Repubblica Robinson 25.3.18
Un, due, tre valzer sull’analisi
Freudiano. Cognitivista. Junghiano. Lo psicoterapeuta visto da vicino. Anche troppo
di Dario Olivero
All’inizio
fu una freudiana. Con un nome che faceva bene sperare perché richiamava
una certa idea di eden. Se non il residuo di una educazione
immancabilmente cattolica, almeno l’auspicio per un transfert. C’era,
probabilmente c’è ancora, un lettino e lei si sedeva alle spalle.
Ascoltava? Prendeva appunti? Pensava ad altro? Tre sedute canoniche di
45 minuti a settimana: lunedì, mercoledì e venerdì la mattina presto. I
problemi cominciarono subito: l’ortodossia psicoanalitica di quella fine
anni Novanta non poteva conciliarsi con i turni variabili di un lavoro
piuttosto caotico che spesso richiedevano al mattino la presenza.
Oggettiva presenza. Sul concetto di oggettivo si abbatté quello di
resistenza se non di atto mancato. Inutile mostrare l’agenda con i turni
fissati in anticipo: oggettivo non è dato, tutto dipende dalla
percezione, dalla realtà psichica. “ Se non trova il tempo vuol dire che
non lo vuole trovare: dovremo lavorare su questo”.
Si trovò un
accordo — che lasciò qualche strascico di senso di colpa che
fiduciosamente sarebbe stato affrontato col tempo — per due volte a
settimana. Ma anche così non sembrava funzionare. Questione di ritmo,
troppe interruzioni, troppo difficile far coincidere gli orari delle
persone coinvolte: la psiche dell’analista, la psiche del paziente,
l’inconscio dell’analista, l’inconscio del paziente. Come fissare una
cena a quattro invitati con quattro diversi fusi orari e, soprattutto,
quattro diversi jet lag. Ma forse anche questione di età e di una scelta
frutto soprattutto di curiosità intellettuale: immaginare la via del
quartiere popolare di Roma come una traversa della Berggasse,
aspettandosi di vedere squadernate una dopo l’altra le voci del
Laplanche- Pontalis studiato all’università da Abreazione a Zona
erogena, parlare di sogni cercando gli indizi che avrebbero portato a
intravvedere d’un tratto l’immensa cattedrale dei complessi stagliarsi
netta e chiara come una risposta a tutte le domande. Finì con la
classica rottura unilaterale.
Il secondo, anni dopo, fu
cognitivista. Con qualche altro suffisso difficile da ricordare.
Maschio, perché forse un maschio può capire meglio, se non assolvere,
certe questioni. I patti, chiarissimi fin da subito: questo è il
problema che abbassa notevolmente la qualità della vita e questo è il
tempo nel quale il problema sarà risolto, sei mesi, una seduta a
settimana. Ovviamente niente lettino: scrivania, praticamente un
colloquio. Dall’interpretazione si passa alla fenomenologia, da Freud si
torna a Locke e con qualcosa di Hume ( Spinoza come sempre è
scomunicato). L’inconscio non è previsto, scompaiono anche Edipo, Totem,
Tabù per non parlare di sogni e atti mancati. Tutto scorre.
Gli
eventi di una vita prendono ordinatamente posto in una linea temporale
inedita. È sorprendente di quanti episodi significativi dimentichiamo la
data esatta, figurarsi di quelli non significativi. A mano a mano che
la linea si ricompone, clamorosamente, tutto sembra funzionare. In sei
mesi svaniscono i sintomi e si torna in carreggiata. Tuttavia.
Perché
non basta? Che cosa manca a una diagnosi di oggettiva ( stavolta si è
incoraggiati a usare la parola) guarigione? La frase lapidaria fu: “
Guarire? È come smettere di fumare. Ti mancherà”. Ma in realtà un’altra
cosa mancava: la linea verticale. Funziona tutto in orizzontale, non ci
sono ostruzioni, la via è libera. E non sono permesse deviazioni di
natura simbolica, irrazionali e, sì, “ metafisiche”.
C’è chi
sostiene che gli psicoterapeuti siano come dei bravi idraulici:
sbloccano le tubature, fanno ripartire le caldaie, cambiano le
guarnizioni. Se è così, da un freudiano anche mediocre si può ottenere
un ottimo libretto di manutenzione con la seccatura di un tagliando
periodico piuttosto invadente e da un buon cognitivista un Idraulico
Liquido o un qualche congegno ben funzionante che l’ultima tecnologia ha
messo a disposizione su larga scala. Ma l’acqua? Da dove viene l’acqua?
Forse
non è questione di scuole o di indirizzi, e forse poco importa che
l’ultimo, almeno per ora, sia junghiano e che dal lettino e la scrivania
si sia passati alla poltrona. Forse il vero terapeuta non dev’essere un
idraulico ma un rabdomante. Che cerca insieme a noi l’acqua senza
nessun accordo, limite o compromesso. Nella pioggia che cade o nelle
pozzanghere, nei fiumi o nelle rogge, nel mare o negli stagni o più
spesso in certe falde sotterranee e canali carsici che prima o poi
arriveranno in superficie. Basta che sia acqua. Che Talete, all’alba
della filosofia, aveva posto a principio di tutte le cose.