Repubblica Robinson 25.3.18
Terapeuta, parla col mio neurone
Basta
con i conflitti tra la psicoanalisi e le neuroscienze. Per Vittorio
Gallese, uno degli scopritori dei neuroni specchio, le discipline
possono collaborare. Ecco come
di Riccardo Staglianò
Il
giovane Freud aveva cercato nel cervello le risposte al funzionamento
della mente. Ma nel 1920 gli strumenti a disposizione erano largamente
insufficienti all’avventura, da qui la feconda deviazione verso la
psiche. Fosse vivo oggi cercherebbe l’Io con una risonanza magnetica
funzionale? «Mi augurerei di no» risponde Vittorio Gallese,
neuroscienziato all’università di Parma, «perché il sistema di metafore
che ha elaborato resta essenziale. D’altronde quando parlo di neuroni
specchio anch’io uso una metafora » dice alludendo alla base fisiologica
all’empatia che ha contribuito a scoprire. Chi cercasse il liquidatore
di un secolo di pensiero psicoanalitico non troverà in lui alcuna
sponda. «Intanto le due discipline hanno lo stesso oggetto. Ovvero: di
cosa parliamo quando parliamo dell’umano? Una volta a un convegno un
supercilioso professore di filosofia mi chiese: pensa, occupandosi di
estetica, di nobilitare il suo lavoro? Per molti anni mi sono sentito
chiamare filosofo, e non era un complimento. Oggi le cose sono
cambiate».
La Società psicoanalitica italiana le ha conferito il
premio Musatti: è l’omaggio del vinto (psicoanalisi) nei confronti del
vincitore (neuroscienze) o il semplice riconoscimento di un dialogo
possibile?
«Non c’è guerra e questo dialogo io lo pratico da molti
anni. La diffidenza psicoanalitica di qualche tempo fa era suggerita
anche da ciò che chiamo neuro- h?bris, l’illusione di alcuni
neuroscienziati di poter mappare in scala 1 a 1 ogni attività mentale
rispetto alla relativa area che si attiva nel cervello. Come nelle
elezioni, le promesse che non puoi mantenere si trasformano in
boomerang».
Dice: evitiamo ogni tracotanza scientista?
«Dico
che neuroscienza e psicoanalisi vanno declinate al plurale. Quando si
parla della prima si pensa al cervello che però può essere analizzato
partendo dalle molecole, i geni, i recettori fino al mio approccio
cognitivo che si occupa di empatia, estetica e intersoggettività. Come
faccio a capire l’altro? Perché mi commuovo quando qualcuno piange? O mi
appassiono alle vicende di Anna Karenina, personaggio di finzione? Le
risposte cambiano se presumo che il cervello funzioni secondo algoritmi
indifferentemente implementati in un substrato biologico o in chip. O
invece dalla mia prospettiva che presuppone il rapporto con il corpo ed è
comparativa».
Comparativa tra chi e chi?
« Fino a dieci
anni fa ho studiato il cervello del macaco per capire in cosa era simile
o diverso dal nostro. Lo scarto, come ci ha detto Steven Pinker, era
nella mutazione del gene Foxp2, quello della grammatica? Certo, siamo
animali linguistici, ma è solo la punta dell’iceberg. Cui bisogna
aggiungere la prospettiva estetica: cosa succede quando guardo Seurat
oppure Guttuso o Rembrandt? Sono gli interrogativi che si è posto per
primo Semir Zeki, pioniere della neuroestetica».
La parola, terreno d’elezione della psicoanalisi, resta però difficile da eludere o sbaglio?
«
Certo che no. Quando dico “ amo mio figlio” o “ amo il mio lavoro” uso
la stessa parola e tutti capiscono le differenze. Lo stesso verbo ha la
stessa base neurobiologica? Io non credo. Primo Levi ne I sommersi e i
salvati l’ha spiegato meglio di tutti: comprendere significa
semplificare. Per farlo la nostra specie si è dotata di due strumenti:
il pensiero e il linguaggio. Dunque quando io dico “ amo” c’è una sola
scatolina nel cervello che si attiva, ma si connette dinamicamente a
circuiti cerebrali diversi a seconda che l’oggetto sia il figlio o il
lavoro».
Ma con quale lingua comunicano la psicoanalisi e le neuroscienze?
«In
comune hanno l’oggetto di indagine: chi sono e perché non funziono come
dovrei. Molto diverso è invece il livello di descrizione, da una parte
le dinamiche transferali o ( sempre meno) la rimozione, i neuroni
dall’altra. Non credo sia possibile una sintesi ma credo in parole
chiave che fungono da ponte. Una di queste è relazione: sia quella tra
paziente e analista ma anche quella tra feto e madre. L’alterità nasce
con noi, è già dentro di noi».
Cosa aggiungono le neuroscienze alla psicoanalisi e la psicoanalisi alle neuroscienze?
«La
psicoanalisi aggiunge la vita, nella sua totalità. Così facendo ha
anticipato contenuti a cui le neuroscienze sono arrivate dopo. Tipo: non
siamo totalmente padroni a casa nostra, perché ciò che determina il
nostro comportamento avviene al di sotto della nostra coscienza. Che il
Sé fosse soprattutto un Sé corporeo Freud l’aveva scritto nel 1923 e per
me resta un gigante. Ai colleghi che ne dubitano segnalo la notizia,
uscita sui giornali, che sarebbe stata trovata l’area del “senso del
Natale”. Quei tipi di studi sono estremizzazioni caricaturali di dove
può portare una deriva che non chiamerei riduzionista ma riduttivista».
Ci spieghi bene la differenza...
«
Per capire come reagiamo di fronte a un film faccio esperimenti
mostrandolo su un computer con 128 elettrodi in testa. Puntualmente c’è
chi obietta che vederlo al cinema è tutt’altra cosa. È ovvio che la
tecnologia non ci restituisce la vita a 360 gradi ma una sua riduzione a
poche variabili che possiamo controllare. Ciò non va trasformato in
riduttivismo ontologico, quello che fa dire a qualcuno “io sono i miei
neuroni”. Fosse così facile! Per capire la stessa esperienza si possono
usare le molecole (senza psicofarmaci non si sarebbero chiusi i
manicomi). Oppure la parola, anche se quando parliamo di psicoanalisi
sempre più spesso intendiamo psicoterapie. E le neuroscienze possono
fotografare cosa succede dopo l’uno o l’altro approccio».
Che ruolo hanno le emozioni?
«Un
grande ruolo. E sono in ottima compagnia, da Jaak Panksepp che coniò il
termine di “ neuroscienza affettiva” a Mark Solms e Antonio Damasio che
hanno ribadito che non siamo esseri pienamente razionali. Per non dire
dei premi Nobel Kahneman e Tversky che hanno decostruito l’homo
economicus, spiegando come prendiamo decisioni controproducenti quando
ci sentiamo svalutati. Da ultimo assisto a un imbarazzo crescente nei
confronti delle localizzazioni frenologiche di certe idee, con svarioni
tipo quello del Natale. Per questo quando dico “i neuroni non amano né
odiano” il clima si rilassa e si può cominciare a dialogare».
A proposito, in che rapporti stanno l’empatia e il sistema dei neuroni specchio che ha contribuito a scoprire?
«Empatia
non è simpatia o altruismo. Non ho mai creduto che si nasce buoni
grazie ai neuroni specchio ed è la cultura a renderci cattivi. Il sadico
ha bisogno di mettersi nei panni dell’altro per poter eccitarsi delle
sue torture. Io empatizzo con i miei due gatti e credo che loro
empatizzino con me. Non dovremmo antropomorfizzare neuroni chimicamente
indistinguibili. Importante è il meccanismo che manifestano: ovvero
riaccendersi, come avevano fatto quando avevano provato disgusto,
vedendo in altri la stessa smorfia».
I neuroni specchio rendono superflue le parole?
«Testimoniano
una risonanza diretta che non ha bisogno di parole, ma le parole
aumentano o spengono quelle sensazioni che evocano. Quando si vogliono
convincere i nostri simili a compiere uccisioni di massa non si spengono
i loro neuroni specchio ma si tenta una modulazione cognitiva per
rappresentare gli altri diversi da noi perché neri, con il nasone semita
e così via. Lo stesso si applica all’immigrazione. Se parliamo di
numeri, la prospettiva di dimezzare i migranti è tranquillizzante. Ma se
li incarno in persone le cose cambiano. Pensate alle conseguenze della
foto del piccolo Aylan morto su una spiaggia non vestito da jihadista ma
in jeans e maglietta, come uno di noi…».
Sta dicendo che le neuroscienze spiegano anche le ultime elezioni?
«Se
invece di percepire un politico distante che legge il New York Times
sul suo iPad mentre sorseggia succo di pompelmo gli spaventati delle
periferie avessero avuto di fronte qualcuno che li andava a trovare
ascoltandoli, magari facendo promesse irrealizzabili ma riconoscendoli
o, per dirla con Kojève, appagando il loro desiderio di essere
desiderati, le cose sarebbero andate diversamente. Chi non lo capisce
viene punito».