogliere più di un milione di firme per chiedere la sospensione dei giudici responsabili della sentenza di abuso sessuale, non violenza, per i cinque stupratori del caso spagnolo de La Manada. Almeno una ventina di altre petizioni per avviare la riforma del codice penale su abusi e aggressioni sessuali.
Da giovedì scorso l’indignazione dilaga, contamina settori sociali diversi e risveglia la fantasia. Il grafico di @mariasande spiega perfettamente perché questa sentenza è perversa e patriarcale.
Se sei di fronte a 5 stupratori, hai 2 possibilità: sei terrorizzata e li lasci fare o hai molta paura, ma opponi resistenza. Nel primo caso il giudizio della società e dei media sarà che sei una facile e che te la sei cercata, mentre i giudici diranno che non è violenza, ma solo abuso sessuale. Nove anni di pena ai 5 stupratori e via. Nel secondo caso resisti e hai 2 possibilità. Sei fortunata: ti immobilizzano, ti violentano, però sei viva.
In questo caso la giustizia dirà che ti hanno rovinato la vita e ti hanno violentata, ma sarai tu a doverlo dimostrare. Se invece sei sfortunata ti violentano e ti ammazzano. In questo caso la giustizia dirà che c’è stato omicidio, ma per te sarà uguale perché sei morta. Lineare ed esaustivo. Come le dichiarazioni delle monache di clausura dell’ordine delle Carmelitane Scalze di Hondarribia che tramite facebook esprimono solidarietà alla ragazza violentata e disappunto per la scelta dei giudici. «Noi viviamo in clausura, portiamo un abito fino alle caviglie, non usciamo di notte, non facciamo festa, non beviamo alcool, abbiamo fatto voto di castità. È una scelta che non ci rende migliori o peggiori di altre, ma è una scelta libera. Difenderemo con tutti i mezzi a disposizione il diritto di tutte le donne di fare liberamente scelte contrarie alla nostra senza essere giudicate, violentate, intimidite, assassinate o umiliate per questo».
Utilizzano lo slogan «Sorella, io ti credo» e ribadiscono, senza alcun timore, che è qualcosa che riguarda tutta la società. Anche loro, che per scelta vivono segregate, si sentono coinvolte quando avviene un’ingiustizia così.
Rabbia e manifestazioni, il rifiuto della sentenza riesce ad ottenere consenso in tutto il paese, isole comprese. Giornaliste, scrittrici, politiche, studentesse lanciano l’hashtag #Cuéntalo – che ricorda l’italianissimo #quellavoltache – per raccontare le proprie storie di abusi e aggressioni sessuali. C’è anche chi invita la regina Letizia a non tacere, a partecipare, almeno con un tweet. L’associazione delle giuriste catalane individua nella sentenza di giovedì un appoggio a l’immaginario collettivo in cui chi subisce una violenza deve scegliere tra affrontare o cedere «come male minore». In un comunicato affermano che così si crea un precedente grave contro la libertà sessuale delle donne. «Sfoca la costruzione del consenso e rafforza l’idea che questo possa essere dato in circostanze di pressione». Si dichiarano molto preoccupate del voto di uno dei giudici a favore dell’assoluzione dei cinque imputati. Forse sarebbe anche il caso di interrogarsi sull’idea di sessualità di giudici che esprimono sentenze simili.
Poi ci sono i politici e molti della destra in imbarazzo per un verdetto tanto osteggiato. Iniziano le dichiarazioni copia&incolla per ribadire che «come carica pubblica rispetterò sempre una sentenza, anche quando non mi piace. Però riconosco che come cittadino e come padre mi pesa accettarla. Tutto il mio appoggio alla vittima e alla sua famiglia» così si lava la coscienza Albert Rivera leader di Ciudadanos, il partito politico della destra liberale attualmente in testa a tutti i sondaggi. E allora via a ripetere che si rispettano le decisioni dei giudici, però ci sono proprio giorni in cui è più duro accettarle. E anche «ci sono ragioni e fondamenti giuridici che il cuore non comprende». Un po’ di ipocrisia, un po’ di convenienza.
Ma è chiaro, non solo ai movimenti femministi più radicali e insofferenti, che questa sentenza così accomodante non è un eccesso di garantismo o solo un fallo nel codice penale spagnolo rispetto alla violenza sessuale, ma è la risposta politica allo sciopero globale delle donne dell’ultimo 8 marzo. In Spagna oltre 5 milioni hanno bloccato il lavoro produttivo e riproduttivo, chi per un’ora, chi per un giorno, perché fosse chiaro che un mondo senza donne si ferma. Adesso fermare una marea di donne sarà difficile.

Corriere 29.4.18
Prevarrà la forza militare Usa o l’economia della Cina? La vera sfida sul 38° parallelo
di Maurizio Caprara


Una staticità durata decenni e un paio di luoghi comuni infondati sono stati scossi dai fatti venerdì scorso, quando il presidente della Corea del Sud Moon Jae-in si è sentito quasi infantilmente prendere per mano a Panmunjom dal dittatore della Corea del Nord Kim Jong-un.
Quella linea di demarcazione al 38° parallelo che ha permesso a un clima di guerra fredda di sopravvivere alla fine dell’Unione sovietica, quasi estraneo allo scorrere del tempo, potrebbe diventare un laboratorio sul futuro di fondamentali rapporti di forza. È sulla sorte della fascia di divisione tre le Coree tenuta d’occhio da un’infinità di generali che sarà sottoposta ad esami una parte delle relazioni tra gli Stati Uniti e la Cina, ossia fra la principale potenza militare del mondo e la seconda economia del pianeta. Non sono esami privi di rischi. E altre due tesi che qualcuno considera dogmi sono state smentite.
La prima: le sanzioni non servono mai a niente, come spesso si sente dire. Non è vero. Dipende dai casi. Kim Jong-un, da capo della dittatura bolscevico-dinastica di Pyongyang, ha messo alla prova il triplo dei missili balistici lanciati da padre e nonno sommati insieme e ha subito un embargo d’intensità rara. Il Consiglio europeo, per esempio, considera le sanzioni contro la Corea del Nord le più dure alle quali un Paese è stato sottoposto dall’Ue e ha varato le misure più recenti il 20 aprile. La pressione internazionale ha pagato.
La seconda tesi smentita è un pregiudizio: i profughi sono soltanto un costo per le società. Non è vero, e la storia lo aveva già dimostrato in abbondanza. Figlio di rifugiati nordcoreani è Moon Jae-in, il presidente del Sud che ha dato impulso alla svolta di passare dalla contrapposizione tra le due Coree al dialogo. È stato innanzitutto lui a sforzarsi affinché si parlasse con Kim Jong-un tenuto sotto pressione anche da Seul, mentre Donald Trump rispondeva ai suoi lanci di missili minacciando «fuoco e furia».
Resta ancora azzardato ritenere scontato un percorso rettilineo e soddisfacente del processo avviato tra le due Coree. La Cina va tenuta presente per capire a quali esiti potrà portare perché un calo di tensione, anche se determinato da sviluppi positivi, potrebbe generare vuoti, spazi d’azione prima inesistenti che qualcuno riempirebbe. Attualmente si prevede per fine maggio o inizio giugno il primo incontro tra il presidente degli Stati Uniti e il dittatore della Corea del Nord. Oltre a essere la prevalente partner economica di questa, la Repubblica popolare cinese ha in Pyongyang non solo un’alleata bizzarra capace di sfuggirle di mano. La Corea del Nord, con la quale confina per 1.352 kilometri, è per la Cina un cuscinetto utile a mantenere distanti i 28.500 militari americani dislocati nel Sud della penisola coreana. Che cosa succederebbe se subisse influenze diverse dalla cinese?
Benché costituisca un passo in avanti almeno nel clima, la dichiarazione diffusa venerdì da Moon Jae-in e Kim Jong-un indica traguardi non semplici da tradurre in realtà. Per «dichiarare una fine della guerra» combattuta tra 1950 e 1953, mai chiusa da un trattato di pace, il testo informa che le Coree del Sud e del Nord hanno «concordato di perseguire» incontri «trilaterali che coinvolgano le due Coree e gli Usa o incontri che coinvolgano le due Coree, gli Usa e la Cina». Che a negoziare su trattato di pace e assetti futuri Pechino ci sia o no non è un dettaglio.
Da definire, poi, è in quali termini si può realizzare il proposito di arrivare a una «denuclearizzazione della penisola coreana» con «il sostegno e la cooperazione della comunità internazionale». In passato, Pyongyang ha impiegato la richiesta di denuclearizzazione per prendere tempo e procedere verso la costruzione di bombe atomiche.
Per quanto lontana, l’Italia ha motivo di occuparsene. Nel 2000 fu il primo tra i principali Paesi dell’Ue ad accreditare un ambasciatore in Corea del Nord. Nel 2017 ha presieduto il comitato sanzioni nel Consiglio di sicurezza dell’Onu. Nella nuova legislatura chi se ne occuperà ancora?

il manifesto 29.4.18
Pompeo, strategia comune con israeliani e sauditi contro l’Iran
Medio Oriente. Il segretario di stato, fresco di nomina, alla sua prima missione intende rassicurare Riyadh e Tel Aviv su una rinnovata linea del pugno di ferro contro Tehran. E avverte che Trump il 12 maggio con ogni probabilità uscirà dall'accordo Jcpoa sul nucleare iraniano.
di Michele Giorgio


Il tempo di giurare a metà settimana nelle mani del giudice della Corte Suprema Usa ‎Samuel Alito, italo-americano come lui, e Mike Pompeo è partito per la sua prima ‎missione all’estero da Segretario di stato. Dopo la rapida ma importante tappa al ‎vertice dei ministri degli esteri della Nato a Bruxelles, Pompeo si è diretto in Medio ‎oriente per incontri in Arabia, saudita, Israele e Giordania, i principali alleati, ‎assieme all’Egitto, degli Stati uniti nella regione. Tema centrale dei colloqui è l’Iran. ‎Pompeo lo ha affrontato subito al suo arrivo ieri a Riyadh dove ha prima incontrato ‎il ministero degli esteri Adel al Jubeir e poi l’erede al trono Mohammed bin Salman, ‎ormai partner di primissimo piano delle strategie dell’Amministrazione Usa in ‎Medio oriente. Oggi vedrà gli israeliani e domani i giordani.‎
 Rimarrà deluso chi aveva creduto che il presidente francese, con promesse, ‎concessioni e qualche abbraccio (di troppo), fosse riuscito qualche giorno fa alla ‎Casa Bianca a convincere Donald Trump a non uscire dal Jcpoa (Joint ‎Comprehensive Plan of Action), l’accordo del luglio 2015 tra Tehran e i cinque ‎Paesi membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania, sulle limitazioni ‎alla produzione di energia atomica da parte dell’Iran. Falco apertamente contrario al ‎Jcpoa, come lo sono il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton e ‎l’ambasciatrice alle Nazioni Unite Nikki Haley, Pompeo venerdì a Bruxelles è stato ‎fin troppo esplicito: Trump non ha preso alcuna decisione e il 12 maggio, come ha ‎minacciato di fare, potrebbe ritirarsi dall’accordo con l’Iran. ‎«Il presidente è stato ‎chiaro – ha detto – senza modifiche sostanziali, senza superare le carenze e i difetti ‎dell’accordo, è improbabile che rimanga in quella intesa dopo questo maggio‎». Una ‎linea che proprio Pompeo intende irrigidire ulteriormente, lui che qualche tempo fa ‎ha proclamato che 2.000 missioni di bombardamento aereo sono la soluzione giusta ‎per il nucleare iraniano.‎
 Sull’uscita di Trump il 12 maggio dal Jcpoa puntano Arabia saudita e Israele che ‎vogliono l’imposizione immediata di pesanti sanzioni economiche e politiche ‎all’Iran e che sia tenuta in considerazione anche “l’opzione militare”. Mantiene ‎invece una posizione più defilata la Giordania, leggermente più aperta nei confronti ‎di Tehran e che vede nella fine dell’accordo del 2015 una sfida alla sua stabilità, ‎tenendo conto della sua posizione geografica e politica. Pompeo cercherà di ‎rassicurare Riyadh e Tel Aviv, rimarcando la differenza tra la sua linea del pugno di ‎ferro e quella più diplomatica del suo predecessore Rex Tillerson licenziato in ‎tronco da Trump. Insisterà sulla lotta a quello che sauditi e israeliani descrivono ‎‎«l’espansionismo‎» dell’Iran nella regione. A maggior ragione ora che ‎l’Amministrazione Trump non vede più nella Corea del Nord il nemico principale ‎degli Usa.‎
 A Bruxelles il Segretario di Stato si è mostrato relativamente conciliante con la ‎Turchia nonostante il dissenso espresso nei confronti dell’intenzione di Ankara di ‎dotarsi del sistema di difesa antimissile russo S-400. Pompeo ha lasciato capire al ‎ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu che gli Usa potrebbero rivedere il ‎sostegno offerto sino ad oggi alle milizie curde in Siria. Milizie che la Turchia ‎vuole cacciare, non solo da Afrin come ha già fatto, in nome di un peloso sostegno ‎all’integrità territoriale della Siria. Sostegno che Cavusoglu ha ribadito ieri a Mosca ‎durante il summit con il ministro russo Sergey Lavrov e l’iraniano Mohammad ‎Javad Zarif. Il vertice ha anche preparato il nuovo incontro dei tre Paesi ad Astana ‎per la ricerca di soluzione negoziata alla crisi siriana.‎

La Stampa 29.4.18
La guerra d’attrito fra Iran e Israele
di Maurizio Molinari


In Medio Oriente è incominciata una guerra d’attrito fra Iran e Israele che è frutto dei cambiamenti strategici in Siria, vede l’utilizzo di nuovi armamenti e tattiche, riflette gli interessi contrastanti di Mosca e Washington, e può degenerare in un conflitto regionale di maggiori dimensioni.
Le guerre d’attrito sono una delle tipologie dei conflitti mediorientali degli ultimi 70 anni. Subito dopo la nascita di Israele nel 1948, dai porosi confini con Giordania e Siria le incursioni armate arabe furono tali e tante da obbligare l’allora premier Ben Gurion a fronteggiarle creando una nuova unità - la 101 affidata ad Ariel Sharon - incaricata di combattere oltre confine così come fra il 1967 ed il 1970 le schermaglie quotidiane lungo il Canale di Suez furono la continuazione della Guerra dei Sei Giorni e consentirono all’Egitto di porre le basi per l’attacco a sorpresa che nel 1973 diede inizio alla guerra del Kippur. La guerra di attrito si verifica quando due o più Stati si combattono a distanza ravvicinata ma, per le ragioni più diverse, senza dare vita ad un conflitto di tipo tradizionale. È la versione contemporanea delle guerre tribali del deserto, la cui caratteristica è una situazione di costante conflittualità ma con intensità alterne.
Se ora Iran e Israele sono protagoniste di questo tipo di confronto è perché si tratta di Stati avversari che il conflitto siriano ha trasformato in vicini geografici.
L’Iran degli ayatollah ha designato Israele come nemico ideologico sin dalla rivoluzione khomeinista del 1979 ma ha poi ingaggiato sempre scontri indiretti - dalla metà degli Anni Ottanta per mezzo degli Hezbollah libanesi o dei pasdaran - fino all’attuale conflitto civile siriano che ha portato Teheran ad inviare truppe scelte, armamenti sofisticati e miliziani sciiti per sostenere il regime di Assad che ora, a missione compiuta, vengono rafforzati e consolidati per minacciare direttamente il territorio di Israele da basi situate a meno di un’ora di volo da Tel Aviv e Gerusalemme. Per Ali Khamenei, Guida Suprema della rivoluzione iraniana e capo indiscusso dell’apparato militare, avere uomini e mezzi a ridosso delle Alture del Golan è un risultato di prima grandezza: dimostra che l’impegno a distruggere «il regime sionista entro un massimo di 25 anni», come ha detto la scorsa settimana il generale iraniano Abdolrahim Mousavi, può essere concretamente raggiunto. L’obiettivo indicato da Khomeini di «estirpare il cancro sionista dalla Palestina» diventa per Teheran un’operazione militare che può essere concretamente progettata grazie alla possibilità di spostare liberamente uomini e mezzi lungo l’«autostrada sciita» come il re Abdallah di Giordania definisce la continuità territoriale, da Teheran a Beirut, fra Stati legati all’Iran da rapporti di alleanza o amicizia. Per Gadi Eisenkot, capo di Stato Maggiore israeliano, il rischio di conflitto è testimoniato dalla presenza di almeno cinque basi aeree iraniane in Siria a cui bisogna aggiungere un arsenale di «decine di migliaia di missili» in possesso di Hezbollah in Libano. Da qui la necessità di «uno scambio di intelligence fra Israele e Arabia Saudita» per far nascere in Siria un’alleanza de facto israelo-sunnita contro la minaccia comune di Teheran.
Sono questi evidenti cambiamenti strategici a fare da cornice alla sperimentazione di nuove armi su entrambi i fronti. A metà febbraio l’Iran ha inviato per la prima volta sui cieli di Israele un drone armato di ordigni dimostrando di poter condurre un nuovo tipo di attacchi contro obiettivi civili e militari. Il drone è stato abbattuto da un elicottero introducendo un inedito tipo di duello tattico in Medio Oriente: i droni riescono a perforare le difese antimissile e per abbatterli devono essere inseguiti da velivoli-cacciatori, come se fossero uccelli rapaci. Da parte sua Israele per colpire le base di Tyas, nella Siria Occidentale, dove l’Iran aveva accumulato un numero imprecisato di droni armati, ha adoperato a inizio aprile dei jet dotati di missili da crociera capaci di sfuggire ai radar russi ed operare a grande distanza. Dimostrando un controllo dei cieli della regione rafforzato dall’acquisto degli F-35 americani, velivoli capaci di trasformarsi in centrali elettroniche per qualsiasi tipo di intervento, aereo o terrestre.
Droni iraniani e F-35 israeliani sono armi al debutto, così come la tattica della «marea umana» è un’altra significativa novità tattica. Hamas la sta testando, oramai da quattro venerdì, lungo i confini della Striscia di Gaza per mettere in difficoltà con migliaia di civili le difese israeliane, ma quanto si prepara in Siria è di tutt’altra portata: gli oltre 80 mila miliziani sciiti, provenienti da più Paesi, che l’Iran sta ammassando in Siria potrebbero trasformarsi in una «marea umana» votata alla Jihad sul Golan capace di trafiggere le difese terrestri israeliane ed attaccare i centri civili in Galilea. Sono questi nuovi scenari di guerra che portano Abas Aslani, vicecomandante dei Guardiani della Rivoluzione, a dedurre che «i sionisti si trovano nelle fauci del dragone e presto dovranno fuggire in mare» essendo minacciati da una tenaglia formata da missili Hezbollah in Libano e miliziani sciiti in Siria. Avigdor Lieberman, ministro della Difesa israeliano, risponde minacciando l’escalation: «Se voi colpirete Tel Aviv, noi colpiremo Teheran». Ovvero, un conflitto regionale è possibile.
Tutto ciò riflette gli interessi conflittuali di Mosca e Washington perché il Cremlino considera l’Iran il più strategico dei suoi alleati in Medio Oriente mentre per la Casa Bianca si tratta del Paese portatore di maggiori pericoli collettivi, dal terrorismo alle armi di distruzione di massa. Ed inoltre mentre attorno al patto con Teheran la Russia sta costruendo una vasta area di influenza politico-energetica nella regione, gli Stati Uniti tentano di arginarla il più possibile facendo leva sul consenso dei Paesi sunniti e di Israele.
Insomma, la guerra d’attrito fra Teheran e Gerusalemme è appena all’inizio, ma l’impatto è già significativo. Innescando una nuova dinamica dalle conseguenze imprevedibili in Medio Oriente.

il manifesto 29.4.18
Cline, dal romanzo di Ceram alla distruzione di Palmira
Storia della'archeologia. Quasi settant’anni dopo «Civiltà sepolte» Eric H. Cline affronta con piglio educativo e divulgativo gli stereotipi dello studio del passato di fronte alle nuove domande sul mestiere di archeologo: «Tre pietre fanno un muro», da Bollati Boringhieri
Nemrut Dagi, Turchia, tomba santuario del re Antioco I di Commagene, terrazza ovest, statue colossali di pietra
di Valentina Porcheddu


Eric H. Cline – docente nel Dipartimento di Lingue e civiltà classiche del Vicino Oriente e direttore del Capitol Archaeological Institute presso la George Washington University – aveva sette anni quando la madre gli regalò The Walls of Windy Troy, una biografia per ragazzi che narrava l’epica impresa di Heinrich Schliemann. Folgorato dal libro tanto da manifestare la sua intenzione di diventare archeologo, quest’episodio ricorda le vicende dello scopritore di Troia, che a quasi otto anni ricevette in dono dal padre un volume di Storia illustrata e, nel vedere la figura di Enea in fuga dalle fiamme, promise di ritrovare, un giorno, i resti dell’alta rocca di Priamo. C’è dunque un po’ di profetico fulgore in Tre pietre fanno un muro La storia dell’archeologia (Bollati Boringhieri «Saggi», traduzione di Stefano Suigo, pp. 478, euro 26,00) di Eric H. Cline, pubblicato a sessantasei anni di distanza dalla versione italiana di un’opera cult sull’archeologia universale: Civiltà sepolte. Il romanzo dell’archeologia era apparso per la prima volta in Germania nel 1949, a firma dell’illustre giornalista C.W. Ceram (pseudonimo di Kurt Wilhelm Marek), nutritosi con testi di argomento storico e archeologico durante la prigionia subita nella Seconda Guerra Mondiale.
A un lettore attento e appassionato del tema non sfuggirà che Tre pietre fanno un muro ricalca la struttura di Civiltà sepolte, d’altra parte dichiarata dallo stesso Cline quale fonte d’ispirazione giovanile. Ambedue i volumi tracciano le tappe di una disciplina che ben prima della nascita del mito cinematografico di Indiana Jones, era capace di affascinare i non specialisti per il carattere misterioso e la propensione all’avventura. E se l’intento di Ceram – delineato con sentimento da Donatella Taverna nell’edizione aggiornata di Civiltà sepolte (Einaudi 1995) – fu di mettere in risalto il valore umano e morale derivante non già da una caccia al tesoro ma dalla «sofferta, meditata, pensosa ricerca» che, attraverso la multiformità dell’uomo, conduce alla scoperta di se stessi, ugualmente nobile è l’obiettivo di Cline. Egli si augura, infatti, che il materiale contenuto nel suo saggio possa stimolare nel più vasto pubblico il rispetto per il patrimonio storico-archeologico, al fine di salvaguardarlo dalla piaga dei saccheggi e delle distruzioni che affligge sia il Vecchio che il Nuovo mondo.
Per lo studioso americano, che vanta l’esperienza di una trentina di campagne di scavo in Israele, Egitto, Giordania, Cipro, Grecia, Creta e negli Stati Uniti, gli archeologi – pur provando a fermare l’«emorragia di eredità culturale» in corso – non possono sostenere l’intero fardello della tutela. Ogni abitante della Terra è chiamato a condividere la responsabilità di un passato da proteggere, soprattutto in conseguenza degli atti terroristici che hanno portato alla cancellazione di siti straordinari quali Palmira in Siria e Nimrud in Iraq. È con l’arma della verità scientifica che Cline intende inoltre contrastare gli pseudo-archeologi, divulgatori di teorie strampalate e produttori entusiasti di fake (old) news. Quest’ultima battaglia non è meno importante della prima, in un’epoca dove la comunicazione di massa – potenziata dall’avvento dei social-media – rischia di imboccare le strade incontrollate della fantasia, o peggio, dell’oltraggio al bene culturale considerato alla stregua di una merce.
Forse, l’autore avrebbe potuto compiere uno sforzo supplementare, non limitando alla prefazione le critiche (e i timori) sullo stato dell’archeologia, e citando nello sviluppo del testo qualcuna delle «cattive pratiche». Nel capitolo su Atlantide, ad esempio, egli espone le numerose ipotesi sull’identificazione dell’isola platonica con vari luoghi del Mediterraneo, tra cui spicca la greca Santorini, ma omette la recente «indagine giornalistica» che ha visto la Sardegna candidarsi – per mezzo di mostre patrocinate dall’Unesco e promozione turistica finanziata dalla Regione – a ricoprire il ruolo della leggendaria civiltà, scomparsa sotto il fango di uno tsunami inventato ad hoc. Nelle pagine dedicate alle Città del deserto, poi, sarebbe valsa la pena spendere qualche parola sulla triste fine di Palmira, la «Venezia delle sabbie», accennando magari alle problematiche che concernono la ricostruzione dei monumenti rasi al suolo dall’Isis.
Tuttavia, Cline ha il merito di aver elaborato quattro intermezzi, riuniti sotto il medesimo titolo di Scaviamo più a fondo, nei quali reagire alle domande che un archeologo si sente spesso rivolgere dai profani: come fate a sapere dove e in che modo scavare? A quando risale e perché si è conservato? Potete tenere quello che trovate? Le risposte consentono a Cline di prendere le distanze da tombaroli e studiosi improvvisati, argomentando in maniera dettagliata le metodologie di ricognizione e di scavo, e soffermandosi sui progressi degli ultimi decenni che hanno visto entrare in gioco sistemi di telerilevamento e applicazioni digitali.
Descritte con minuzia anche le tecniche di datazione, che offrono l’opportunità di raccontare alcune clamorose scoperte del ventesimo secolo quali i Guerrieri di Xi’an, custodi del viaggio nell’aldilà dell’imperatore cinese Qin Shi Huang, e la mummia di ötzi (o uomo del Similaun) intrappolata per migliaia di anni nei ghiacci delle Alpi. Degno di nota l’ultimo intermezzo sul destino degli oggetti, nel quale l’autore consegna dei precetti etici da tenere bene a mente in questo tempo di razzie e traffico illegale di reperti, alimentati sia da vittime di guerre e miseria talvolta perdonabili che da lucidissimi killer di civiltà.
Per il suo valore educativo, il libro di Cline andrebbe consigliato in particolare a coloro che – desiderosi di intraprendere studi antichistici – vogliono conoscere i segreti di una professione ancora eccessivamente stereotipata. Se, malgrado l’approccio romanzato, già Ceram aveva tentato di spogliare gli archeologi del ruolo di seducenti cercatori di tesori, con Cline ogni dubbio viene fugato: lo studio del passato, in tutte le sue declinazioni, rientra nel rango delle scienze, con regole codificate che non devono mai essere infrante a beneficio di interessi personali. Dal disvelamento dei siti vesuviani alle grandiose gesta di Howard Carter che mostrò all’Egitto il volto del faraone bambino passando per l’immancabile saga di Heinrich e Sophia Schliemann fra Troia, Tirinto e Micene; dalle grotte di Chauvet, Altamira e Lascaux dove splendono primordiali sussulti d’arte alle piramidi mesoamericane abbracciate dalla giungla fino agli abissi del mare popolati dal relitto delle meraviglie di Uluburun e dal sommergibile Hunley, la prosa di Cline è priva del piglio avvincente e dello stile colto di Ceram: ma ha il pregio di arrivare a chiunque con un linguaggio semplice e ricco di aneddoti personali, specie nei capitoli che riguardano le ricerche dell’autore a Megiddo (la biblica Armageddon) e Tel Kabri.
In un lavoro di così ampio respiro le lacune sono inevitabili ma la corposa bibliografia in appendice è di aiuto per eventuali approfondimenti. Originale, infine, l’epilogo del volume sull’archeologia del futuro. Riflettendo su cosa lasceremo ai posteri e sulle divertenti interpretazioni che potrebbero scaturire nel riportare alla luce gli edifici diroccati di Starbucks e McDonald’s, Cline ribadisce l’esigenza di preservare le rovine del passato per le generazioni che verranno.

il manifesto 29.4.18
Magrelli, tecniche per ritrovare la lingua perduta
I limiti della traduzione. Come «salvare» in italiano un delizioso componimento in rima di Yves Bonnefoy? Il traduttore è un Ercole sempre al bivio, spiega Valerio Magrelli nel suo nuovo saggio, teorico e sperimentale: «La parola braccata», il Mulino
di Alberto Fraccacreta


Immaginate che Yves Bonnefoy riceva una lettera di richiesta di collaborazione dai piccoli redattori del giornalino «Das Nashorn» (Il rinoceronte) della scuola Hermannsburg di Brema. Immaginate che il poeta francese accetti per simpatia ma, accludendo il componimento, precisi in un biglietto l’eccezionalità dell’impresa («Si tratta di qualcosa che non faccio mai»). Immaginate che la quartina donata reciti: «J’aime bien ce rhinocéros / Qui se croyait un albatros. / Il ne voyageait qu’en carrosse… / On en a retrouvé un os». Come si potrebbe tradurla in italiano (o, nel caso degli arditi Kinder Journalisten, in tedesco)? Quale strategia di resa sarebbe il caso di adoperare, considerata l’identica terminazione dei quattro octosyllabes?
Ricreare l’effetto sonoro
La storia, realmente accaduta, è riportata nell’intelligente La parola braccata Dimenticanze, anagrammi, traduzioni e qualche esercizio pratico (il Mulino «Saggi», pp. 217, € 20) di Valerio Magrelli, qui in veste di teorico – e pratico – della traduzione. Se la versione di servizio è «Amo assai quel rinoceronte / Che si credeva un albatros. / Viaggiava soltanto in carrozza… / Se n’è ritrovato un osso», l’autore romano suggerisce una sfilza di riscritture che, utilizzando un’espressione ibrida tra Jakobson e Nasi, potremmo definire interculturali: annodate cioè sul filo del raffronto tra incongrui – anche se contigui – mondi concettuali. La prima proposta si attacca alla parola «rinoceronte». «Amo davvero quel rinoceronte: / Albatros si credeva, all’orizzonte. / Viaggiava con il proprio automedonte… / Ne hanno trovato un osso della fronte». L’orizzonte e l’osso della fronte non sono presenti nell’originale. L’automedonte è l’auriga per antonomasia (ma viene invocato il diritto alla metonimia di Giuseppe Bevilacqua). La traduzione sembra, appunto, interlinguistica e interculturale: cerca di ricreare l’effetto sonoro-stilistico, utilizzando lemmi che girano attorno al cuore semantico del testo senza poterlo colpire del tutto.
La seconda soluzione è, invece, autentico virtuosismo. «Lui, dei rinoceronti il vero boss, / Pure, si riteneva un albatros. / Faceva solamente motocross… / Morto, di ossa ne rimane un po’». Quella che potrebbe benissimo suonare come la versione rap della filastrocca bonnefoiana (sarebbe piaciuta a Seamus Heaney, che amaval’hip-hop), non è un semplice passare al setaccio, ma esprime l’aspetto più doloroso del tradurre: lo scegliere, lo sciogliere, l’essere costretti a una decisione trasognata e mai adeguata alla materia, come Ercole al bivio nel quadro di Raffaello. Lo scarto è inevitabile, traducendo si perde. Anzi, la traduzione è una rammemorazione, la «chiara intuizione di quanto “si voleva dire”», o addirittura «lo sforzo di chi cerca di far risorgere dal nulla (dal non-linguaggio, specificherebbe Quignard) una parola svanita» sulla punta della lingua.
La traduzione è anche metafora dell’incomprensione relazionale, «cosa significa “relazione”?». Ricœur chiama in campo il concetto di «ospitalità linguistica», che ha il dovere di sanare le piaghe dell’incomunicabilità. Ma, come asserì Benjamin, il problema è forse più addietro: bisogna presupporre, all’alba dell’umanità, una lingua originaria, immacolata, perduta e irriconoscibile verso la quale, comunque, tutti gli idiomi tendono e dei cui «negativi» è possibile intravedere un risvolto proprio nell’atto traduttorio. Per tale ragione Magrelli riporta la celebre asserzione di Richards che associa la traduzione al «più complesso tipo di evento mai prodotto nell’evoluzione del cosmo». E per tale ragione la prima parte del saggio, quella squisitamente teoretica, è allineata alle maggiori acquisizioni in campo neurologico, come le «biografie cerebrali» di Lurija dedicate a uno mnemonista (affetto da ipertrofia della memoria) e a un logoleso, un paziente colpito al cranio durante la seconda guerra mondiale.
Un caso di eidotecnica
Assistiamo alle vicende del signor Šereševskij, letteralmente funestato dal linguaggio a causa delle sue enormi capacità visive legate all’eidotecnica. Egli vede le parole, è immerso in una «preistoria tattile» del logos che lo costringe ad avvertire persino il sapore, la consistenza, il colore (à la Rimbaud) dei vocaboli. «Mondo e linguaggio – commenta Magrelli – giungono a coincidere e sovrapporsi, in un universo mentale dove l’ipertrofia della memoria si rovescia in una sconsolata impossibilità di vivere una vita normale». La lingua bracca l’uomo, come a più riprese ci ha abituato lo stesso Magrelli in alcune sue liriche, fra tutte Porta Westfalica. Ma il destino di Zašeckij, segnato da una lesione all’emisfero cerebrale, è opposto e complementare: «Disertato dalle parole, spogliato della capacità di organizzare il mondo, rigettato in un analfabetismo percettivo, questo malato è un martire del linguaggio, un uomo esiliato da sé stesso». L’uomo che bracca la lingua, scrive le sue friabili memorie che non potrà mai leggere.
Braccato e braccante: la via del traduttore è a metà tra questi estremi. Lo dimostra la seconda parte del saggio, impegnata a sciogliere anagrammi, acrostici, indovinelli, calligrammi, sottotitoli di film. Alla maniera di Ercole prodicio, è necessario saper optare tra Bene e Male dentro l’irto terreno del transito linguistico. Ce lo ricorda anche il Gadda citato a mo’ di congedo da Magrelli: «So’ li dispiaceri che m’è toccato da passà». Dispiaceri di uno smemorato. E di un traduttore.

Il Fatto 29.4.18
Ultimo mistero Br: sparito il fascicolo su via Fracchia
28 marzo 1980 - Non si trovano le carte dell’inchiesta sull’irruzione dei carabinieri nel covo in cui fu ucciso Riccardo Dura. Furto o altro?
di Ferruccio Sansa


Sparito. Il fascicolo sull’irruzione dei carabinieri nel covo delle Brigate Rosse in via Fracchia non c’è più. La Procura di Genova ha aperto un’inchiesta per furto.
Il procuratore Francesco Cozzi la ricostruisce così: “Un anno fa abbiamo ricevuto l’esposto del ricercatore Luigi Grasso che chiedeva di riaprire le indagini sull’uccisione del brigatista Riccardo Dura, morto durante il blitz. Abbiamo chiesto al Tribunale di prendere il fascicolo su via Fracchia, ma nel loro archivio non c’era più. Risultava consegnato nel 2016 all’archivio di Stato di Morimondo, nel milanese. Ma l’archivio ha detto che nemmeno loro lo avevano”.
Nessuno ne sapeva niente. E nemmeno si riesce a ricostruire se davvero il trasferimento vi sia stato e chi abbia trasportato le carte su un episodio tanto importante della nostra storia. Unico indizio un post-it appiccicato sullo scaffale dove il fascicolo avrebbe dovuto essere conservato a Morimondo: documento prelevato, è scritto, senza specificare da chi. Incredibile, ma vero. Racconta Cozzi: “L’esposto di Grasso chiedeva di riaprire l’inchiesta. Ma per occuparci dell’unico reato non prescritto, l’omicidio volontario, dovrebbero emergere elementi nuovi. E per valutare se ci sono dobbiamo prima valutare quali erano gli elementi vecchi”. Quelli, appunto, contenuti nel fascicolo sparito. Così la Procura ha dovuto ricostruire tutto da zero. Grazie ai carabinieri sono stati recuperati documenti conservati dall’Arma. Con la collaborazione dell’istituito di Medicina Legale si sono recuperate altre carte.
Ma una parte del materiale è irrintracciabile, come le perizie balistiche. Il lavoro dei pm rischia di essere monco. Comunque resta l’ombra del fascicolo sparito. Rubato oppure smarrito? Ipotesi ugualmente allarmanti. E nessuno aveva fotocopiato o scannerizzato il materiale. L’irruzione dei carabinieri in via Fracchia avvenne il 28 marzo 1980. Morirono 4 brigatisti. Fu lo spartiacque, l’inizio della fine delle Br e della colonna genovese.
L’esposto di Grasso – ricercatore universitario che nel 1979 venne accusato di terrorismo e negli anni successivi fu prosciolto – sosteneva che “quello di Dura è stato un omicidio volontario, venne ucciso con un solo colpo alla nuca”. Grasso aveva presentato l’esposto dopo una ricerca personale negli archivi giudiziari. In quegli atti c’è la ricostruzione dei fatti fornita da Michele Riccio, il capitano che guidò l’assalto, uomo di fiducia del generale Carlo Alberto dalla Chiesa al quale era stato affidato il compito di condurre la battaglia contro le Br.
Ma anche la Commissione Moro ha tentato di ricostruire la vicenda di via Fracchia: “Tutto nasce – ricostruisce Federico Fornaro, membro della Commissione – quando nel 2014 chiedemmo ai Ris di esaminare le audiocassette ritrovate in alcuni covi delle Br. Volevamo capire se sotto le ultime registrazioni fossero stati incisi altri messaggi precedenti. Ci furono segnalate due cose: un comunicato che annunciava la presenza del corpo di Moro a Genova, vicino alla caserma di Forte San Martino. E poi la registrazione dell’interrogatorio di una collaboratrice dei terroristi davanti ai carabinieri”.
Ma come facevano le Br ad avere la registrazione di un audio delle forze dell’ordine? Anche su via Fracchia, sostiene Fornaro, restano dubbi: “Risulta acclarato che i carabinieri, arrivati al covo, scavarono anche in giardino. I vicini dissero che furono portati via dei sacchi neri. Ma nei documenti ufficiali non si fa cenno del giardino”. Fornaro aggiunge: “Uno dei magistrati genovesi parlò dell’esistenza nel covo di documenti dattiloscritti di Aldo Moro. Ma fu smentito da altri inquirenti. Nell’elenco dei documenti sequestrati in via Fracchia risultano soltanto un paio di fogli su Moro”.
Miguel Gotor, anche lui membro della Commissione Moro, aggiunge: “L’ipotesi che in via Fracchia vi fosse una parte dell’archivio Moro è più che una suggestione. Il magistrato genovese parlò di dattiloscritti, ma le sue affermazioni non ebbero seguito”. Cozzi comunque precisa: “Nei fascicoli spariti non c’era nulla di Moro”.

La Stampa 29.4.18
“Così mi costruisco un fidanzato robot”
di Gianluca Nicoletti


Donne è arrivato il robottone amoroso. È molto meglio programmare una love machine che cercare di educare un farlocco in carne e ossa. Bisogna però avere ancora un po’ di pazienza: c’è chi lavora alacremente alla costruzione del «fidanzato perfetto». Questo segnerà la fine di struggimenti e delusioni femminili per l’incapacità dei maschi a prodigare tenerezza, passione, frantumante libido e virile determinatezza.
Tutto all’unisono e con graduale somministrazione attraverso sapiente tecnica verbo-manual-vellicatoria, nella percentuale e tempi perfetti per il totale appagamento di ogni donna.
E’ chiaro che il naturale cammino evolutivo del sapiens-sapiens ancora impiegherebbe fanta-milioni di anni perché questo tripudio comportamentale possa prodursi in un umano di genere maschile, quindi è inevitabile che si debba accelerare l’evoluzione mascolina con l’upgrade che realizzi una totale riprogettazione del partner amoroso ideale, che implichi anche una radicale ricostruzione del suo hardware.
Su questo principio si sta articolando la fabbrica di «Gabriel2052», macchina d’amore che sostituirà ogni alternativa carnale alla solitudine e alla desolazione sensuale delle donne. Il progetto al momento è un grande laboratorio, l’ha annunciato su «Quartz» Fei Liu, una designer e artista di origine cinese che lavora a New York e il cui campo di studio è proprio l’empatia digitale. La tecno-artista e accademica di «solitudine digitale» a Stoccarda, afferma che al fidanzato perfetto stia lavorando sodo perché crede che una relazione forte vada costruita, robotica o meno che possa essere.
Al momento di «Gabrilel2052» si vede solo un braccio meccanico color «rosa Barbie», con una pinza capace di abbassare delicatamente la spallina del reggiseno di una ragazza, sfiorandola in contemporanea con una sensuale carezza della sua ergonomica chela metallica…
Non precipitiamo nel giudizio, ci si abituerà al succedaneo robottizzato della mano maschile, che dopo essersi dotata di pollice opponibile, più di 3 milioni di anni fa, ha bloccato la sua evoluzione in utensile specializzato, soprattutto non sembra aver ancora fatto grandi passi avanti nella tecnica della delicata spoliazione. Bisogna quindi ripartire da zero, immaginare un uomo nuovo, lontano da ogni modello tradizionale.
La macchina d’amore, nell’idea della progettista, non deve necessariamente essere umanoide; non si pensi «Gabrilel2052» come un derivato maschile del mondo delle real doll, quella è roba da porno shop. Non si tratta di un «progetto in carne» replicante dell’umano, alla Blade Runner, ma piuttosto Gabriel è un software e hardware open source che ognuna potrà aggiornate e adattare alle proprie esigenze e soprattutto le proprie esperienze.
Fei Liu profetizza con molta poesia le meraviglie di «Gabriel2052»: le sue parti motorizzate sapranno far venire la pelle d’oca, i suoi sensori rileveranno l’accelerarsi del respiro e sapranno adeguarne la risposta. Tenerlo accanto mentre si dorme darà la sensazione di un corpo che abbraccia a cucchiaio, ma che non suderà, non occuperà troppo spazio nel letto o cercherà di rubare i cuscini. Il massimo sarà che anche quando ci si separa dal fidanzato robot le sue carezze potranno continuare attraverso sensori incorporati nei vestiti, il suo tocco sulla pelle potrà essere avvertito in ogni momento della giornata.
La parte più innovativa e affascinante del progetto riguarda però una vera e propria «riprogettazione della relazione». «Gabriel2052» in realtà non è destinato a sostituire un essere umano, piuttosto diventa il pretesto per riscrivere nuove maniere di sviluppare un rapporto amoroso. Dovrà essere un automa intelligente e sensibile, ma non schiavo dei desideri della sua fidanzata. Sarà anche oppositivo e con carattere eccentrico, ma senza mettere in necessariamente campo tutta quella gamma di rifiuti, contrasti, incomprensioni ed egoismi che rendono già difficili i rapporti tra umani.
Il punto di arrivo dovrebbe essere una fusione di qualità umane e cyborg che ridefinisca la storia sentimentale del futuro. La felicità amorevole delle prossime generazioni di donne potrebbe essere nelle mani di una ragazza cinese che, invece che cercare un fidanzato per sé se lo sta costruendo, infilando più dati possibili nell’algoritmo d’apprendimento del suo «Gabriel2052», perché possa un giorno diventare il fidanzato ideale di tutte.

La Stampa 29.4.18
La brigata dei brasiliani che liberò Tortona dall’incubo del fascismo
Il libro e il video di un tenente medico di 97 anni Oggi in Comune la rievocazione dell’evento
di Maria Teresa Marchese


C’è anche chi per la liberazione dal regime fascista dice grazie al Brasile. A Tortona furono le truppe alleate del Paese carioca ad entrare in città il 29 aprile 1945 e questa mattina il Comune con una cerimonia commemorativa e un corteo rievoca quell’ingresso che i tortonesi più anziani ricordano con grande emozione. Parteciperanno il direttore del Monumento votivo militare brasiliano di Pistoia, Mario Pereira; lo storico e collezionista Giovanni Sulla; il colonnello Ricardo Augusto do Amaral Peixoto, addetto militare all’ambasciata del Brasile a Roma.
Il corteo, con una decina di mezzi militari d’epoca, fra cui le jeep Willys, entrerà in municipio per una simbolica liberazione della città da parte della Força expedicionària brasileira (Feb). Tra quei soldati, Carlos Enrique Bessa ha raccontato in un libro, Fotos e relatos da guerra & outras memòrias, pubblicato nel 2017, la sua esperienza in Italia e a Tortona. Era un tenente medico in prima linea dove venivano curati i feriti, aveva 24 anni quando tornò dalla guerra. Oggi ne ha 97. Un suo video messaggio, che dal Brasile saluta e ricorda Tortona, oggi sarà uno dei momenti più toccanti della cerimonia. «Ero a Tortona quando ho sentito le grida: «La guerra è finita» - ricorda il dottor Bessa -. Si formavano gruppi per festeggiare, io mi sono unito a uno di loro. C’era gente che piangeva di gioia. Vi ringrazio per mantenere viva la memoria di quelli che sono caduti per ritornare alla libertà che oggi è tanto preziosa per tutti noi. Grazie Tortona».
Il sindaco, Gianluca Bardone, leggerà il saluto alle truppe brasiliane da parte del sottoprefetto di Tortona Pietro Borgarelli, che il 6 maggio 1945 ricevette in Comune il comando della Feb. Nel documento, custodito nell’archivio comunale, è scritto fra l’altro: «La cittadinanza tortonese è fiera di poter salutare le gloriose truppe che hanno dato esempio di eroismo e sacrificio per ridare ai popoli oppressi dalla tirannide nazi-fascista la maggiore delle conquiste umane, la Libertà». Il contingente brasiliano, che aveva il suo quartier generale ad Alessandria dal 30 aprile fino al ritiro delle truppe nell’estate, presidiava una vasta zona della Pianura Padana tra basso Piemonte, aree pavesi e piacentine.
La presenza della Feb, anche se durò per poche per settimane, ha lasciato un ricordo vivido in chi ha conosciuto quei soldati solari, pronti a organizzare balli e feste.

Corriere Salute 29.4.17
Il sonno ripulisce il cervello per far posto a cose nuove
Finora si è creduto che durante la notte le sinapsi, le giunzioni fra le cellule nervose, venissero rinforzate per consolidare quanto appreso Una nuova ipotesi formulata da due italiani sostiene che invece vengono indebolite allo scopo di eliminare ricordi inutili in modo da dare spazio ad altri
di Danilo di Diodoro


Ogni notte, durante le fasi di sonno profondo, il nostro cervello si libera di una gran parte di quanto aveva imparato nelle ore precedenti, eliminando con stupefacente abilità solo le informazioni ritenute, dallo stesso cervello, poco significative e non particolarmente integrabili con il grande castello della memoria che ciascuno di noi ha costruito con il passare degli anni. Questa selezione avviene non solo senza partecipazione cosciente, ma durante le fasi di sonno più profondo, quindi davvero a nostra completa insaputa.
Così, la mattina dopo, abbiamo di nuovo a disposizione solo ciò che serve davvero.
È l’ipotesi dell’Omeostasi Sinaptica formulata da Giulio Tononi e Chiara Cirelli due ricercatori italiani che lavorano alla University of Wisconsin di Madison, che parleranno al Festival della Scienza Medica che si terrà a Bologna dal 3 al 6 maggio. E ci sono già prove di questo meccanismo nel cervello dormiente.
Che il sonno contribuisse a stabilizzare l’apprendimento era già stato ipotizzato. Diversi studi avevano rilevato che l’attività cerebrale notturna ricalca in parte le attività della giornata precedente, una sorta di replay delle funzioni cerebrali finalizzato a stabilizzare le nuove acquisizioni attraverso il rafforzamento delle sinapsi (i punti di contatto e comunicazione tra i neuroni) che si attivano quando si impara qualcosa di nuovo: un processo chiamato potenziamento sinaptico.
L’ipotesi di Tononi e Cirelli, è che il potenziamento sinaptico, al contrario, avvenga quando siamo svegli e impariamo, ma che non continui mentre si dorme. «Anzi, l’effetto finale di una buona dormita dev’essere l’indebolimento della maggioranza delle sinapsi, così da permetterci di imparare nuove cose il mattino dopo» sottolinea Cirelli.
Il sonno è il prezzo da pagare per imparare. Ma perché non si può continuare a rafforzare le sinapsi giorno dopo giorno? «Cruciale è il consumo di energia» spiega l’esperta. «Il nostro cervello consuma circa il 20% dell’energia complessiva dell’organismo, due terzi della quale se ne va per l’attività delle sinapsi, dal momento che per imparare in maniera duratura le sinapsi devono essere continuamente rafforzate o addirittura se ne devono formare di nuove».
È come una fabbrica che deve produrre sempre nuovi materiali, che in questo caso sono mitocondri, vescicole sinaptiche cariche di neuromediatori, proteine e altre sostanze necessarie per il buon funzionamento del cervello. Ma quale fabbrica può lavorare incessantemente giorno e notte? Inoltre, se tutte le sinapsi continuano a rafforzarsi, alla fine raggiungono la saturazione, e non sono più in grado di essere modificate, e questo bloccherebbe ulteriori apprendimenti.
In accordo con l’ipotesi dell’Omeostasi Sinaptica, studi recenti hanno dimostrato che se da una parte la grande maggioranza delle sinapsi si indebolisce durante il sonno, quelle attivate da recente apprendimento sembrano invece rimanere stabili, esprimendo molecole che inibiscono il loro indebolimento, o quanto meno lo rendono meno efficace. Quindi si rafforzano in termine relativi, perché tutte le altre sinapsi si indeboliscono.
Smontando quei pezzi che non rappresentano informazioni degne di essere tenute in memoria, il sistema torna all’omeostasi, una situazione di nuova stabilità anche energetica, che consentirà la mattina dopo di riprendere l’attività di apprendimento. Si tratta quindi di un vero e proprio processo di dimenticanza non casuale, ma intelligente.
Esiste inoltre una relazione tra la potatura delle sinapsi che avviene durante il sonno e quella tipica dell’adolescenza, quando il cervello va incontro a una completa trasformazione, basata proprio sul taglio di un numero enorme di sinapsi e collegamenti, come se dovesse liberarsi dell’inessenziale per affrontare meglio la vita. Spiega ancora Cirelli: «In studi condotti nei topi adolescenti abbiamo visto che la potatura delle sinapsi avviene di continuo, sia nel sonno sia nella veglia, quindi il sonno non è una condizione indispensabile, anche se tende a facilitare la potatura. In un cervello ancora in via di sviluppo sembra che il sonno non solo porti all’indebolimento delle sinapsi, ma in parte faciliti anche la loro scomparsa».
Ci si chiede anche se sarà possibile prima o poi riuscire a intervenire su questi meccanismi per tentare di governare ciò che vogliamo ricordare o dimenticare. «Forse» conclude l’esperta. «Alcuni studi hanno usato un replay “forzato” durante il sonno per rendere più robuste alcune memorie o per indebolirne altre. Sono però tecniche da usare con cautela, perché i risultati spesso sono inaspettati e difficili da interpretare, e le conseguenze a lungo termine non del tutto chiare. È ancora molto difficile collegare direttamente quello che succede a livello di sinapsi con il risultato che si vede a livello comportamentale — ricordare o dimenticare».

Corriere Salute 29.4.17
Stato di coscienza, sonno e anestesia
di D.d.D.


Mentre leggiamo questo articolo sul giornale, le informazioni provenienti dalle parole scritte entrano per mezzo degli occhi nel cervello e stimolano diverse aree cerebrali tra loro collegate, facendoci capire il significato di quello che leggiamo.
Nello stesso tempo siamo coscienti dell’ambiente nel quale ci troviamo, di eventuali suoni e odori che ci raggiungono, e soprattutto siamo coscienti di essere qui in questo momento, lungo il flusso della nostra vita. Ciascuno con i suoi ricordi personali, i desideri e le preoccupazioni, che fanno di ognuno quella unica e irripetibile persona.
Siamo vivi, siamo coscienti. È un’esperienza straordinaria, ma alla quale siamo talmente abituati che non ce ne curiamo più di tanto.
Eppure la coscienza di sé e dell’ambiente circostante è uno dei grandi misteri dell’esistenza, fino a pochi anni fa oggetto di riflessione da parte di filosofi, senza che la scienza fosse riuscita a espugnare i suoi segreti.
Ora alcuni squarci su che cos’è e su come si genera lo stato di coscienza cominciano ad aprirsi grazie a ricerche sul sonno e sui meccanismi dell’anestesia.
«I primi studi sui correlati neurali della coscienza si erano concentrati sul confronto dell’attività cerebrale durante la veglia, il sonno o in corso di anestesia generale» spiega Giulio Tononi. «Queste indagini avevano suggerito il coinvolgimento di vaste aree della corteccia cerebrale fronto-parietale. Tuttavia è chiaro che tra la veglia, il sonno o l’anestesia non cambia solo l’ esperienza cosciente, ma si modificano anche il comportamento, la capacità di rispondere agli stimoli e tante altre variabili. In studi recenti abbiamo confrontato presenza e assenza di coscienza all’interno dello stesso stato comportamentale, per esempio durante il sonno non-Rem. In un terzo dei casi quando si sveglia un soggetto dal sonno non-Rem riferirà di “essere emerso dal nulla”, ossia di essere stato incosciente. In un altro terzo dei casi, riferirà invece un sogno anche vivido, con forme, colori e suoni, mentre nel rimanente terzo dei casi il soggetto dirà di avere sognato, ma di essersi dimenticato il contenuto dei sogni. In tutti i casi, il soggetto dormiva ed era insensibile agli stimoli, e la corteccia cerebrale nell’insieme mostrava le tipiche onde lente del sonno non-Rem. Tuttavia, il confronto tra il sonno senza sogni con quello con sogni ha rivelato che quando sogniamo le onde lente del sonno si attenuano o scompaiono in regioni specifiche della corteccia cerebrale posteriore, in particolare aree sensoriali e associative. Questi studi suggeriscono che i correlati neurali della coscienza non si estendano all’intera corteccia cerebrale. Resta aperto il quesito del perché proprio queste regioni posteriori, e non altre, facciano la differenza tra essere cosciente — vedere, sentire, pensare — e non esserci».
Anche gli studi realizzati sullo stato di anestesia hanno dato un importante contributo alla comprensione della coscienza.
Sottolinea Tononi: «La differenza principale tra l’anestesia e le varie fasi del sonno è che, con la maggioranza degli anestetici generali, la coscienza svanisce insieme alla capacità di reagire a stimoli esterni; nel sonno invece, anche se non rispondiamo più agli stimoli esterni, la coscienza rimane molto spesso in forma di sogni, nei due terzi dei casi nel sonno non Rem, e nel 90% dei casi nel sonno Rem. A complicare le cose, va anche detto che però esistono anestetici, come la ketamina, che inducono immobilità e assenza di risposta agli stimoli, accompagnate tuttavia da sogni vividi e persistenti».

Corriere La Lettura 29.4.18
Il filosofo catalano Josep Maria Esquirol
La ribellione educata: ci salverà la fratellanza
di Elisabetta Rosaspina


La sua è una ribellione educata, silente, caparbia. Una rivolta che arriva da Barcellona, ma non s’indirizza contro Madrid. Può essere confusa con l’individualismo, eppure è l’esatto contrario. Si fonda sulla fratellanza, però non si riconosce in una fede religiosa. Semmai s’ispira a Theodor Adorno, Blaise Pascal, Walter Benjamin, soprattutto Emmanuel Lévinas e Jan Patocka. È l’opposizione garbata ed erudita a un immenso e sfuggente oppressore che il filosofo catalano Josep Maria Esquirol riassume nel termine actualidad. Ha a che vedere con l’egemonia di un mondo dove la tecnologia, portata all’eccesso, diventa alienante. Dove tutto invecchia in fretta. Dove la società, schiava della bulimica ansia di esibirsi e competere, ha perso il senso della vita e incassa massicce dosi di frustrazione.
Nel saggio La resistenza intima (Vita e Pensiero), Esquirol avverte: «Non esiste resistenza senza modestia o generosità. Per questo, la presunzione e l’egoismo sono sintomi della sua assenza. Narciso non è un resistente». Esquirol, personalmente, sfugge da tempo ai salotti e ai dibattiti televisivi, le ambitissime tertulias spagnole, e segue le indicazioni di Novalis: «Filosofia è la nostalgia di stare a casa». Anche evitando talk show e cenacoli, il filosofo catalano è ormai un punto di riferimento: il suo libro (a cui presto si aggiungerà un seguito) è uscito in Spagna per i tipi di Acantilado nel 2015, si è diffuso con il passaparola anche tra il pubblico non specializzato e gli ha portato il prestigioso Premio nazionale di saggistica, conferito dal ministero della Cultura. Fra poco Esquirol verrà in Italia: prima dell’incontro al Bergamo Festival Fare la Pace (vedi la scheda qui accanto), sarà a Milano il 10 maggio presso la Libreria Vita e Pensiero (Largo Agostino Gemelli 1, ore 17.30) per presentare il suo saggio.
Professor Esquirol, si può dire che questo libro parla delle debolezze umane: l’ansia di successo, il protagonismo...
«L’idea generale di questo saggio è che l’essere umano si trova sempre in situazioni dove agiscono forze disgregatrici. Sono molti gli elementi disgregatori che toccano la nostra società: sì, certamente, il successo è uno di questi. Così come la competizione, il consumismo. Diventa quindi un gesto umano fondamentale tentare di proteggerci, curarci, difenderci da ogni tipo di logoramento, di entropia. Si tratta di resistere di fronte a tutto ciò che ci disgrega».
Ed ecco l’antidoto, la «filosofia della prossimità»: un invito al recupero della semplicità quotidiana, alla riscoperta della solitudine. Quindi all’autonomia del singolo?
«No, in assoluto no. Non è una forma di individualismo. Anzi. Prossimità e prossimo hanno la stessa radice, giusto? Prossimità indica vicinanza, amicizia, cameratismo, affetto. È proprio l’opposto dell’individualismo, dell’isolamento. Distinguiamo fra isolamento e solitudine: il primo è tipico di una società consumista e massificata, formata da individui sempre più isolati. Mentre la seconda è propedeutica alla buona compagnia: chi sta bene con sé stesso riesce a stabilire anche buoni rapporti con gli altri».
Quando però parla di ritorno al focolare, al tepore della vita domestica, non rischia di escludere automaticamente i senza famiglia, i single, sempre più numerosi?
«Attenzione, io non sto difendendo la famiglia, ma le relazioni interpersonali significative. Tra le varie forme di legami del genere c’è sicuramente anche la famiglia. Ma non soltanto. Non sto portando a modello la famiglia tradizionale».
Il concetto di resistenza presuppone un avversario cui opporsi. Chi è il nemico?
«Resistenza, per me, ha due significati: uno, davanti a ciò che erode; due, davanti a ciò che domina, utilizzando in questo caso la definizione politica del termine, ma riferita all’aspetto antropologico».
In parole più semplici?
«Resistere al dominio della omogeneità. Questo porta naturalmente a situarsi ai margini della società, ma non significa disertare, quanto curare una forma di vita alternativa a quella dominante».
D’accordo, ma come, in pratica?
«In pratica? La risposta è la stessa che si potrebbe dare a domande tipo: come si ha cura dei propri alunni? Come ci si fa degli amici? Le relazioni sono sempre feconde. Lo vedo nel mio ambito professionale: generazioni di studenti sono stati influenzati da questo modo di procedere e si è creata una rete di resistenza che coinvolge ormai anche allievi dei miei ex allievi. Non è stato un discorso astratto: sono laureati che adesso lavorano negli ospedali, nelle carceri...».
Nelle università…
«Esatto. L’università è un buon esempio. La tendenza dominante è trattare gli alunni come fossero clienti. Se dico che l’università è la comunità dei maestri e dei discepoli alla ricerca della verità, può suonare antiquato, vero? Ma anche solo connettendosi con i propri studenti si creano una ricchezza e una forza incredibile. Resistenza è connettersi con gli altri».
Nel mondo accademico è forse già più evidente: e in quello delle persone comuni? Come «resistono» una commessa o un muratore?
«Ci sono professioni che lo facilitano, è chiaro. Ma si possono incontrare persone altrettanto amabili e attente anche laddove il vincolo è basato soltanto su uno scambio commerciale. Basta manifestare gratitudine, generosità, gentilezza al prossimo. Interessarsi, parlare di qualcosa che esuli dalla ragione puramente tecnica o commerciale dell’interazione. Non sono richiesti atti eroici. Il mondo vive di gesti di riconoscenza quotidiana e di cortesia, senza i quali diventerebbe un pianeta inospitale. Non che non s’incontrino anche persone egoiste, competitive e distratte, ma ci sono anche quelle che ti augurano il buongiorno. Senza di loro il mondo non sarebbe sopportabile».
Ed è questo che mostrerebbe a un angelo caduto dal cielo, dovesse mai incontrarlo, come scrive nel suo «elogio della quotidianità»?
«Sì, immagino che, dovendo mostrare qualcosa di noi a una creatura angelica che non conosce la Terra, cercheremmo di impressionarla con racconti, luoghi straordinari o meravigliosi monumenti. Invece non c’è nulla che potrebbe sorprenderla di più delle piccole cose che compongono la nostra esistenza quotidiana e che a noi appaiono banali. Magari fossimo capaci di osservarle, ogni tanto, con gli occhi di un angelo che le scopre per la prima volta!».
Troveremmo anche noi più accogliente una capanna di un castello? È questo che intende quando scrive che un alloggio modesto è più casa di un palazzo enorme?
«Il sostantivo “casa” in sé non è importante. In spagnolo, il verbo casar significa riunire, completare, coordinare, combinare elementi che creano uno spazio caldo. La parte fondamentale non riguarda la struttura architettonica. Voglio dire che noi esseri umani viviamo sempre nelle intemperie, ma abbiamo un focolare. Se malati, un ospedale. Abbiamo una protezione. Una piccola casa in un villaggio è più accogliente di un castello solitario in cima a una montagna».
Viviamo troppo di apparenze?
«Sì, c’è un’enorme voglia di apparire. L’eccessiva esposizione toglie spazio al raccoglimento. Un filosofo tedesco del XX secolo, Walter Benjamin, diceva che la trasparenza è nemica del mistero. Con internet e i social i giovani comunicano di più, e questo va bene, ma un eccesso è controproducente, perché impedisce di prendersi cura di sé stessi. Porta a perdersi».
La formazione cattolica incide sulle sue convinzioni filosofiche?
«Siamo tutti figli di Atene e di Gerusalemme», ride, «ma il mio discorso non è subordinato ad alcun tipo di credo: piuttosto è antropologico, tratta della condizione umana. Qualche riferimento, sì, c’è, ma è normale. La Bibbia fa parte della nostra cultura».
Per esempio, quando afferma che la morte è un ritorno a casa, non si riferisce a quella del Padre?
«No. Anzi, nel prossimo libro criticherò l’idea della ricerca del paradiso perduto. Ci fa più male che bene».
E quando evoca l’importanza dello «stare insieme a tavola», di condividere pane, parole e gesti, non si richiama all’Eucarestia?
«Quel che conta per me è la fraternità. Che nessuno si ponga al di sopra dell’altro, ma al suo fianco. Che le persone si scambino sguardi laterali e non dall’alto in basso. Siamo tutti allo stesso livello».
Vale anche per i rapporti tra Madrid e Barcellona?
«Non so come andrà a finire per la Catalogna. Ma mi auguro che si possa trovare una sintonia e che si arrivi al dialogo. Alla pari, però, riconoscendo il proprio interlocutore. Se una parte si sente superiore all’altra, non c’è soluzione possibile».