giovedì 12 aprile 2018

Corriere 12.4.18
il vangelo è una speranza anche per l’economia
Il testo è la prefazione al libro «Potere e Denaro, La giustizia sociale secondo Bergoglio» a cura di Michele Zanzucchi, Edizioni Città Nuova
di Francesco


L’ economia è una componente vitale per ogni società, determina in buona parte la qualità del vivere e persino del morire, contribuisce a rendere degna o indegna l’esistenza umana. Perciò occupa un posto importante nella riflessione della Chiesa, che guarda all’uomo e alla donna come a persone chiamate a collaborare col piano di Dio anche attraverso il lavoro, la produzione, la distribuzione e il consumo di beni e servizi. Per questo, sin dalle prime settimane del pontificato, ho avuto modo di trattare questioni riguardanti la povertà e la ricchezza, la giustizia e l’ingiustizia, la finanza sana e quella perversa.
Se oggi guardiamo all’economia e ai mercati globali, un dato che emerge è la loro ambivalenza. Da una parte, mai come in questi anni l’economia ha consentito a miliardi di persone di affacciarsi al benessere, ai diritti, a una migliore salute e a molto altro. Al contempo, l’economia e i mercati hanno avuto un ruolo nello sfruttamento eccessivo delle risorse comuni, nell’aumento delle disuguaglianze e nel deterioramento del pianeta. Quindi una sua valutazione etica e spirituale deve sapersi muovere in questa ambivalenza, che emerge in contesti sempre più complessi.
Il nostro mondo è capace del meglio e del peggio. Lo è sempre stato, ma oggi i mezzi tecnici e finanziari hanno amplificato le potenzialità di bene e di male. Mentre in certe parti del pianeta si annega nell’opulenza, in altre non si ha il minimo per sopravvivere. Nei miei viaggi ho potuto vedere questi contrasti più di quanto mi sia stato possibile in Argentina. Ho visto il paradosso di un’economia globalizzata che potrebbe sfamare, curare e alloggiare tutti gli abitanti che popolano la nostra casa comune, ma che — come indicano alcune statistiche preoccupanti — concentra nelle mani di pochissime persone la stessa ricchezza che è appannaggio di circa metà della popolazione mondiale. Ho constatato che il capitalismo sfrenato degli ultimi decenni ha ulteriormente dilatato il fossato che separa i più ricchi dai più poveri, generando nuove precarietà e schiavitù.
L’attuale concentrazione delle ricchezze è frutto, in buona parte, dei meccanismi del sistema finanziario. Guardando alla finanza, vediamo inoltre che un sistema economico basato sulla prossimità, nell’epoca della globalizzazione, incontra non poche difficoltà: le istituzioni finanziarie e le imprese multinazionali raggiungono dimensioni tali da condizionare le economie locali, mettendo gli Stati sempre più in difficoltà nel ben operare per lo sviluppo delle popolazioni. D’altronde, la mancanza di regolamentazione e di controlli adeguati favorisce la crescita di capitale speculativo, che non si interessa degli investimenti produttivi a lungo termine, ma cerca il lucro immediato.
Prima da semplice cristiano, poi da religioso e sacerdote, quindi da Papa, ritengo che le questioni sociali ed economiche non possano essere estranee al messaggio del Vangelo. Perciò, sulla scia dei miei predecessori, cerco di mettermi in ascolto degli attori presenti sulla scena mondiale, dai lavoratori agli imprenditori, ai politici, dando voce, in particolare, ai poveri, agli scartati, a chi soffre. La Chiesa, nel diffondere il messaggio di carità e giustizia del Vangelo, non può rimanere silente di fronte all’ingiustizia e alla sofferenza. Ella può e vuole unirsi ai milioni di uomini e donne che dicono no all’ingiustizia in modo pacifico, adoperandosi per una maggiore equità. Ovunque c’è gente che dice sì alla vita, alla giustizia, alla legalità, alla solidarietà. Tanti incontri mi confermano che il Vangelo non è un’utopia ma una speranza reale, anche per l’economia: Dio non abbandona le sue creature in balia del male. Al contrario, le invita a non stancarsi nel collaborare con tutti per il bene comune.
Quanto dico e scrivo sul potere dell’economia e della finanza vuol essere un appello affinché i poveri siano trattati meglio e le ingiustizie diminuiscano. In particolare, costantemente chiedo che si smetta di lucrare sulle armi col rischio di scatenare guerre che, oltre ai morti e ai poveri, aumentano solo i fondi di pochi, fondi spesso impersonali e maggiori dei bilanci degli Stati che li ospitano, fondi che prosperano nel sangue innocente. (…) Ci sono dei no da dire alla mentalità dello scarto: occorre evitare di uniformarsi al pensiero unico, attuando coraggiosamente delle scelte buone e controcorrente. Tutti, come insegna la Scrittura, possono ravvedersi, convertirsi, diventare testimoni e profeti di un mondo più giusto e solidale. (…)
Il mondo creato agli occhi di Dio è cosa buona, l’essere umano cosa molto buona (cf. Gen 1, 4-31). Il peccato ha macchiato e continua a macchiare la bontà originaria, ma non può cancellare l’impronta dell’immagine di Dio presente in ogni uomo. Perciò non dobbiamo perdere la speranza: stiamo vivendo un’epoca difficile, ma piena di opportunità nuove e inedite. Non possiamo smettere di credere che, con l’aiuto di Dio e insieme — lo ripeto, insieme — si può migliorare questo nostro mondo e rianimare la speranza, la virtù forse più preziosa oggi. Se siamo insieme, uniti nel suo nome, il Signore è in mezzo a noi secondo la sua promessa (cf. Mt 18, 20); quindi è con noi anche in mezzo al mondo, nelle fabbriche, nelle aziende e nelle banche come nelle case, nelle favelas e nei campi profughi. Possiamo, dobbiamo sperare.

Repubblica 12.4.18
Il tesoro nascosto della Russia
di Thomas Piketty


Cosa avrebbe pensato Karl Marx, di cui ricorre il mese prossimo il 200° anniversario dalla nascita, delle tristi condizioni in cui versa la Russia, che non ha mai smesso di richiamarsi al «marxismo-leninismo» durante il periodo sovietico? Sicuramente avrebbe declinato ogni responsabilità per un regime affermatosi molto tempo dopo la sua morte. Marx era cresciuto in un mondo di oppressione fondata sul censo e di sacralizzazione della proprietà privata, tanto che persino i proprietari di schiavi ricevevano laute ricompense (considerate ovvie anche da un «liberale» come Tocqueville) in caso di violazione dei loro beni. Difficilmente Karl Marx avrebbe potuto prevedere il successo della socialdemocrazia e dello stato sociale nel XX secolo. Trentenne all’epoca delle rivoluzioni del 1948, morì nel 1883, anno di nascita di Keynes. Entrambi furono lucidissimi cronisti del loro tempo, ma è stato indubbiamente un errore vederli come impeccabili teorici del futuro.
Di fatto, quando nel 1917 i bolscevichi presero il potere, i loro piani d’azione non erano affatto scientifici come sostenevano. Sull’abolizione della proprietà privata non avevano dubbi. Ma come organizzare i rapporti di produzione? E chi sarebbero stati i nuovi padroni? Con quali meccanismi di decisione e ripartizione delle ricchezze in seno al gigantesco apparato dello Stato e della pianificazione? A corto di soluzioni, si è ripiegato sull’iper- personalizzazione del potere. E in mancanza di risultati si sono trovati rapidamente i capri espiatori, con purghe e incarcerazioni a tutt’andare.
Alla morte di Stalin, nel 1953, il 4% della popolazione sovietica è in carcere, più della metà per «furto di proprietà socialista» e altri piccoli reati commessi per vivere un po’ meglio: un’incidenza superata solo da quella attuale degli afro-americani negli Usa (dove è in carcere il 5% degli uomini adulti di pelle nera). Quella «società dei ladri», descritta da Juliette Cadiot, segna il drammatico fallimento di un regime che voleva essere emancipatore.
Certo, gli investimenti sovietici nelle infrastrutture, nella scuola e nel sistema sanitario hanno comportato qualche progresso. Il reddito nazionale pro capite, che prima della rivoluzione era fermo al 30-40% del livello occidentale europeo, aumenta rapidamente, tanto che negli anni ‘ 50 del Novecento è balzato al 60%. Ma il ritardo torna ad aggravarsi negli anni ‘60-‘70, quando l’aspettativa di vita — fenomeno unico in tempi di pace — risulta addirittura in declino. Il regime è sull’orlo dell’implosione.
Tra il 1992 e il 1995 lo smantellamento dell’Unione Sovietica ( Urss) e del suo apparato produttivo porta a un crollo del tenore di vita. Ma dal 2000 il reddito pro capite riprende a crescere e nel 2018 si attesta al 70% circa di quello dell’Europa occidentale, a parità di potere d’acquisto (ma è appena della metà se calcolato in base al tasso di cambio corrente, data la debolezza del rublo). Purtroppo le disuguaglianze aumentano molto più rapidamente di quanto emerga dalle statistiche ufficiali, come dimostra il recente studio di Filip Novokmet e Gabriel Zucman ( disponibile su Wid.world). In senso più generale, il disastro sovietico si accompagna alla rinuncia a ogni ambizione redistributiva. Dal 2001 l’aliquota d’imposta è del 13% su qualunque livello di reddito, che si tratti di 1.000 rubli o di 100 miliardi. Né Reagan né Margaret Thatcher sono arrivati a questo punto nello smantellamento della progressività impositiva. In Russia (come del resto nella Cina popolare ) l’imposta di successione non esiste. Se un asiatico desidera trasmettere il suo patrimonio in tutta tranquillità, gli conviene andare a morire in uno degli ex Paesi comunisti e soprattutto evitare quelli capitalisti come Taiwan, la Corea del Sud o il Giappone, dove l’aliquota sulle successioni di maggiore entità è passata recentemente dal 50% al 55%.
Mentre la Cina ha saputo mantenere un certo controllo sull’uscita dei capitali e le accumulazioni private, la Russia di Putin è caratterizzata da una deriva cleptocratica senza limiti. Tra il 1993 e il 2018 ha realizzato enormi eccedenze commerciali, pari a una media annuale del 10% del prodotto interno lordo nel corso di 25 anni, per un totale che ammonta al 250% del Pil (due anni e mezzo di produzione nazionale). In linea di principio, ciò avrebbe dovuto consentire un accumulo di riserve finanziarie della stessa entità, paragonabile a quella del fondo sovrano pubblico accumulato dalla Norvegia, sotto l’occhio vigile degli elettori. Ma le riserve ufficiali russe sono appena un decimo di quella cifra: non più del 25% del Pil.
Dov’è finito quel denaro? Secondo le stime, gli attivi che i russi più facoltosi detengono all’estero superano da soli il Pil di un anno, cioè l’equivalente della totalità degli attivi finanziari ufficiali delle famiglie russe. In altri termini, le ricchezze naturali del Paese (che sarebbe stato meglio lasciare nel sottosuolo per non aggravare il riscaldamento globale) sono state massicciamente esportate, alimentando strutture opache volte a garantire a una minoranza enormi attivi finanziari, sia russi che internazionali.
I russi danarosi vivono per lo più tra Londra, Parigi e Mosca; altri non hanno mai lasciato la Russia e controllano il proprio Paese col tramite di società offshore. Nei vari passaggi, numerosi intermediari e società occidentali hanno incamerato le briciole in quantità cospicue, e continuano a farlo tuttora, attraverso operazioni sportive o mediatiche (definite a volte filantropiche). L’entità di queste sottrazioni non ha precedenti nella storia. Anziché applicare sanzioni commerciali, l’Europa farebbe bene a prendere di mira queste attività, rivolgendosi all’opinione pubblica russa. Il post- comunismo è oggi il peggior alleato del capitalismo. Marx avrebbe apprezzato l’ironia, ma non per questo dobbiamo farcene una ragione.
Traduzione di Elisabetta Horvat

Il Fatto 12.4.18
“L’Italia recuperi l’Ici che non ha fatto pagare alla Chiesa”
Il caso - Per l'avvocato generale della Corte Ue l’esenzione è un aiuto di Stato illegale che va restituito. Figuraccia per Roma e Bruxelles
“L’Italia recuperi l’Ici che non ha fatto pagare alla Chiesa”
di Carlo Di Foggia


Immaginate la scena: il governo italiano che ordina alla Chiesa di versare l’Ici – la vecchia imposta sugli immobili – che per anni gli ha concesso di non pagare su buona parte del suo sterminato patrimonio immobiliare, un conto che sfiora i 4 miliardi di euro. È l’incredibile scenario che si aprirebbe se la Corte di Giustizia europea sposasse, come spesso avviene, la linea illustrata ieri dal suo avvocato generale, il belga Melchior Wathelet. La sentenza è attesa a maggio.
Secondo Wathelet, l’Ici non pagata dalla chiesa, ritenuta un aiuto di Stato illegale nel 2012, va recuperata perché non vale l’eccezione riconosciuta dalla Commissione e dal Tribunale Ue allo Stato italiano che riavere quei soldi è “impossibile” perché non ha raccolto i dati di chi non ha pagato. È l’ultimo capitolo di una storia surreale che imbarazza tanto lo Stato italiano che Bruxelles, intenti a proteggere i conti della Chiesa perdendo tempo. Inizia nel 2006, quando la scuola elementare Montessori di Roma e il titolare di un Bed&Breakfast di San Cesareo pongono per primi la questione a Bruxelles. Un anno prima il governo di Silvio Berlusconi, alla vigilia delle elezioni, aveva esentato tutti gli immobili della Chiesa dal pagamento dell’Ici “a prescindere dalla natura eventualmente commerciale”. Apriti cielo. Passa un anno e il nuovo governo Prodi, per mano del ministro dello Sviluppo Pier Luigi Bersani trova l’escamotage: un decreto esenta dal pagamento dell’Ici solo gli immobili “con finalità non esclusivamente commerciali”. E proprio l’avverbio “esclusivamente” ha permesso alla Chiesa di usufruire dell’esenzione anche per le strutture turistiche, gli alberghi o gli ospedali, purché all’interno avessero uno spazio dedicato al culto. Il ministro dell’Economia Tommaso Padoa- Schioppa avvia una commissione di esperti. Altro tempo perso.
Nel 2010 l’Antitrust Ue apre un’indagine e appura che dal 2006 al 2011 lo Stato italiano ha concesso aiuti di Stato illegali alle strutture ecclesiastiche. La questione si chiude nel 2012, quando il governo Monti, con l’abbandono dell’Ici per l’Imu, limita l’esenzione solo alle strutture prive di attività commerciali. Problema: a quel punto la Commissione dà ragione all’Italia sull’“assoluta impossibilità” di recuperare il dovuto perché, senza aver predisposto una banca dati, è “impossibile” calcolare l’ammontare del pregresso, stimato dall’Anci, l’associazione dei comuni, in 3,6 miliardi. Decisione confermata dal Tribunale Ue nel 2016. La scuola Montessori e il gestore del B&B sono allora ricorsi alla Corte di Giustizia.
Anche in caso di condanna è difficile che Roma si muova davvero per recuperare la somma. Anche perché nel 2014 il governo Renzi ha esonerato dal pagamento di Imu e Tasi (servizi) le cliniche convenzionate e le scuole paritarie (in gran parte della chiesa). Molte strutture commerciali ecclesiastiche, peraltro, hanno continuato a non pagare. Solo a Roma, la giunta Marino scoprì che il 40% delle strutture vantava un arretrato, tra Ici, Imu, Tasi e Tari (rifiuti) di 20 milioni. L’iniziativa non ha contribuito alla popolarità del chirurgo Oltretevere. Caduto Marino, la giunta Raggi ha promesso di farsi dare il dovuto. Finora senza successo.

La Stampa 12.4.18
L’avvocatura Ue
“L’Italia deve recuperare l’Ici della Chiesa”
di Ma.bre


In ballo, secondo l’Anci, ci sono quasi cinque miliardi di euro. Quelli risparmiati dalla Chiesa grazie all’esenzione Ici sui suoi immobili, ma che presto il governo potrebbe essere costretto a riscuotere. Le conclusioni dell’Avvocato Generale della Corte di Giustizia Ue, hanno infatti ribaltato una sentenza del Tribunale Ue del 2016 e confermato la decisione presa nel 2012 dalla Commissione europea, quando aveva giudicato incompatibili con le norme europee le esenzioni dall’Imposta comunale sugli immobili concesse agli enti ecclesiastici non commerciali dal 2006 al 2011. La Commissione però non aveva imposto al governo di riscuotere le somme. Di solito, il verdetto della Corte rispecchia le conclusioni dell’Avvocatura, ma l’esito non è mai scontato. Se così fosse, però, il governo dovrebbe recuperare delle somme difficili da calcolare a causa dell’inefficienza del Catasto italiano. L’eventuale sentenza di condanna non inciderebbe invece sul quadro normativo esistente, visto che la nuova Imu (che ha sostituito l’Ici nel 2012) è conforme alla normativa Ue anche per quanto riguarda gli immobili degli enti ecclesiastici.

La Stampa 12.4.18
Il Papa fa autocritica sui preti pedofili in Cile
Francesco: ero stato male informato. E convoca i vescovi
di Andrea Tornielli


Il Papa convoca a Roma i vescovi del Cile e chiede perdono per i «gravi sbagli di valutazione» sui casi di pedofilia, dovuti a «mancanza di informazione veritiera ed equilibrata», che evidentemente non gli è stata mai fornita. Parla delle «vite crocifisse» delle vittime degli abusi e annuncia che riceverà in Vaticano alcuni di loro. Quelle vittime che mai prima d’ora si erano sentite accolte e ascoltate dai vertici della Chiesa cilena. È dirompente la lettera che il Papa ha indirizzato ai vescovi del Paese al termine dell’inchiesta condotta dal suo inviato, l’arcivescovo maltese Charles Scicluna. Quest’ultimo ha consegnato tre settimane fa nelle mani del Pontefice un report con 64 testimonianze, per un totale di 2.300 pagine. E la realtà che esce da quelle pagine provoca in Francesco «vergogna e dolore».
Come si ricorderà, gli insabbiamenti degli abusi commessi dal potente monsignore Fernando Karadima, parroco trascinatore di giovani e “formatore” di preti e di vescovi, hanno fatto discutere per mesi in Cile e nel mondo sulle responsabilità della Chiesa. Anche per il caso collegato del vescovo Juan Barros, uno dei pupilli di Karadima. Barros ha sempre negato di essere stato a conoscenza degli abusi commessi dal suo mentore, ma alcune vittime sostengono il contrario. Durante il viaggio dello scorso gennaio in Cile il Papa era sembrato dar poco credito alle accuse delle vittime, ma si era detto disposto a prendere in considerazione nuove evidenze. Evidentemente coloro i quali gliele dovevano fornire - l’anziano cardinale Francisco Errázuriz, membro del consiglio del C9, il suo successore cardinale Ricardo Ezzati e la nunziatura apostolica - non l’hanno fatto o l’hanno fatto soltanto parzialmente.
«Per quanto mi riguarda - scrive Francesco - riconosco che sono incorso in gravi sbagli di valutazione e di percezione della situazione, specialmente per mancanza di informazione veritiera ed equilibrata. E fin d’ora chiedo perdono a tutti coloro che ho offeso e spero di poterlo fare personalmente, nelle prossime settimane, negli incontri che terrò con i rappresentanti delle persone che hanno testimoniato».
Il Papa ricorda di aver inviato in missione speciale monsignor Scicluna e il suo collaboratore monsignor Jordi Bertomeu Farnós per «ascoltare con il cuore e umiltà» i racconti delle vittime e dei testimoni, alcuni dei quali mai prima d’ora ascoltati. «Quando mi hanno consegnato la documentazione, e in particolare la loro valutazione giuridica e pastorale sulle informazioni raccolte - continua Bergoglio - hanno riconosciuto davanti a me di essersi sentiti sopraffatti dal dolore di tante vittime di gravi abusi di coscienza e di potere e, in particolare, degli abusi sessuali commessi da diversi consacrati del vostro Paese contro minori» ai quali «è stata rubata l’innocenza».
Francesco ringrazia i mezzi di comunicazione anche tutti i protagonisti per aver evitato di trasformare l’inchiesta di Scicluna in un «circo mediatico». E aggiunge: «Ora, dopo una lettura meditata degli atti di questa “missione speciale”, credo di poter affermare che tutte le testimonianze raccolte parlano in modo scarno e senza edulcorazioni di molte vite crocifisse e vi confesso che questo mi causa dolore e vergogna».
Per questo, pur senza annunciare per il momento sanzioni o dimissioni, Francesco sollecita «umilmente» la collaborazione dei vescovi cileni «nel discernimento delle misure che a breve, medio e lungo termine dovranno essere adottate per ristabilire la comunione ecclesiale in Cile, con l’obiettivo di riparare per quanto possibile allo scandalo». L’invito a tutti i vescovi è a venire a Roma per dialogare «sulle conclusioni dell’inchiesta e sulle mie conclusioni». E fin da subito il Papa chiede alla Chiesa cilena di mettersi in preghiera.

Corriere 12.4.18
Sarà guerra?
L’operazione punizione in fase avanzata
Le due linee del governo americano
di Guido Olimpio


Tanta attività attorno alla Siria.Trump ha anticipato: «Russia attenta, i missili sono arrivo» mentre il segretario alla Difesa Mattis, giunto alla Casa Bianca per un incontro non programmato, si è attenuto al consueto rigore: «Abbiamo offerto delle opzioni». Le notizie su un attacco imminente si sono incrociate con quelle su consultazioni in corso. Incertezze legate a tatticismi ma anche a discussioni interne.
I movimenti
L’operazione punizione è comunque andata avanti. La premier britannica May ha convocato una riunione d’emergenza per oggi e ha messo in allerta alcune unità. Numerosi aerei cisterna Usa, incaricati di rifornire bombardieri strategici e caccia, sono apparsi nel Mediterraneo. Almeno 5. A nord e lungo la costa siriana sono tornati quelli per la guerra elettronica e la sorveglianza. I Poseidon P8 decollati da Sigonella, altri partiti da Konia (Turchia) e Creta. Magari, non visto, c’è anche Dragon Lady, il vecchio e affidabile U2. In mare sono pronte almeno tre unità — due americane e una francese — con missili da crociera, sotto di loro un paio di sommergibili, in grado di lanciare ordigni dello stesso tipo. Altri velivoli attendono un ordine nelle basi regionali Usa, da non escludere l’arrivo di B52.
La potenza
Negli Usa sono emerse due linee. La prima in favore di un’azione limitata. La seconda per un colpo di maglio che ammonisca sul serio Assad e con lui l’Iran. In mezzo tanti esperti che predicano cautela, convinti che nulla possa essere risolutivo a meno di non infilarsi in un conflitto ad alto rischio. Un dilemma accentuato dalla triplice anima di Trump: dimostrare che l’America è tornata, sganciarsi dal dossier Siria, recuperare il rapporto con Putin. Su questo c’è un aspetto militare. Attualmente il Pentagono non ha portaerei in Mediterraneo, la Truman è appena salpata e non sarà in zona prima di 10-12 giorni. Di solito quando Washington lancia missioni di ampia portata schiera non una ma almeno due portaerei. Strumenti chiave per avere una superiorità. Tanto più che davanti hanno anche la Russia con il suo dispositivo.
Gli obiettivi
Come ha spiegato Mattis gli ufficiali stanno esaminando, con gli alleati, le informazioni dell’intelligence per valutare cosa sia avvenuto a Douma mentre altri hanno preparato da tempo le liste di obiettivi. Già un mese fa era pronto un blitz, ma proprio il segretario alla Difesa aveva dato parere negativo e il presidente non si era pronunciato. Tra i possibili bersagli alcune basi (T4, Doumayr), siti coinvolti nel programma chimico (centro di Jomaryah), nonché bersagli governativi. Mosca non sta a guardare. Assad è stato trasferito in luogo sicuro, molti mezzi sarebbero stati spostati e lo scudo di difesa (formato da missili, caccia, navi) è mobilitato. Le unità da guerra hanno lasciato il porto di Tartous per unirsi alle altre già operative al largo, intenso il «traffico» dei loro aerei per la sorveglianza. La Russia, pur attraverso voci minori, ha affermato che abbatterà i cruise Usa e potrà attaccare le «piattaforme» da cui è partita la minaccia. Se vogliono, hanno numerosi obiettivi su cui scaricare una rappresaglia: gli avamposti americani nella zona curda o quello ad al Tanf. Per questo il Pentagono deve stare attento a non coinvolgere personale russo. Dunque equilibrismo politico, tattico e diplomatico. Più tagliente Gerusalemme, secondo segmento della crisi: «Se l’Iran agisce dalla Siria contro Israele, Assad e il suo regime pagheranno il prezzo… Scompariranno dalla mappa». Frasi accompagnate da indiscrezioni sulla presenza degli iraniani. E non a caso, ieri sera Putin ha chiamato Netanyahu chiedendo di evitare azioni destabilizzanti. Lo Stato ebraico vuole che il Cremlino metta un freno a Teheran.
La comunicazione
Trump e i russi si sono scambiati colpi in pubblico, usando Twitter. Sarà pure un modo «trasparente» di comunicare, ma non adeguato a un momento dove si rischiano vite. Per la cronaca l’attuale presidente, in campagna elettorale, aveva deriso Obama e i generali perché annunciavano gli attacchi contro l’Isis. Se ne è dimenticato.

il manifesto 12.4.18
L’Italia neghi le basi per i raid in Siria
di Tommaso Di Francesco


«Nessuna base in Italia per la nuova guerra “intelligente” di Trump e Macron»: questa dovrebbe essere la posizione del nostro Paese di fronte al brutto vento che tira nel Mediterraneo orientale, per una guerra quella in Siria, aizzata nel 2011 dall’asse degli «Amici della Siria» che, non contenti del disastro provocato finora che avrebbe dovuto sortire lo stesso effetto «riuscito» della Libia, rilanciano ora quasi la stessa coalizione di guerra di cinque anni fa.
Pronti a colpire in Siria obiettivi militari di Assad, difficilmente distinguibili però da quelli di Russia e Iran che lo sostengono in armi, come dimostra l’uccisione – certo mirata – da parte del raid israeliano che ha colpito una base siriana provocando 14 vittime tra cui quattro consiglieri di Teheran.
Nessuna base in Italia – non basta dire italiana – perché la configurazione geostrategica della penisola, piena zeppa di basi militari Usa e Nato, dice che oggettivamente è già coinvolta e lo sarà ancora di più nello scenario di un conflitto che rischia di deflagrare ed estendersi nel Medio Oriente in macerie.
Deve dire di no all’uso di base militari in Italia per colpire la Siria, il governo Gentiloni rimasto in carica per il disbrigo degli affari correnti, perché partecipare ad una guerra, anche «solo» concedendo la disponibilità delle basi, operative o logistiche, non è affare che può essere etichettato come «disbrigo degli affari correnti». Che pretende il ruolo del Parlamento e di un governo effettivo. Altro che Commisione speciale.
Dovrebbe dire di no anche il variegato schieramento dei partiti alla seconda consultazione dal presidente Mattarella dopo il voto di più di un mese fa. Per la quale consultazione le chiacchiere stanno a zero.
Ma potrebbe essere l’occasione, dopo le ambiguità e le promesse della campagna elettorale, per parlare finalmentre di contenuti di governo.
Così l’ipotesi ventilata dal M5 Stelle del famoso «contratto» – malamente paragonato a quello di Cdu-Csu e Spd per la Grosse Koalition tedesca – con dentro i contenuti del probabile accordo da proporre in modo «paritario» a Salvini-Meloni-Berlusconi o al Pd, potrebbe uscire dalle nebulose.
Per contenere o la cosiddetta lealtà al fronte occidentale, come da rassicurazioni di Di Maio e Salvini in reiterata missione all’ambasciata Usa, oppure il rifiuto a partecipare all’ennesima guerra scellerata che andrebbe ad aggiungersi ad un conflitto armato che finora ha fatto 400mila vittime e milioni di profughi.
Soprattutto perché la guerra che si annuncia dai due «giustizieri», entrambi con esperienza imperiale e coloniale, come vendetta bellica per le presunte responsabilità di Damasco nell’uso di armi chimiche, proprio mentre Assad sta vincendo la guerra ed è sotto i riflettori del mondo, serve a Trump come distrazione.
Dal fatto che è braccato in patria per la vicenda «Russiagate»; e se bombarda, di quello parleranno i media invece che di pornostar, e poi andrebbe a colpire interessi strategici della Russia.
Insomma sarebbe una prova di smarcamento e «indipendenza»: first America.
Anche per Macron è una distrazione, dal legame fortissimo con gli interessi dell’alleato Arabia saudita – viene in mente chissà perché Sarkozy con Gheddafi – e dalla prima vera crisi sociale e politica che lo investe in questi giorni.
Un intervento motivato da entrambi per punire la Siria, come se il ruolo dell’Europa e degli Stati uniti in primis non l’avesse già distrutta abbastanza. E che dal punto di vista militare non fiaccherà certo Damasco, ma che Trump deve fare a tutti i costi con il soccorso di Macron – Londra sembra guardinga – e sotto impulso di Israele, perché lo ha annunciato e non può perdere la faccia.
Magari non entro 24-48 ore come ha proclamato tronfio ma, dopo lo scontro all’Onu, aspettando l’inchiesta dell’Opac (Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche) sul campo.
Ma se intanto ci sarà il bombardamento su obiettivi siriani, stavolta la vicenda promette il peggio.
Perché la Russia minaccia di reagire colpendo mezzi e basi di lancio degli eventuali bombardamenti.
Siamo a quanto pare all’addio alla guerra per procura e all’appalesarsi di un confronto bellico diretto nell’area. Che non tarderà ad espandersi.
E l’Italia mediterranea, se coinvolta, è davvero a un tiro di missili.

Repubblica 12.4.18
Il sociologo De Masi
“Nell’era della gig economy siamo tutti un po’ sfruttatori”
di Cristina Nadotti


La sentenza di Torino non stupisce Domenico De Masi, sociologo al quale il Movimento 5Stelle ha commissionato una ricerca sul lavoro e autore di Il lavoro nel XXI secolo, in uscita a giugno per Einaudi.
Perché i lavoratori di Foodora hanno perso?
«Perché la gig economy ha reso tutto fluido, i rapporti tra datore di lavoro e dipendente non sono più chiari. È un processo iniziato subito dopo l’approvazione dello Statuto dei lavoratori con una revanche dei padroni e un dilagare del neoliberismo. Tutto aiutato soprattutto dalla sinistra che, non avendo idee sue, ha accolto quelle neoliberiste. Così alla lotta di classe si è sostituita la guerra dei ricchi contro i poveri».
Questa revanche del padronato è stata aiutata da consumatori che vogliono tutto subito, sempre e se possibile a costo zero?
«Il punto è proprio questo. La gig economy dà per scontato che esistano tre soggetti sociali: il datore di lavoro, il lavoratore e il consumatore. E che per ottenere dal lavoratore il massimo di sfruttamento occorra allearsi con il consumatore. Per fare questo, bisogna “educarlo”. Ci sono fattorini di Foodora che ordinano su Internet e non si chiedono chi farà turni massacranti perché un pacco gli arrivi in 24 ore. È stata l’azienda a “educarli” perché lo volessero subito. In questo modo, vittima e carnefice sono spesso la stessa persona. È una situazione nuova, che neppure Marx aveva intuito».
Come si spezza questo sfruttamento circolare?
«Senza sperare pietà da parte dei carnefici, ma lottando come vittime. Il problema è che, tra eguali, le persone cercano di risolvere i problemi in maniera individuale. Invece è fondamentale agire collettivamente, coalizzarsi in grandi movimenti e istituzioni.
Certo, unirsi è sempre più difficile perché una volta proletari e dominanti erano distinti e riconoscibili, oggi ognuno è in qualcosa dominante, in qualcos’altro dominato».
E come se ne esce?
«Con la cultura, è compito degli intellettuali contribuire alla presa di coscienza».

il manifesto 12.4.18
Dalla sconfitta all’afasia, il tempo di LeU sta per scadere
Sinistra. Un congresso in queste condizioni sarebbe dominato dai rancori. Occorre riconoscere che il partito è cosa diversa dai rappresentanti nelle istituzioni elettive
di Mario Dogliani


Lungi da me rimpiangere il tempo in cui il dibattito politico era fatto di scolastiche citazioni dei classici.
Ma il modo con cui Lenin (in L’estremismo, malattia infantile del comunismo) descrive gli anni della reazione (1907-1910) successivi alla vittoria zarista fa riflettere. «Tutti i partiti rivoluzionari e di opposizione sono battuti. Scoraggiamento, demoralizzazione, scissioni, decomposizione, tradimento, pornografia invece di politica».
È esattamente quanto sta succedendo. Potremmo parlare di «metafisica della sconfitta» (come ha fatto Michele Prospero su questo giornale) cui si sono abbandonati con una sorta di voluttà troppi intellettuali.
Che cos’è la metafisica della sconfitta se non l’oltrepassamento dell’ultimo frammento di volontà politica per lasciarsi trascinare dall’onda dell’ignoto (il naufragar m’è dolce in questo mare), esorcizzata da una ben nascosta ma tranquillizzante fede storicista? O è solo l’abbandono di un dover essere cui si diceva di essere aggrappati, e che oggi invece appare troppo oscuro e pesante?
MA LASCIAMO gli intellettuali, e parliamo dei dirigenti di LeU.
A più di un mese dalle elezioni non si è ancora letta una loro interpretazione della sconfitta, né, soprattutto, una loro indicazione sul che fare indirizzata a quel milione di elettori che hanno visto in LeU una appassionante speranza (morale e politica).
Perché questo silenzio, che solo D’Alema ha rotto, su questo giornale, ma con uno scritto personale, non espressivo dell’intero gruppo dirigente? Perché la storia di LeU, purtroppo, è una storia di silenzi che viene da diverse storie di silenzi.
Consideriamo le vicende dei tre soggetti che hanno dato vita a LeU, da quando si intrecciano.
Nel maggio 2015 un gruppo di parlamentari Pd vota No all’Italicum e prende consistenza la «minoranza dem». Nel giugno, Possibile si scinde dal Pd; nel luglio, si scinde Futuro a Sinistra, che nel novembre forma il gruppo parlamentare Si-Sel.
Nell’ottobre 2016 parte della minoranza dem decide di votare No al referendum costituzionale; nel febbraio 2017 si scinde dal Pd e dà vita a Articolo 1, che nel maggio tiene a Milano una convenzione (Fondamenta).
Sempre nel febbraio 2017 viene fondata Sinistra italiana, che subisce nello stesso Congresso fondativo una consistente scissione.
Nel giugno si tiene l’assemblea del Brancaccio.
Sullo sfondo di questi eventi, del 2017, si agita confuso il disegno di «Campo progressista».
Nel novembre Art. 1, Si e Possibile – a seguito di una oscura vicenda che provoca la rottura con il movimento del Brancaccio, al quale partecipava anche Rifondazione comunista – danno vita ad una lista unitaria, che il 3 dicembre un’assemblea nazionale denominerà «Liberi e Uguali».
Campo progressista e il movimento del Brancaccio si sciolgono.
UNA STORIA CONVULSA. Ma, e proprio qui sta il punto, chi volesse narrarla non troverà riflessioni scritte dai suoi protagonisti che ne motivino i passaggi e la interpretino a fondo. Troverà solo articoli di cronaca, interviste, tweet, passaggi in talk-show…
Troverà qualche documento anche pregevole (Centro studi Nens), ma non uno sforzo serrato di elaborazione.
In una parola: la storia di LeU, e delle sue componenti, è una storia di sottovalutazione della cultura politica: della cultura dei fini e della cultura dei mezzi.
La mancanza di idee provoca afasia. Purtroppo nessun Michelangelo ha avuto la forza di scagliare un martello e di gridare: «Parla!».
Prima che la disperazione travolga tutto occorre ribadire che è nelle cose la necessità di un’organizzazione politica autonoma.
E per questo occorre dire che l’esperimento di LeU è andato malissimo non solo per cause oggettive, ma anche per gravi errori soggettivi.
Ciò non significa prendere una scorciatoia politicante. Non vuol dire che, invece di ricercare le cause profonde della sconfitta, si debbano cercare le colpe.
E in ogni caso: altro è ricercare le colpe/cause della sconfitta per correggere gli errori; altro abbandonarsi alle accuse e crogiolarsi nel benaltrismo.
Le cause soggettive sono tutte conseguenze della hybris (superbia, orgoglio che porta a eccedere e prevaricare) dei gruppi dirigenti delle tre componenti, che hanno dato vita ad un processo di alleanza, e di scelta della leadership, assolutamente autoreferenziale.
E sì che una buona cultura economica, finanziaria, sociologica, giuridica sui malanni della nostra società e sui rimedi c’era, e c’è.
Ma non è stato possibile farla precipitare in un programma chiaro, semplice nelle sue formulazioni finali, capace di dare speranza e di orientare le pulsioni sociali sottraendole alla manipolazione populistica. La politica da molti anni ha pensato di essere autosufficiente (per quel che le serve, onnisciente).
Dall’autosufficienza alla afasia (al parlarsi addosso) il passo è brevissimo. E così la spina dorsale di LeU non è stata la proposta politica, ma il rinserrarsi del suo ceto politico.
IN QUESTE CONDIZIONI, dar vita, a freddo, a un Congresso è rischioso. Si tornerebbe a parlare di quote, di cariche, di candidature… dominerebbero veti, egoismi e rancori.
Il narcisismo politicistico sprecherebbe quel tesoro di generosità e di intelligenza che la campagna elettorale ha mostrato. Un milione di voti di militanza pura.
Occorrerebbe invece, per riprendere il cammino, innanzi tutto chiudere con l’idea che la struttura portante del partito sono gli eletti (dai parlamentari ai consiglieri di circoscrizione) e riconoscere che altro è il partito, altro i rappresentanti nelle istituzioni elettive, o i nominati da questi.
Il partito è una associazione di cittadini: non si identifica affatto con chi rappresenta la nazione o una comunità territoriale. Anzi, è vitale che tra partito e titolari di cariche elettive resti un dualismo, una dialettica, una distinzione di compiti.
Per evitare l’arroccamento il primo passo dovrebbe dunque essere fatto da un soggetto dotato di una qualche rappresentatività dei militanti.
Non un primo passo burocratico, ma politico-programmatico.
Il cammino congressuale dovrebbe essere un titanico sforzo di messa a punto e di strumentazione di idee, trasformandole in proposte ben strutturate.
Chi potrebbe prendere l’iniziativa?
I 150 scienziati e ricercatori (primo firmatario Asor Rosa) che hanno sottoscritto un appello per il voto a LeU? Oppure i delegati all’Assemblea del 3 dicembre, ai quali fu chiesto solo di applaudire (e che dunque attendono ancora una Assemblea vera)?
Gli uni e gli altri potrebbero lanciare la proposta di prime iniziative – nazionali o regionali – che gli organismi provvisori di LeU dovrebbero sollecitamente convocare.

Repubblica 12.6.18
Medici aggrediti “ Ormai 3 al giorno” Partono i corsi di autodifesa
Nell’ultimo anno i casi sono stati 1.200, il record in Puglia dove c’è chi va al lavoro con la guardia del corpo: “Siamo il capro espiatorio dei pazienti”
di Alessandra Ziniti


Roma L’ultima aggressione martedì a Poggibonsi, lunedì a Palermo un colpo di casco alla schiena del medico di turno sferrato dal familiare di un paziente in attesa di ricovero. E il giorno prima a Napoli cinque medici e infermieri del pronto soccorso del Pellegrini picchiati. Ancora a Palermo le botte all’équipe chirurgica che aveva tentato senza successo di salvare un bimbo nato con un tumore.
Quasi 1.200 casi in un anno, 3 al giorno, 2 vittime su 3 sono donne. Un’inarrestabile escalation di violenza davanti alla quale i camici bianchi si sentono sovraesposti a fronte di misure di sicurezza totalmente inadeguate. Tanto che la Federazione degli ordini dei medici e degli odontoiatri ha deciso di includere corsi di autodifesa nella formazione professionale dei medici. Il primo corso è già online.
Quali sono i segnali che preannunciano una possibile aggressione? Come disinnescare la rabbia di pazienti o familiari? Come riconoscere i campanelli di allarme di una violenza imminente? I corsi appena approvati dall’Agenas cercheranno di dare strumenti adeguati ai medici costretti a tutelarsi come possono. «Stiamo assistendo ad un imbarbarimento culturale. E ad essere colpiti non siamo solo noi professionisti della sanità — dice Filippo Anelli, presidente della Federazione — Vedo un parallelo tra quanto accade a noi e ai professori. Questi episodi sono frutto di una cultura generalizzata secondo la quale la salute, la scuola, sono visti alla stregua di un supermarket: prendo quello che mi piace, secondo i miei desideri. Se qualcosa va storto, se non ottengo quello che voglio, devo trovare un capro espiatorio » . Gli ultimi allarmanti dati dell’osservatorio sulla sicurezza stilano anche una classifica delle regioni più pericolose: la Puglia, con il 26 per cento dei casi, e la Sicilia con il 16 per cento, seguite a ruota da Lombardia e Sardegna. Dati certamente sottostimati perché rilevati dall’Inail sulla scorta di pratiche di risarcimento di infortuni sul lavoro, dunque solo casi gravi. «Purtroppo quel monitoraggio dei cosiddetti eventi- sentinella che il ministero aveva invitato le Regioni a fare per modificare le condizioni che generano violenza non è mai andato a buon fine. Solo 8 regioni su 21 hanno risposto», dice Anelli.
Fatto è che nove medici su dieci di guardia medica sono a rischio visto che le misure di sicurezza quasi mai funzionano a dovere. Le telecamere di sorveglianza a circuito chiuso servono a poco se non sono collegate in diretta con chi può intervenire, così come i sistemi di allarme “ a filo” che si staccano facilmente, i braccialetti elettronici senza gps e i presìdi senza vigilanza.
Corsi di autodifesa a parte, i medici le loro proposte le hanno già messe sul tavolo, a cominciare dalla equiparazione del reato a quello di violenza a pubblico ufficiale, innalzando le pene e rendendolo sempre perseguibile d’ufficio. E poi l’obbligo per i direttori generali delle aziende di non lasciare mai soli i medici nei presìdi di guardia medica e spot della Pubblicità Progresso, per far comprendere alla gente che “chi aggredisce un medico aggredisce sé stesso”.
Messaggio difficile da far passare visto che il principale fattore di rischio per gli operatori della sanità è quello della prestazione negata o delle attese infinite. Vallo a spiegare a chi non può fare una Tac perché si ritrova in un ospedale con il macchinario guasto per mesi o chi pretende una sutura in una guardia medica dove non c’è neanche il filo. «Il blocco del turnover, la carenza di personale, gli orari massacranti, la carenza di fondi da destinare alla messa in sicurezza delle sedi sono fattori che mettono a rischio la nostra sicurezza», dice Anelli. Non c’è da stupirsi allora se, in Puglia, qualche dottoressa ha pensato di dotarsi di bodyguard personale per andare al lavoro mentre in alcune Regioni sono partite vere e proprie campagne antiviolenza all’interno degli ospedali. Il ministro della Salute Lorenzin prima di congedarsi assicura: «La prevenzione della violenza sui luoghi di lavoro e contro le donne deve essere una priorità di governo».

Repubblica 12.6.18
Serafina Strano
“La gente sfoga su di noi la rabbia per la sanità ormai al collasso”


«Per carità, apprendere le tecniche psicologiche per disinnescare la rabbia di un paziente o di un familiare è importante, ma il problema è che non possiamo difenderci da soli. Siamo diventati il capro espiatorio di una situazione ormai al limite. Paghiamo i disservizi e le falle del sistema sanitario nazionale e la gente trova ormai normale sfogare la rabbia su noi operatori».
Lei è tornata al lavoro, ma non più in guardia medica.
«Non tornerò mai più a lavorare in una guardia medica. Ho toccato il fondo, ho creduto seriamente di morire».
Dottoressa Strano, sono passati sei mesi dalla violenza che ha subito durante un turno notturno in guardia medica e ha accettato di fare da testimonial di questa battaglia per la sicurezza. Perchè?
«Mi faccio portavoce anche di colleghi più deboli, di chi magari non se la sente, davanti al muro di gomma che spesso ci troviamo di fronte».
A cosa si riferisce?
«All’indecoroso scaricabarile cui assistiamo tra ministero, Regioni e Aziende sanitarie. Non siamo più nelle condizioni in cui da Roma si può emanare una direttiva in cui “si consiglia”, bisogna imporre regole e prassi»
Cosa chiedete allo Stato?
«Io non chiedo. Io esigo dallo Stato che vengano rispettate le norme di legge e si garantisca piena sicurezza agli operatori della sanità. Se necessario anche con la militarizzazione, o con la vigilanza privata nei presìdi».
Come giudica l’iniziativa di includere l’autodifesa nei corsi di formazione per i medici?
a.z.

Repubblica 12.6.18
Zuckerberg al Congresso
L’alieno nella caverna
di Vittorio Zucconi


Vicini nello spazio e lontanissimi nel tempo, “Zuck l’alieno” e i vecchi terrestri della politica americana s’incontrano faccia a faccia senza capirsi. Non parlano la stessa lingua. Usano apparentemente l’inglese, i senatori e il viaggiatore del tempo della Rete, ma non esiste un traduttore che possa permettere a un senatore di 80 anni, eletto quando Zuckerberg non era neppure nato, e all’enfant prodige un po’ discolo piovuto da un’altra galassia di capirsi.
Tutti i 44 senatori che hanno voluto interrogare il creatore di Facebook, sotto accusa per il torbido traffico di dati personali usati per manipolare i comportamenti degli ignari “ amici”, potrebbero essere padri o madri del trentenne miliardario, avendo un’età media di 62 anni. Alcuni, come il decano del Vermont, Pat Leahy, dalla voce ormai fioca, potrebbero addirittura esserne i nonni, con i loro quasi ottant’anni. E chi guarda il dialogo impossibile fra un ottuagenario cresciuto a pane e carta e un trentenne precipitato sulla Terra dal pulviscolo primordiale di bit e bytes, se è nonno come me, tende a simpatizzare con il vecchio, disperatamente annaspante fra “pipes”, “messengers”, algoritmi e “string” alfanumeriche.
L’alieno, che per l’occasione si era travestito da terrestre, risultando incongruo come un trucco di Photoshop, recitava la parte del bambino buono e contrito, che assicura il sinedrio dei vecchi di essere venuto in pace e promette di comportarsi bene d’ora in poi, anche per evitare di perdere altri dieci miliardi di dollari — quasi una “manovra” da Def italiano — dal portafoglio delle sue azioni. Ma come lui risponde quasi roboticamente, secondo le formule scritte dagli avvocati che lo hanno programmato, così i vecchi del sinedrio tentano di capire e di applicare le istruzioni che i giovani dello staff hanno preparato.
Il senatore Durbin dell’Illinois gli chiede in quale albergo abbia trascorso la notte e l’alieno vestito da umano balbetta di non capire il perché. «Ah ah — lo rimbrotta il senatore che di algoritmi non capisce nulla, ma di alberghi sì — vede che lei non vuol rivelare dettagli personali che invece i frequentatori di Facebook diffondono » . “ Zuck robot” sbatte gli occhietti incredulo. Leahy vuol capire che cosa siano le “pipes”, i comandi che permettono a un programma di diffondere dati come acqua in una rete di acquedotti, e l’alieno tenta inutilmente di spiegare che non è questione di idraulica e non ci sono “tubi” fra Fb, Analytica e gli altri razziatori di dati.
Un senatore dell’Alabama non capisce che cosa sia Messenger, il servizio per scambiare messaggi che “ Zuck robot” usava, cancellando poi quelli che voleva far sparire, cosa che ai normali utenti era vietata, ma che dovrebbe essere ora estesa a tutti. Faticano nonni e nonne sugli scranni del Congresso, aggrappati all’antiquariato dei contatti personali, delle pacche sulle spalle e del telefono, ad arrendersi ai nipoti che aborrono le conversazioni in voce. Rispondendo sdegnati ai loro avi, come mi rispondono i nipoti: «Nessuno parla più per telefono, nonno».
E prima ancora che le audizioni di Zuckerberg arrivino al gomitolo di possibili abusi dei dati da lui incoscientemente diffusi e poi smazzati fra miliardari ultraconservatori come i Mercer di Cambridge Analytica pro Trump, i boys dell’ex Kgb putiniano, i trumpistas e i piazzisti di tutto che ci assalgono con offerte mirate che non abbiamo mai richiesto, il dramma al quale abbiamo assistito nella due giorni inutile dello show è il ritorno prepotente di quello che 30 anni or sono si chiamava il Generation gap, l’abisso fra generazioni. “Zuck” è già ripartito verso il suo lontano pianeta nella Silicon Valley. I vecchi terrestri si sono rintanati nella loro grande caverna di marmo e boiserie per decifrare un mondo nel quale i tubi non sono tubi e l’algoritmo non è un nuovo ballo.

Corriere 12.4.18
Cremona 1946, i giorni di Villa Triste
Nel dossier salvato nel ’46 da un poliziotto le torture del carcere repubblichino
Memoria. La giornalista Barbara Caffi ricostruisce per le Edizioni Fantigrafica le storie dei prigionieri
di Corrado Stajano


Un romanzo nero. Un racconto vero. Un dossier rispuntato tanti decenni dopo fa rivivere ancora una volta il tormento della guerra. Con le aride parole dell’ufficialità ricrea il clima torbido del fascismo di Salò che ancora oggi si preferisce dimenticare, ammorbidire, persino giustificare come tenta di fare un revisionismo impudico.
Perché il misterioso dossier colpisce al cuore considerando i chilometri di bibliografia che esistono sull’argomento? Perché queste carte, queste veline, questi rapporti e verbali d’epoca appaiono come crudi brandelli di carne sanguinante.
Che cosa è successo. Il 22 giugno 1946 fu pubblicato sulla Gazzetta ufficiale della neonata Repubblica il decreto presidenziale, la cosiddetta «amnistia Togliatti», che concedeva l’amnistia — un vizio di casa — agli autori di reati puniti con una pena detentiva non superiore a cinque anni. Le pene di morte si commutavano in ergastoli, gli ergastoli in trent’anni di reclusione, le sanzioni superiori ai cinque anni dovevano essere ridotte di un terzo. La legge non ordinava di distruggere i documenti sui crimini fascisti, ma lasciò quel dubbio in uomini dello Stato che ne ebbero la responsabilità. Molti documenti finirono così al macero, molti furono invece archiviati, altri fatti sparire. A Cremona, ad esempio, alcuni funzionari della questura nascosero i faldoni delle inchieste fatte dopo la Liberazione, gli interrogatori, le lettere, i telegrammi, tutto quel che riguardava la «villa triste» della città. Un poliziotto lasciò in eredità il dossier al figlio con la preghiera di renderlo pubblico settant’anni dopo.
Quel poliziotto credeva nella verità dei fatti come prima fonte della Storia. Il suo desiderio è stato ora esaudito. È nato così un libro firmato dalla giornalista Barbara Caffi, Villa Merli. Il dossier ritrovato (Edizioni Fantigrafica, Cremona).
«Il dossier su Villa Merli — scrive l’autrice — è costituito da centinaia e centinaia di pagine, brogliacci e veline battuti a macchina e annotati con matite e inchiostri colorati, carte rese fragili dal tempo che si ha paura solo a sfiorare. (...) Sono documenti che fanno venire i brividi ancora oggi, a più di settant’anni di distanza. A guerra appena finita, portavano con loro l’odore della paura, del dolore, del sangue, della morte».
Villa Merli, a Cremona, è sul viale Trento e Trieste, viale del Pubblico passeggio, nell’Ottocento. Un tempo ospitava un cappellificio, poi divenne la grande villa di una famiglia borghese della città. Adesso è un condominio di mattoni rossi che ha cancellato la memoria di quel luogo sinistro e anche le scritte che i detenuti, partigiani, ebrei, antifascisti lasciarono incise sui muri delle cantine.
Dall’estate del 1944 alla Liberazione la villa fu sede dell’Upi, l’Ufficio politico investigativo della Gnr, la Guardia nazionale repubblicana. A capo dell’Upi era Angelo Milanesi, imprenditore di vernici, giustiziato a Bergamo il 5 maggio 1945; a capo della Gnr il console Luigi Tambini, giustiziato a Gallignano di Soncino il 26 aprile 1945. Un luogo fosco, Villa Merli, nell’onda della Villa Triste di Milano, in via Paolo Uccello 10, dove imperversò la banda Koch e dove nelle notti di sinistra baldoria, tra cocaina e alcol, le persecuzioni e le torture contro gli uomini della Resistenza furono atroci.
Milanesi e Tambini, anime dannate, ebbero il ruolo di esecutori degli ordini di Farinacci. Il ras di Cremona, dopo la seduta del Gran consiglio, il 25 luglio 1943, si rifugiò all’ambasciata tedesca a Roma «tremante di paura», come scrisse il colonnello delle SS Eugenio Dollmann nel suo Roma nazista ; ricevuto da Hitler, criticò malaccortamente Mussolini e fu giudicato con severità: «Quell’imbecille maldestro di Farinacci», scrisse di lui Joseph Paul Goebbels nel suo Diario intimo . Dopo l’armistizio dell’8 settembre il ras, un po’ scaduto, tornò a Cremona su un’auto della Luftwaffe e cominciò le sue vendette.
A Villa Merli è un continuo andare e venire di spie e di delatori. Anche di traditori. Come Rino Puerari che apparteneva alla garibaldina banda Ghinaglia. Saltò il fosso e provocò l’arresto di 150 persone: «Molti ebbero a subire gravi sevizie», scrivono i rapporti.
Raccapricciante il racconto di Cesare Buongiorno arrestato nel luglio 1944, trasportato a Villa Merli in un cassone con un bavaglio in bocca, picchiato con un bastone di gomma e con uno staffile. Riuscì a salvarsi e dopo la guerra testimoniò davanti alla Corte d’assise: «Mi si applicò alla fronte un cerchio di ferro che stringeva sempre di più alla mia [risposta] negativa». Sul viso, intanto, gli veniva proiettato un fortissimo fascio di luce che veniva da un faro posto in un angolo della stanza.
Finte fucilazioni, sevizie, torture furono la norma. E anche proposte di fuggire fatte ai prigionieri da finti doppiogiochisti, con l’intento poi di uccidere a colpi di mitra chi cascava nell’inganno.
Qualcuno, come l’ingegner Roberto Ferretti, futuro questore della città, comandante della banda Ghinaglia, rimase a Villa Merli 94 giorni, ma fu rispettato. I fascisti pensavano forse già al futuro e non volevano inimicarsi troppo i capi della Resistenza. Ferretti, un uomo alto, con un gran naso, insegnava matematica al ginnasio. C’è ancora qualche ragazzo di allora che lo ricorda a far scuola in cantina, svagato. Aveva ben altro nella testa.
Sedicenti marchesi, preti spretati, attricette di terz’ordine popolano la villa. La banda Koch manda a Cremona suoi uomini per spiare Farinacci, nel nome del ministro degli Interni Buffarini Guidi, il gran nemico al quale il ras locale voleva succedere. L’Upi, a sua volta, indaga su Koch. Fin quando, il 25 settembre 1944, gli uomini della legione fascista Ettore Muti irrompono nella milanese Villa Triste e arrestano una cinquantina di persone. Gli uomini della Koch sono eccessivi persino per i fascisti.
Barbara Caffi riesce a dominare una materia così intricata e perversa. Collega via via con i suoi limpidi scritti le carte del dossier dell’orrore, quadri di vita malvagia, tra lusinghe, minacce, violenze fisiche e morali. Con l’oggettività possibile per una persona umana sa muoversi in un sottosuolo macabro e inimmaginabile.
Dedica il suo libro, tra gli altri, «alla famiglia di Giulio Regeni».
La vittima di oggi.

il manifesto 12.4.18
Istituto Luce, un nuovo portale web per accedere alla nostra Storia
Archivi. Le novità del sito che consente di accedere all'immenso patrimonio di video e foto, e ai nuovi fondi Folco Quilici, Mario Canale e Mario Gianni
di Giovanna Branca


ROMA È online da ieri il nuovo portale web dell’Archivio dell’Istituto Luce – www.archivioluce.com – che consente di accedere all’immenso patrimonio di filmati e fotografie dell’Istituto Luce e non solo: sul sito web sono disponibili infatti anche i nuovi fondi donati al Luce: il fondo Folco Quilici – oltre 4000 filmati girati in tutto il mondo tra il 1950 e 2010 del documentarista italiano scomparso lo scorso febbraio – quello di Mario Canale – interviste a registi, attori, servizi da Festival, backstage di film – e quello del documentarista Mario Gianni.
Le principali novità del portale oltre a questi nuovi fondi – spiega Roland Sejko, regista e responsabile editoriale del portale – sono l’efficienza del motore di ricerca, la visione in alta risoluzione di tutti i documenti e la stessa attività editoriale che lavora a un «nuovo modo di presentare i fondi e l’archivio, con un invito ai giovani autori a usare il materiale e per fare in modo che l’archivio del Luce non venga più identificato solamente con il periodo storico del fascismo».
Si tratta per esempio di aggiornamenti quotidiani relativi al «tema del giorno», dei mini-doc (produzioni originali che si servono del materiale d’archivio insieme a nuove riprese) e altri contenuti aggiornati costantemente sulla homepage del sito. Homepage sulla quale si trovano subito le sezioni in cui è articolato il portale: quella cinematografica, le oltre 400.000 immagini del fondo fotografico, i cinegiornali – dai primi del 1927 all’ultimo del 1992 –  le edizioni della Settimana Incom, e i nuovi fondi acquisiti dal Luce.
Novità che non costituiscono solo un aggiornamento tecnico, ma che come spiega il presidente dell’Istituto Luce – Cinecittà Roberto Cicutto  mirano «a inventare una nuova modalità di diffusione» di quella memoria collettiva custodita dall’archivio, e a fare in modo che al suo interno e con i suoi materiali «si riprenda a sperimentare».

La Stampa 12.4.18
Berlino 1918
Qui comincia la sventura
Dopo la disfatta bellica, nasce una forma istituzionale democratica oggetto di contrattazione permanente. Nella paralisi politica crescono le forze anti-sistema che apriranno la strada al nazismo
di Gian Enrico Rusconi


Il 9 novembre 1918, il giorno in cui viene proclamata la repubblica tedesca, nessuna bandiera rossa sventola in realtà sul Reichstag. Anzi in quel pomeriggio sono proclamate due contrastanti versioni della repubblica. Una ufficiale, da una finestra del Parlamento, da parte di Philipp Scheidemann, che forza la volontà stessa del cancelliere socialdemocratico Friedrich Ebert, appena in carica in un governo di transizione. L’altra proclamazione avviene in piazza, davanti al castello di Berlino, per bocca dello spartachista Karl Liebknecht che giura sulla immediata realizzabilità della libera repubblica socialista tedesca.
Scenario drammatico di un evento rivoluzionario in atto già da giorni per la mobilitazione dei lavoratori e dei soldati, sotto la tutela dei due partiti socialdemocratici tradizionali, maggioritario (Mspd) e indipendente (Uspd, che comprende anche il gruppo spartachista, poi comunista), e del nuovo movimento spontaneo dei Consigli degli operai e dei soldati.
Facciamo qualche passo indietro. Le origini dei «Consigli dei lavoratori» (sul modello dei soviet russi) e dei loro capi «delegati rivoluzionari» risalivano ai grandi scioperi iniziati nel gennaio 1918 contro la guerra e le condizioni intollerabili della popolazione. Ma nel settembre e ottobre erano stati i vertici politico-militari a prendere una iniziativa di estrema rilevanza: il comando supremo (nella persona di Erich Ludendorff) davanti alla insostenibile situazione militare aveva invitato il governo imperiale a chiedere l’armistizio. La risposta del presidente americano Woodrow Wilson era stata dura e inattesa: chiedeva la capitolazione della Germania e, in forma appena dissimulata, l’abdicazione dell’imperatore Guglielmo II.
«Nuovo ordine sociale»
Di fronte a queste richieste l’alto comando pretese la rottura delle trattative e la prosecuzione della guerra sino all’estremo. Ma il potere politico-militare era diviso: il cancelliere Max von Baden dichiarava decaduta la monarchia, mentre il comando della Marina militare decideva una ultima disperata azione offensiva contro la flotta inglese.
A questo punto (siamo tra la fine di ottobre e i primi di novembre 1918) i marinai si ribellano. L’ammutinamento si trasforma presto in rivoluzione con la ricostituzione dei Consigli. Il movimento rivoluzionario si diffonde in tutta la Germania. Le parole d’ordine sono semplici ed essenziali: basta con la guerra, nuovo ordine sociale, fine dello sfruttamento capitalistico. Ma quale sarà la nuova struttura istituzionale: parlamentare o consiliare? Quali le iniziative socio-economiche da prendere: nazionalizzazioni, socializzazioni, partecipazione diretta dei lavoratori alla guida delle fabbriche o corresponsabilità diretta dei sindacati? Qual è il ruolo dello Stato? Bisogna «fare come in Russia» oppure va evitato assolutamente quel modello che nel frattempo è degenerato in repressione indiscriminata, guerra civile e terrorismo?
Il quadro è reso complicato dalla presenza di unità militari rimaste in armi. Di questi corpi armati, alcuni sono fedeli alla repubblica, altri sono a sua disposizione strumentalmente solo per combattere i socialisti radicali e i comunisti, altri ancora sono apertamente ostili al nuovo ordine democratico nella convinzione che la repubblica sia una esperienza provvisoria . Dietro a essi, momentaneamente ammutoliti o zittiti, ci sono strati sociali ostili a cambiamenti radicali. Sullo sfondo ma pressanti, le potenze vincitrici della guerra determinate a farla pagare cara alla Germania, gettandole addosso la colpa esclusiva del conflitto. Si apprestano a imporre una pace, che sarà la peggiore e più controproducente della storia moderna (il diktat di Versailles).
È difficile immaginare una situazione tanto difficile e complicata. Deve essere gestita politicamente dalla maggiore delle forze partitiche, la socialdemocrazia. Friedrich Ebert, il leader della Mspd, è soprattutto preoccupato di ristabilire al più presto un ordinato sistema parlamentare funzionante, aperto alle domande sociali e socialiste tradizionali. Ma la sua opinione è fortemente contrastata da altre richieste di rivoluzione radicale anche sul piano istituzionale.
La decisione cruciale è presa dal Congresso nazionale dei Consigli che a Berlino il 19 dicembre decide la convocazione dell’Assemblea nazionale costituente, respingendo con 344 voti contro 98 la proposta alternativa di fondare subito una repubblica socialista fondata sul sistema dei Consigli. La data della elezioni per l’Assemblea è fissata al 19 gennaio e si riunirà a Weimar (da qui l’espressione «Germania di Weimar») . Nel frattempo però hanno luogo altri gravi scontri politico-militari: il «Natale di sangue» e la cosiddetta «rivolta spartachista» del gennaio 1919, a seguito della quale sono assassinati Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Un episodio che segnerà la rottura e l’ostilità definitiva tra socialdemocratici e comunisti.
Tempo di compromessi
La rivoluzione tedesca ha ricevuto i qualificativi più diversi: rivoluzione mancata, tradita, incompiuta, conservatrice. Si è parlato anche di democrazia improvvisata, sovraccaricata (di aspettative e di pretese). Personalmente preferisco definirla «democrazia contrattata». Mi spiego.
«Democrazia contrattata» significa innanzitutto fondata e dipendente da patti/compromessi. Nella Germania del 1918 il primo patto/compromesso - già in ordine cronologico - è quello militare tra le forze armate sopravvissute al tracollo e il governo della repubblica virtualmente indifesa di fronte ad attacchi armati.
Il secondo patto/compromesso è quello tra sindacati e imprenditori che accolgono molte richieste dei lavoratori, disinnescandone però il potenziale rivoluzionario. La socialdemocrazia rinuncia a realizzare misure di socializzazione-statalizzazione di settori chiave dell’economia (carbone e acciaio) che avrebbero limitato in modo sensibile il potere economico tradizionale, ma inserisce e rafforza la classe operaia organizzata negli istituti della contrattazione collettiva e della protezione sociale sotto la supervisione dello Stato. Da parte sua il sindacato negozia la sua lealtà e il suo consenso allo Stato, la sua autodisciplina in cambio di garanzie contrattuali, diritti di partecipazione, di estensione dei diritti democratici. Lo Stato interviene in modo sistematico rafforzando l’arbitrato nei conflitti di lavoro, sviluppando l’ente di assicurazione contro la disoccupazione e altre misure di protezione sociale.
Il «fantasma di Weimar»
Il terzo patto è quello specificatamente politico stipulato tra i partiti socialdemocratico, Zentrum cattolico e partito liberaldemocratico (la «coalizione di Weimar») a garanzia della tenuta politica del tutto. Ma i partiti avversari di destra estrema (e di sinistra comunista) si adeguano a stento opportunisticamente alle nuove regole. Sono e si sentono partiti anti-sistema.
Così la democrazia contrattata tedesca è pesantemente contrassegnata da riserve mentali che hanno di mira il rinnegamento o l’alterazione di quanto pattuito. La forma democratica, invece di essere il quadro politico-istituzionale accettato, entro cui si muovono e competono le forze sociali e politiche, diventa essa stessa oggetto di contrattazione permanente, in modo ora esplicito ora latente ora ideologicamente camuffato. Non manca chi parla di «rivoluzione conservatrice» ostile all’idea stessa di democrazia e repubblica proclamata dai «criminali del novembre 1918»; da qui alla fine prenderà forma e sopravvento la «rivoluzione nazionalsocialista».
Si parla volentieri di «lezioni di Weimar». Quasi sempre in senso negativo, evocando il «fantasma di Weimar» ogni qualvolta un sistema politico sembra paralizzarsi nella ingovernabilità o lascia spazio a crescenti forze anti-sistema. Naturalmente le analogie storico-politiche esigono sempre molta attenzione. Ma uno studio dell’esperienza della Germania weimariana è motivo di utile riflessione critica anche oggi.

La Stampa 12.4.18
In principio era il corpo: nudo
La rivoluzione russa della danza
Un imponente saggio di Nicoletta Misler esplora il decennio 1920-1930 che cambiò il balletto in un fervore anti-accademico: poi scese l’ombra di Stalin
di Sergio Trombetta


Il disegno e la danza nascono naturalmente da un solo grembo e sono soltanto due diverse incarnazioni di un impulso unico». Lo scriveva il regista Sergej Ejzenshtejn, il grande padre del cinema sovietico, il cui interesse per il disegno non è una novità, ma quello per la danza è meno noto. Interesse simile nutrivano del resto registi teatrali negli Anni 20, per esempio Vsevolod Mejerchol’d o Aleksandr Tairov, che spesso invitavano coreografi d’avanguardia a collaborare ai loro spettacoli.
Perché un fervore di danza antiaccademica ha attraversato il panorama dell’avanguardia russa all’inizio del ’900. Spettacoli che avevano come fulcro il corpo nudo: «In principio era il corpo», parafrasando il versetto biblico, era lo slogan del coreografo Lev Lukin che come altri privilegiava la quasi totale nudità per mettere in risalto la plasticità del corpo, rendere visibile il movimento.
Molte tendenze si accavallano in una ventina di anni. Si passa dal simbolismo al modernismo, da Isadora Duncan al danzatore jazz Valentin Parnach, da Skrjabin al foxtrot, dalle danze plastiche a quelle eccentriche (i balli occidentali) e meccaniche che imitano i movimenti degli ingranaggi. Un mondo destinato a sprofondare nell’oblio della «normalizzazione» staliniana.
Ecco perché vale la pena immergersi nelle oltre 400 pagine di L’arte del movimento in Russia 1920 – 1930 di Nicoletta Misler (Umberto Allemandi, pp 470 pagine, € 150) e ripercorrere, attraverso un sensazionale apparato iconografico, un cammino che la Misler traccia tenendo come punto di riferimento la storia del Laboratorio Coreologico. Era una istituzione moscovita, sino ad ora poco conosciuta, attiva dal 1923 al 1928 che riunì il meglio della Nuova Danza di quei tempi e organizzò nel volgere di pochi anni quattro mostre dedicate all’Arte del Movimento che sono state la testimonianza di tutta quella attività. Accostavano disegni, fotografie, costumi, scritti teorici che avevano al centro il balletto, la Nuova Danza, il movimento acrobatico, la ginnastica, lo sport, i movimenti di massa, le danze di sala, il music hall, il circo.
La Misler, eminente studiosa delle avanguardie russe, ha avuto accesso privilegiato a una massa considerevole di documenti che riemergono da archivi statali e soprattutto privati. Si scopre così che anche in Russia nei primi venti anni del secolo la Nuova Danza non fu meno importante e innovativa della danza espressionista tedesca e centroeuropea.
Tutto comincia nel 1904 con l’esibizione a Pietroburgo di Isadora Duncan. Dopo di lei nulla è più come prima. Le sue danze libere faranno scuola e nel 1921 dopo sarà invitata dal governo sovietico a fondare una scuola a Mosca. Il panorama si popola di signorine borghesi che si esibiscono a piedi nudi (bosonozhki) in fasulle danze greche, ma l’impulso per una nuova generazione di coreografi e creatori è dato. Alla fine degli Anni Dieci molti compiono pellegrinaggi in Germania a studiare con Rudolf von Laban o Alexander Sacharov. Contemporaneamente nascono compagnie e scuole: lo Studio di Danza Sintetica di Inna Chernetskaja, lo Studio Vera Majja, l’Istituto di Educazione Ritmica di Nina Aleksandrova, lo Studio di Libero Balletto di Lev Lukin il Mastfor di Nikolaj Foregger. Nel suo Atelier di Libero Movimento Ljudmila Alekseeva teorizza uno stile fatto di «Tensione muscolare e Rilassamento», così simile al «Contractrion and Release» di Martha Graham o l’«Anspannung e Abspannung» di Mary Wigman. Centrale è il Balletto da Camera di Kasjan Golejzovskij, figura di primo piano in quegli anni, i cui esperimenti lontano dalle rigidità accademiche, influenzarono il neoclassicismo di Balanchine.
Boris Erdman disegna per lui scene e costumi, per esempio il Fauno o il balletto biblico Giuseppe il bello, dall’erotismo acceso (presto censurato) e che prendono vita su praticabili costruttivisti simili a quelli di Ljubov Popova per Mejerchol’d.
Uguali passerelle e scale costruttiviste usava Lev Lukin per la sua composizione «Saffo». Mentre danzatori dal fascino androgino sono al centro dell’attenzione: Vasilij Efimov in Giuseppe il bello o Aleksandr Rumnev le cui pose nelle fotografie rimaste di Sarcasmi da Prokof’ev, sempre di Lukin, sono di incredibile modernità.
Le danzatrici spesso a seno nudo e coperte da un solo perizoma sono riprese in scatti flou, dai forti chiaroscuri caravaggeschi, come piaceva a Moisej Nappelbaum, lontani dagli sperimentatori Rodchenko o Lisitskij.
Questo fervore più ci avviciniamo al termine degli Anni 20 più subisce i colpi della censura e spesso della repressione per lasciare il passo alle parate di sportive, alla «fizkul’tura».
Idealmente tutto finisce con il famoso monumento all’operaio e alla kolchoziana di Vera Muchina del 1937, mille volte riprodotto. Ma ormai siamo in pieno stalinismo.

Corriere 12.4.18
Teologia Guido Bartolucci (Paideia) analizza l’opera di uno dei maggiori esponenti del filone umanista fiorentino
E Marsilio Ficino recuperò la spiritualità ebraica
di Marco Rizzi


È ormai diventato un luogo comune l’affermazione secondo cui le radici della civiltà europea sarebbero, al tempo stesso, greco-latine, cristiane ed ebraiche.
È anche possibile individuare il momento preciso in cui si è costituita questa triplice eredità nella forma in cui ancora oggi la conosciamo. Essa è infatti il frutto della riscoperta, accanto a quella dei classici, della tradizione ebraica ad opera degli umanisti fiorentini del XV secolo, tra cui spicca il pensatore Marsilio Ficino. È costui, infatti, che per primo propone la conciliazione non solo tra la filosofia greca, specie quella platonica, e il cristianesimo, ma anche con il più antico strato della sapienza ebraica risalente ai patriarchi, che Ficino ritiene di ritrovare in alcuni elementi della qabbalah medievale.
L’interesse di Marsilio, osserva Guido Bartolucci nel libro Vera religio (Paideia), nasceva dal tentativo di ripensare la tradizione teologica e spirituale cristiana, di cui si avvertivano nitidamente i segni di una crisi destinata ad esplodere drammaticamente nel secolo successivo. Al momento, però, prevaleva ancora l’idea che un rinnovamento della Chiesa fosse possibile e che a questo fine la dimensione intellettuale potesse risultare decisiva.
Così, di lì a poco sarà Pico della Mirandola a sviluppare appieno l’idea di una originaria sapienza (la prisca theologia ) di cui il cristianesimo rappresenta certo il culmine, ma cui a buon diritto appartengono anche ebraismo e classicità.

Corriere
Favino sarà Buscetta per Marco Bellocchio
di S. U.


Pierfrancesco Favino sarà Tommaso Buscetta per Marco Bellocchio. E Gianni Amelio girerà Hammamet. Sono le sorprese anticipate ieri dall’ad di Rai Cinema Paolo Del Brocco. Sarà «un film di vendette e tradimenti», Il traditore di Bellocchio, sul boss che spiegò a Falcone i segreti della mafia. Nulla oltre al titolo, si sa del prossimo lavoro di Amelio Quella di Bettino Craxi, cinematograficamente parlando, è una storia tutta da scrivere. In arrivo Notti magiche di Paolo Virzì, Ricordi? di Valerio Mieli, Ride di Valerio Mastandrea, Il primo re di Matteo Rovere, Ricchi di fantasia di Francesco Micciché con Sabrina Ferilli e Sergio Castellitto che sarà il dottor Pietro Bartolo di Lampedusa in Lacrime di sale di Maurizio Zaccaro. N uovi progetti per Gabriele Muccino, i Mainetti Bros, Jonas Carpignano, Susanna Nicchiarelli, Gabriele Salvatores, Daniele Luchetti, mentre Gabriele Mainetti gira Freaks out . Si saprà stamattina se Dogman di Matteo Garrone (come Lazzaro felice di Alice Rohrwacher o Euphoria di Valeria Golino) sarà a Cannes 2018 che si apre con Todos lo saben di Asghar Farhadi con la coppia Cruz & Bardem coprodotto da Rai Cinema e Lucky Red.