Corriere 10.4.18
Lula
A sinistra e i diritti degli amici
di Paolo Mieli
Adesso
che si è consegnato alla giustizia del proprio Paese, nella sede di
polizia di Curitiba, vale la pena di soffermarci a riflettere sulle
modalità con le quali il settantaduenne Luiz Inacio Lula da Silva, ex
operaio, sindacalista e infine Presidente del Brasile dal 2003 al 2011,
si è reso disponibile a scontare la condanna a dodici anni di carcere
(per corruzione e riciclaggio) inflittagli da due sentenze. Per
cominciare, però, vanno messe in chiaro due o tre cose. La prima: non è
venuta alla luce una prova definitiva e incontrovertibile del fatto che
all’ex presidente sia stato regalato un superattico su tre piani con
piscina, terrazza e strepitosa vista sul mare come vorrebbe il capo
d’imputazione di Sergio Moro, titolare dell’inchiesta «Lava Jato»
(«autolavaggio»), una «Mani pulite» in versione brasiliana. Esistono,
però, un contratto d’acquisto firmato nel 2005 dalla moglie di Lula,
Marisa Leticia, e ritrovato nella loro casa; fotografie che documentano
sue ispezioni ai lavori di ristrutturazione dell’appartamento;
testimonianze unanimi del portiere dello stabile, dei vicini, degli
operai secondo i quali Lula e la moglie si comportavano, in tutto e per
tutto, come se fossero i «padroni di casa». Ed esistono altresì
molteplici indizi che, stando alle sentenze, dimostrano come anche i
lavori di ristrutturazione del favoloso appartamento fossero a carico
dei corruttori, riconducibili alla compagnia petrolifera Petrobras.
Secondo
punto: il processo, a detta dei difensori di Lula, è stato molto più
veloce di altri dallo stesso impianto. Terzo punto: il prossimo ottobre
si terranno in Brasile le elezioni presidenziali e Lula, stando ai
sondaggi, godrebbe di un vantaggio di circa venti punti sui suoi
competitori. Talché può essere presa in considerazione l’ipotesi di un
complotto per impedirgli di essere eletto. Cospirazione ordita dai suoi
avversari politici e da non meglio identificati poteri economici. Questo
almeno è quel che affermano i suoi sostenitori, prima tra tutti Dilma
Rousseff, la donna che ne ha raccolto l’eredità, ha guidato il Brasile
dopo di lui (2011-2016), ha provato a sottrarre Lula alla giustizia con
un escamotage (nominandolo ministro) e alla fine, due anni fa, è stata
anche lei travolta dal Parlamento con l’accusa di aver truccato i dati
del deficit del bilancio pubblico. Per essere poi destituita. Ma
veniamo alle modalità con le quali Lula si è consegnato alla giustizia.
Dapprima l’ex presidente si è rifugiato per alcuni giorni nella sede del
«suo» sindacato a Sao Bernardo do Campo in attesa che quelli che lo
sostengono si radunassero attorno all’edificio. Poi ha avviato una
trattativa con le autorità, politica e giudiziaria, per ottenere un volo
privato che lo portasse al luogo predisposto per la detenzione e una
sistemazione carceraria più confortevole di quella prevista per gli
altri detenuti. Faceva questo, sosteneva, per tranquillizzare i suoi
seguaci e «prevenire i disordini» che avrebbero potuto verificarsi in
caso di suo arresto «manu militari». Ottenute le due cose, Lula ha
lasciato scadere, senza onorare l’impegno a consegnarsi, i termini
ordinari per l’esecuzione della sentenza e ha ottenuto un giorno di
permesso in più per la celebrazione, in sua presenza, di una funzione
religiosa in ricordo della moglie, la Marisa Leticia di cui si è detto,
scomparsa un anno fa. Tempo che gli è stato concesso sicché ha potuto
aver luogo quella che Rocco Cotroneo su queste pagine ha descritto come
«una cerimonia che assomigliava vagamente a una messa con preghiere e
canzoni amate dall’ex primeira dama celebrata da don Angelico Sandalo
Bernardino «già vescovo, compagno di strada del partito di Lula». E
mentre il prete «parlava a vuoto» (proseguiva Cotroneo), l’ex presidente
abbracciava le persone che salivano sul palco, salutava a pugno chiuso,
leggeva ad alta voce i bigliettini che gli venivano consegnati. Finché
prendeva lui stesso la parola e per un’ora abbondante arringava la folla
contro gli orditori della congiura ai suoi danni: «Hanno voluto
togliere di mezzo l’unico Presidente senza titolo scolastico, colui ha
fatto di più per i poveri di questo Paese», ha gridato. Finita la
«messa», ha annunciato che avrebbe voluto assistere alla partita di
calcio tra le squadre del Palmeiras e del Corinthians e qui sono stati i
suoi stessi avvocati a fargli presente che sarebbe stato più saggio
consegnarsi all’autorità. Cosa che lui ha fatto tra ali di folla che,
senza essere scoraggiate, lo imploravano di «resistere», di «non
consegnarsi». Nel frattempo il Movimento Sem Terra paralizzava,
bruciando copertoni, trentasette autostrade in tutto il Paese e il suo
leader, Joao Pedro Stedile annunciava che il loro beniamino «verrà
liberato da grandi manifestazioni di massa». Lula è un personaggio
fuori dal comune, amatissimo dal «suo popolo» e chi conosce anche
superficialmente l’America Latina non può stupirsi del modo con cui i
suoi seguaci hanno ritenuto di testimoniargli affetto. Stupisce, semmai,
che qui in Europa ciò che è accaduto sia stato trattato alla stregua di
un episodio folkloristico, privo di qualsiasi implicazione politica. In
Italia poi, la sinistra — nelle ore in cui era dilaniata sul tema se
accettare o meno le profferte di Luigi Di Maio — per qualche ora ha
sospeso le ostilità fratricide e si è «riunificata» per firmare un
impegnativo manifesto pro Lula. In esso si poteva leggere che, non
essendo «emerse a suo carico prove tali da dimostrare che egli si sia
appropriato di risorse pubbliche o abbia ricattato imprese per ottenere
benefici personali», era da biasimare il fatto che venisse incarcerato
(pur se si riconosceva essere ciò avvenuto in osservanza di specifiche
norme). A leggere tra le righe, un’esibizione di certezza — da parte dei
firmatari — circa l’inconsistenza delle prove a carico di Lula e una
implicita pesantissima accusa nei confronti dei magistrati brasiliani.
Il documento esprimeva poi «grande preoccupazione e un vero e proprio
allarme per il rischio che la competizione elettorale in un grande Paese
come il Brasile venga distorta e avvelenata da azioni giudiziarie che
potrebbero impedire impropriamente a uno dei protagonisti di prendervi
parte liberamente». Praticamente quei magistrati o quantomeno le loro
«azioni giudiziarie» venivano accusati di aver «avvelenato» la vita
politica del Brasile in combutta, si presume, con i nemici del Partido
dos Trabalhadores. Firmato, tra gli altri, da Romano Prodi, Massimo
D’Alema, Piero Fassino, Susanna Camusso, Pier Luigi Bersani, Lia
Quartapelle, Vasco Errani, Guglielmo Epifani. Ora, a nessuno dei
sottoscrittori può essere sfuggita qualche assonanza tra quel che in
quella loro pagina si scrive a favore di Lula e ciò che qui in Italia
negli ultimi trent’anni è stato detto e scritto da avversari della
sinistra a proposito di «competizioni elettorali» distorte per effetto
di azioni giudiziarie. Siamo altresì certi che ognuno dei firmatari in
passato ha sostenuto che le sentenze della magistratura — a meno che non
siano state emesse da tribunali speciali di un qualche regime — vanno
sempre e comunque rispettate. Anche quando si nutre qualche dubbio sul
merito delle decisioni e sull’operato dei giudici. Cosa peraltro non
infrequente tra gli imputati. Avranno sostenuto anche, Prodi e gli
altri, che la solidarietà di appartenenza non dovrebbe modificare il
giudizio, neanche nel caso in cui un atto giudiziario modifichi i
termini della competizione politica (ciò che qui da noi è capitato più
di una volta). E cosa è cambiato adesso? Quando tocca a uno dei «nostri»
valgono criteri diversi? Quel manifesto, diciamolo, sarebbe stato un
atto davvero rilevante se, invece che essere stato steso a favore di una
personalità della propria «famiglia», fosse stato redatto per difendere
i diritti di un politico del campo avverso. In questo caso, apporre
quella firma, sarebbe stato un modo per dimostrare che, per gli
autorevolissimi sottoscrittori, i principi valgono più di ogni spirito
familistico di appartenenza. Sarà per un’altra volta.