Corriere 15.4.18
Kaplan: «Lo zar è prudente Ha una visione, gli Usa no Ma si scontrerà con l’Iran»
di Massimo Gaggi
«Con
l’attacco missilistico Donald Trump e i suoi alleati mandano un
messaggio forte a Vladimir Putin e alla leadership iraniana, oltre che
ad Assad. Ma l’aggravamento della crisi in Siria è anche frutto
dell’atteggiamento ondivago degli Stati Uniti, dei vuoti lasciati in
quell’area: le armi chimiche sono state usate alle porte di Damasco
subito dopo l’annuncio del ritiro americano».
Celebre analista di
affari internazionali, autore di ben 18 libri, ma anche giornalista che
ha seguito sul campo tutti i conflitti degli ultimi decenni, dai Balcani
all’Africa, passando per Iraq e Afghanistan, Robert Kaplan non è
affatto impressionato dai «venti di guerra» in Medio Oriente.
Non
la colpisce nemmeno l’uso di armi chimiche da parte di Assad e
l’appoggio che il Cremlino continua a garantirgli? O pensa anche lei che
siano fake news?
«L’uso dei gas è un crimine da condannare,
ovvio. Ma Trump, annunciando il ritiro, ha mandato un segnale
interpretato da Assad come un semaforo verde: via libera
all’eliminazione delle ultime sacche di resistenza che ancora minacciano
il suo regime. Putin ha le sue responsabilità, ma nella partita siriana
è stato, in realtà, abbastanza prudente. Nonostante Damasco sia stata
nell’orbita d’influenza russa fin dai tempi dell’Urss, dalla metà degli
anni Sessanta, il Cremlino non è intervenuto in Siria fino a quando non
si è convinto che Barack Obama non aveva alcuna intenzione di impegnarsi
in quell’area. E anche nello scontro attuale è evidente che si punta a
una guerra solo di parole».
Cosa la porta ad escludere che ci siano grossi pericoli in vista?
«L’attacco
americano è stato concepito in modo da minimizzare il rischio di una
rappresaglia russa. La volontà di evitare un allargamento del conflitto è
forte tanto a Mosca quanto a Washington. Questo è stato un attacco
molto limitato: preciso, di entità contenuta, preannunciato. Il
messaggio inviato è il monito ad Assad e a ogni dittatore a non usare
armi di distruzione di massa, non è il preannuncio di un allargamento
del conflitto. Gli Usa e i suoi alleati non stanno dicendo che faranno
la guerra: dicono solo che chi usa armi chimiche deve aspettarsi
risposte militari che gli causeranno danni e perdite superiori a quelle
da lui inflitte usando questi ordigni».
Continuerà l’espansione dell’influenza russa nel Mediterraneo oltre l’Egitto?
«Gli
Stati Uniti sicuramente pagano il loro caos diplomatico: la Russia ha
una strategia precisa. L’Iran anche e pure Israele. L’America non ne ha
nessuna: vaga dal disimpegno di un giorno all’attacco militare del
giorno dopo. Detto questo, il credito di cui gode Putin in Medio Oriente
è legato a come ha difeso Assad: colpendo il dittatore di Damasco si
mette sulla difensiva anche il Cremlino. Le ambizioni più pericolose
nell’area, però, non sono quelle russe, ma quelle di Teheran che sogna
un’egemonia imperiale dall’Iran fino al Mediterraneo. Eccessivo e
pericoloso: prima o poi Putin si troverà in conflitto con l’alleato
iraniano».
Il radicale Bolton al posto di un moderato, il generale
McMaster, a fianco di Trump. Di nuovo la retorica di «Mission
Accomplished», come nelle guerre di Bush. Non la spaventa?
«Bolton
è di certo più estremista, ma, per le sue competenze, penso si occuperà
soprattutto della questione coreana mentre il Medio Oriente rimarrà
terreno per il capo del Pentagono: il generale Mattis è uomo di grandi
capacità analitiche, un realista moderato. Ed è il più profondo
conoscitore di quell’area per l’attività svolta lì da militare».
Cosa la colpisce di più di questo conflitto, a confronto con quelli che ha seguito in passato?
«L’effetto
di cyberdisruption informativa. Campagne di disinformazione
sull’andamento di un conflitto ce ne sono sempre state. Fin dalla Prima
Guerra Mondiale. Ma non si era mai visto nulla dell’intensità dei giorni
nostri: i media fanno ormai parte del fronte di guerra. Prevalere nella
battaglia dell’informazione diventa quasi più importante di una
vittoria sul campo».