giovedì 8 marzo 2018

Repubblica 8.3.18
Tempo di libri
Noi figlie nate dalla testa del padre Zeus
Chiara Gamberale, Eva Cantarella, Dacia Maraini, Maria Serena Sapegno. La rassegna milanese apre oggi. Tra i temi, la condizione delle donne Abbiamo chiesto a quattro scrittrici il loro rapporto con la figura più ingombrante
di Simonetta Fiori


MILANO C’è un nodo segreto che caratterizza il femminile. Per la donna è una delle relazioni fondanti, forse la più pericolosa. Il rapporto con il padre, spesso raccontato nella sua natura duplice e ambigua: il padre è il ponte verso il mondo esterno, il tramite verso la parola, ma il suo mandato normativo può richiedere il prezzo dell’abbandono della madre e dunque del corpo, dell’affettività e del disordine dell’eros.
Quell’amputazione espressivamente restituita da Simone de Beauvoir quando evoca l’interesse del padre a lei dedicato soltanto al tempo della scuola, «perché per lui non ero né un corpo né un’anima. Ero una mente». Un puro spirito, e basta.
E in questo primo giorno di Tempo di libri incentrato sulle donne, nello stand di Feltrinelli ci si potrà imbattere in un bellissimo saggio di Maria Serena Sapegno che dà voce alle sofferenze, alle ferite, agli strappi delle “figlie del padre” attraverso il sismografo più attendibile e longevo di cui disponiamo, ossia la letteratura.
( Figlie del padre. Passione e autorità nella letteratura occidentale). Una ricognizione che parte dalle eroine della tragedia greca in lotta contro la legge paterna per arrivare alle scritture femminili contemporanee lacerate tra fedeltà e trasgressione rispetto al mandato del padre. «Tutte quando scriviamo siamo di fronte a questa contorsione», annota in una densa postfazione Cristina Comencini, anche lei figlia del padre (il celebre regista Luigi). «La sentiamo nel nostro corpo e nel linguaggio che usiamo, che prosegue ed elabora quello del padre ma vorrebbe essere anche altro, vorrebbe dare voce al silenzio delle madri che è in noi, alla profondità immobile di millenari non detti. Il rapporto con il padre, che ha permesso l’accesso alla cultura, diventa il potere contro cui rivoltarsi per cercare di essere finalmente qualcosa d’altro».
Un rapporto simbolico e conflittuale, destinato a esplodere nei suoi tratti contraddittori quando le donne si sono affacciate per la prima volta in massa nella scena pubblica. «Certo non lo sapevamo», sostiene Sapegno, «ma credo si possa dire che molte di noi non sarebbero approdate al movimento femminista senza i nostri padri». Erano loro a spingere le figlie «a mettersi alla prova e a entrare pienamente nel mondo».
Salvo poi misurarsi con lo sguardo critico di queste giovani donne che, una volta ammesse nella scena sociale, ne registravano la scandalosa diseguaglianza.
Ma esiste ancora un mandato paterno? E quanto condiziona vita e scrittura delle donne? Tra le autrici chiamate in questa fiera del libro al femminile ci sono molte “figlie del padre”, figlie pubbliche di padri importanti, che si sono interrogate su un tema non facile.
«Facevo di tutto per non deluderlo», ha raccontato Dacia Maraini a proposito di Fosco, il grande orientalista riflesso nel suo sguardo di bambina. «In realtà», aggiunge ora la scrittrice, «la mia situazione è complicata perché nella famiglia di mio padre la scrittura apparteneva alle donne.
La mia ava inglese Cornelia Berkeley scriveva libri per bambini. E mia nonna, Yoi Crosse Pawlovska, scriveva romanzi.
Quindi da parte di mio padre c’è stato un mandato di tipo simbolico che ha condizionato più la mia vita che la scrittura. Ed è consistito in una forte impronta culturale, nell’interesse per gli altri popoli, in un amore insistente per i viaggi».
Un rapporto stimolante, ma molto pudico, fatto anche di silenzi. «Mi lasciava libera ma parlava poco con me. Forse questo pudore si può interpretare come forma di censura sul corpo e sulla sensualità per dare precedenza alla mente.
Non lo so. D’altronde Atena nasce dalla testa di Zeus e si trova sempre dalla parte del padre».
Quello di Atena che nasce dalla testa paterna è il caso estremo e simbolicamente più espressivo della figlia che fa a meno della madre. «Rappresenta la perfetta realizzazione del desiderio maschile di procreazione», commenta Sapegno. «Nasce dalla testa di Giove senza sgradevoli contaminazioni con le viscere, e per questo può simboleggiare la sapienza». È il sogno ricorrente anche di Chiara Gamberale, quarantenne figlia di Vito, un’importante carriera nelle telecomunicazioni. «Anche nella mia ultima favola Qualcosa faccio subito fuori il personaggio della madre: non è la prima volta che mi succede». Nel suo racconto il padre è “Qualcuno di importante” e la madre “Una di noi”, quasi a dar voce alla lacerazione femminile.
«Quello con mio padre Vito è il rapporto più misterioso e profondo della vita. La sua è la storia di un ragazzo povero, figlio dell’aspro Molise, che è diventato uno dei più importanti manager italiani. Come facevo a essere sua figlia senza soccombere? E allora mi sono buttata sui libri e sulla narrativa: non potendo ripetere il suo salto economico, mi sono lanciata in un salto culturale». Qualcosa narra di una figlia che ride troppo, piange troppo, si muove troppo: sempre mossa dall’ansia di non essere all’altezza del padre. «Molto di quello che ho fatto è per indurlo all’innamoramento. Mio padre è silenzioso, io urlo le mie emozioni più spellate. Alla sua riservatezza oppongo una scrittura impudica. E lui mi guarda allo stesso modo del personaggio paterno nel romanzo: con doloroso stupore».
Non tutte le figlie del padre si ritrovano in questa ambivalenza.
«Forse perché nasce da un presupposto che non condivido», dice Eva Cantarella, studiosa del mondo antico nel solco tracciato dal padre, l’insigne grecista Raffaele. «È quel presupposto secondo il quale esiste un mondo esterno razionale – il maschile – separato da uno interno sentimentale – il femminile. Si tratta di una dicotomia ereditata dalla cultura greca, più tardi approfondita dal pensiero della differenza. Io non ho mai condiviso questa distinzione perché credo che la persona umana contenga elementi maschili e femminili variamente composti. In ognuno di noi c’è un po’ di tutto». Quindi nessuna investitura da parte del padre e soprattutto nessun conflitto. «Se giovanissima sono andata a Berkeley negli anni Sessanta è per un mandato famigliare e non solo paterno. Il vero ponte verso la cultura è stata mia madre, una casalinga che avrebbe desiderato tanto studiare».
Padri e figlie, un rapporto il più delle volte complicato dall’amore perché, suggerisce Maraini, «l’amore è una forza che unisce e divide». E qualcosa vorrà dire se oggi i romanzi incentrati su questa relazione incandescente tendono a rarefarsi. Anche perché negli ultimi decenni al padre normativo si è andato sostituendo una figura più debole, quasi fantasmatica, un personaggio mancato. «Forse un’epoca è finita e un’altra sta nascendo», scrive Sapegno.
«Un’epoca in cui il rapporto tra padre e figlia potrà non basarsi più sulla cancellazione della madre. E dove il mandato paterno non sia una domanda di identificazione e possesso, o una richiesta di maternage». Tra il troppo e il nulla, conclude la studiosa, una strada bisognerà pur trovarla. Nella letteratura. E soprattutto nella vita.