domenica 25 marzo 2018

Repubblica Robinson 25.3.18
Dr. Sigmund & Mr. Shakespeare
Lo scrittore che ha portato Freud a teatro lo rilegge, adesso, con gli occhi del Bardo. Profetici?
di Stefano Massini

Vietate il teatro ai minorenni, perché è roba da adulti. E vietatelo però anche ai maggiorenni, perché nasce dai bambini. Sembra un paradosso, ma non lo è affatto. Perché è vero che in termini freudiani niente è più destabilizzante che un palcoscenico, autentico limbo in cui la realtà si sfuma in finzione, camuffando la denuncia sotto l’alibi della metafora. Per cui sì, in effetti il teatro — quello vero, intendiamoci — è in teoria prerogativa pura dei bambini, e al tempo stesso (proprio per questo) un sacrificio cruento da vietarsi ad anime suggestionabili. Sarà che i piccoli apprendisti della vita sono gli esseri più che mai in rapporto con la verità, da loro osservata senza filtri: è ciò che rende splendido e spietato il loro giocare. Ma anche i sogni non procedono in fondo allo stesso modo? Con innocenza infantile, inscenano verità insostenibili.
Ed eccoci alla ragione per cui Sigmund Freud ne sapeva di teatro né più né meno di un Eschilo o di un Kean. Si narra che le opere di Shakespeare occupassero uno scaffale bene in vista dietro la sua scrivania: quasi un monumento. E d’altra parte aveva solo otto anni quando per la prima volta il Bardo entrò nella sua mente di bambino, trovando in lui un lettore appassionato e ingordo. Cosa che negli anni a venire lascerà un bel segno, eccome. Tanto per chiarirci: c’è ben di più di quel — pur celebre — passaggio de L’interpretazione dei sogni in cui Freud si serve di Edipo e di Amleto come due modelli opposti del desiderio infantile, laddove il re di Tebe tradusse l’impulso in fatto, mentre il principe di Elsinore — incapace di ardire tanto — rappresentava la psicosi di chi rimane vittima del proprio segreto inespresso.
Il punto è che tutto il lavoro di Freud sembra davvero un grande omaggio al teatro, alla sua antica funzione di rito caustico, inaudito, preposto alla narrazione spudorata degli abissi umani. Proviamo a prescindere da Edipo e da Amleto, su cui già molto è stato detto e scritto: è un caso che la conferma delle teorie freudiane si trovi sempre in qualche pagina shakespeariana? Pare davvero che ci fosse una salda intesa fra Vienna e Stratford- upon- Avon. Prendete La Tempesta: sembra scritta su dettatura di Freud, con quella triade Calibano- Ariel-Prospero che rispecchia l’Es-Io-SuperIo. Calibano è lo spirito della terra, godurioso, violento, privo di contegno morale, ovvero quello che Freud definiva il nostro Es, istinto bestiale votato solo al conseguimento del piacere; opposto a Calibano è invece l’ordinamento sociale, il SuperIo tirannico da cui discendono schemi e censure, qui impersonato dal mago Prospero che non per nulla tiene l’altro alla catena. Fra i due è infine Ariel, ancora sottoposto a Prospero ma privo delle bassezze di Calibano, rappresentando l’Io mediatore e pratico, fonte di decisioni e azioni, cosicché in tutta l’opera è proprio Ariel a tessere gli eventi.
Oppure pensiamo a Romeo e Giulietta, in cui l’amore fra i due ragazzi veronesi si traduce in un sabba di morte: sembra di leggere le pagine in cui Freud ascrive fra le frecce oniriche proprio la rappresentazione per opposti. E dunque Romeo e Giulietta, così bramosi di offrirsi reciprocamente l’esistenza, non riescono a sognare se di darsi morte a vicenda, peraltro su consiglio dello stesso frate che ne ha celebrato le nozze: costrutto tipicamente onirico. È insomma un equilibrio delicato, quello dei sogni, un capovolgimento di prospettiva in cui il potente si riscopre debole, la belva è un agnello, e perfino Riccardo III, il gobbo sovrano che ha fatto versare sangue a fiotti, si trova a fare i conti con un incubo ribaltato, dove sono le sue vittime a dargli la caccia. Terrorizzato, Riccardo si sveglia di soprassalto chiedendosi perché mai la propria mente gli si stia ammutinando contro. Freud dimostrerà che in fondo il sogno è proprio questo: un ammutinamento nel nome della verità, un’insurrezione contro la coscienza, seppure sotto forma di mascherata. Niente più della foresta fatata del Sogno di una notte di mezza estate, fra le cui fronde tutto assume una parvenza diversa: ci si innamora di chi si odiava, si fugge chi si cercava e magari ci si trova perfino con un muso da somaro attaccato sul collo. Dopodiché al risveglio, nell’ultimo atto, tutto si conclude — guarda caso — in un teatro, unico luogo dove il sogno e la realtà procedono per mano, e chi se ne importa se a recitare sono degli artigiani senza alcun talento.
Freud e Shakespeare sembrano ripeterci insieme che il sogno sta alla vita degli uomini esattamente come il teatro sta alla società. Si tratta di visioni solo in apparenza vacue, marchiate come poco credibili in nome di un austero veto razionale, mentre invece non c’è esistenza che possa resistere senza quel formidabile altrove. Per dirla con Macbeth: l’uomo è un attore, che si pavoneggia sulla scena del mondo. Aggiungerà Freud tre secoli dopo: l’uomo sarà anche un attore, ma il più grande teatro è quello che va in scena ogni notte nel suo cranio. Sipario.