Corriere 14.4.18
La prima guerra di troll e fake news
di Massimo Gaggi
La
guerra delle parole non uccide come quella fatta col gas nervino, ma ha
effetti d’intossicazione della opinione pubblica ancor più gravi in
un’epoca dominata dalla frammentazione delle fonti d’informazione: siamo
ormai immersi in un rumore di fondo che disorienta. Fin qui, la
diffusione delle teorie dei complotti è cresciuta man mano che canali
digitali incontrollati prendevano il sopravvento su quelli
dell’informazione tradizionale: teorie alimentate dalla naturale
propensione del web a premiare le posizioni più estreme o le tesi più
fantasiose, ma anche dalla diffusione di troll coi quali i servizi
segreti di un Paese cercano di inquinare il tessuto informativo di una
nazione avversaria.
Nell’ultima fase della crisi siriana stiamo
assistendo a un ulteriore salto di qualità: mentre continuano ad
apparire sui siti le tesi più fantasiose (come quella che attribuisce il
conflitto alla decisione americana di finanziare ribelli di ogni
genere, Isis compreso, per punire Assad, reo di aver negato nel 2009 il
permesso di transito di un oleodotto del Qatar sul suo territorio) e
mentre il Pentagono denuncia che dopo l’attacco missilistico le
infiltrazioni di troll russi nei canali informativi americani sono
aumentati del duemila per cento, ora è lo stesso Cremlino a esporsi
direttamente nella battaglia sulle fake news. Il ministro degli Esteri
Lavrov e quello della Difesa Sojgu ci «mettono la faccia» accusando il
governo britannico di aver fabbricato a tavolino la falsa storia
dell’uso di armi chimiche a Douma, nonostante l’evidenza dei filmati,
nessuno dei quali è stato fin qui contestato. La disinformazione diffusa
in tempo di guerra per demoralizzare il nemico ha una storia secolare,
ma una campagna di questa intensità è senza precedenti. E senza
precedenti è anche il successo russo nel diffondere le sue tesi in parti
importanti delle società europee (facilitato dal fatto che le fonti che
denunciano gli attacchi col gas non sempre sono trasparenti).
Ormai,
dice Robert Kaplan in un’intervista che pubblichiamo oggi, anche la
stampa è al fronte: vincere la guerra mediatica diventa importante
quanto e forse più che vincere quella sul campo.