Corriere 8.3.18
L’8 marzo e il lavoro
Ragazze, c’è molto da fare
di Lucrezia Reichlin
Otto
marzo, giornata delle donne. Quanta retorica e quanta poca comprensione
di quella che un tempo si chiamava «la questione femminile». Il
problema è complesso e multidimensionale, ma si deve analizzare partendo
dal lavoro. Non solo perché dal lavoro dipende l’indipendenza
economica, fattore necessario all’emancipazione, ma soprattutto perché
al lavoro è legata la propria identità. Per le donne non è sempre stato
così, ma lo è sempre più oggi.
L’evoluzione della diseguaglianza
tra sessi è legata a quella dello sviluppo economico, ma il legame non è
lineare. Claudia Goldin, forse la maggiore storica economica del lavoro
femminile, dimostra che la partecipazione alla forza lavoro — cioè la
percentuale di donne sulla popolazione femminile con più di quindici
anni di età che sono occupate o in ricerca attiva di lavoro — è alta
quando il reddito pro capite è basso, diminuisce al crescere del
benessere e torna ad aumentare ad alti livelli di reddito. Le donne
povere lavorano per necessità. In Ghana la partecipazione è al 74 per
cento, negli Stati Uniti solo al 56%. Nei Paesi avanzati era alta nella
prima metà del secolo scorso perché legata al lavoro a bassa
specializzazione nelle fabbriche della seconda rivoluzione industriale e
poi alla necessità della guerra. Ma dopo la Seconda guerra mondiale le
donne sono tornate a casa.
Tra gli anni Quaranta e Sessanta quando
lavoravano lo facevano in modo saltuario, per portare un complemento al
reddito familiare. È solo dagli anni Settanta che le donne cominciano a
considerare il lavoro come fatto identitario, qualcosa che non si fa
saltuariamente, ma che richiede pianificazione, investimento in
scolarizzazione, scelte di studi che non siano solo motivate da una
generica acquisizione culturale, ma dall’obbiettivo di una carriera
professionale. Con le ragazze degli anni Settanta comincia questa vera e
propria rivoluzione: il lavoro per le donne diventa, come per gli
uomini, parte della loro identità.
Questa rivoluzione si
accompagna a grandi trasformazioni della vita familiare e a conquiste
importanti: la contraccezione, il divorzio, le leggi contro la
discriminazione. Come tutte le trasformazioni il processo non è
indolore, comporta aumenti di conflittualità intra familiari, nuove
fragilità femminili, ritorni indietro, grandi dubbi identitari.
Dove siamo oggi, noi ragazze degli anni Settanta, reduci ammaccate di questa rivoluzione e cosa lasciamo alle nostre figlie?
Negli
Stati Uniti, dove l’entrata massiccia delle donne nel mercato del
lavoro ha anticipato quella europea, dagli anni Novanta si è arrivati a
uno stallo e non ci si muove da un tasso di partecipazione del 56%.
Rimane anche il gap salariale. Quest’ultimo non è dovuto alla
discriminazione bensì a una preferenza delle donne per occupazioni che
non richiedano una inflessibilità delle ore di lavoro. Il gap è infatti
più alto nel settore finanziario, dove una carriera di successo richiede
disponibilità totale e inflessibilità del tempo dedicato al lavoro,
minore nell’attività scientifica. Il gap non è percepibile all’uscita
dell’università, ma si manifesta dopo 10-15 anni di carriera. Rivela una
asimmetria tra uomini e donne nel loro ruolo nella vita familiare.
Asimmetria, legata non alla procreazione, ma alla maggiore propensione
delle donne a farsi carico di chi, nella famiglia, ha bisogno di
assistenza. Non è chiaro se questa sia una preferenza innata o la
conseguenza di tratti culturali che persistono anche per il minore
potere contrattuale della donna all’interno della famiglia. La ricerca
mostra che queste preferenze sono sì persistenti, ma evolvono nel tempo
in relazione al manifestarsi di nuovi modelli esistenziali e di
politiche familiari e del lavoro che favoriscono un maggiore equilibrio
tra uomini e donne nella erogazione dei servizi di assistenza informali.
C’è qui quindi un grande spazio di azione politica. Il plateau
raggiunto negli anni Novanta non è un limite naturale, ma qualcosa che
si può spostare.
Veniamo ora all’Italia. Il nostro Paese ha il più
basso tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro
dell’Unione Europea. Oggi siamo al 39,5% contro il 55% della Germania,
il 51% della Francia e il 45% della Grecia. Il paradosso italiano è che
questo basso tasso di partecipazione si accompagna a uno dei più bassi
tassi di fecondità del mondo. Daniela Del Boca, una delle maggiori
studiose italiane sul tema, attribuisce questo fenomeno alle scarse
politiche di welfare , altri alla bassa protezione occupazionale che
scoraggia le donne a rientrare nel mondo del lavoro dopo il primo
figlio. Ma non si può non sospettare che ci sia qualcosa di più, che il
nostro Paese sia affetto anche da un problema culturale, da una
misoginia generalizzata forse anche motivata dal malessere che le
trasformazioni di cui parlavo hanno creato nei rapporti tra uomo e donna
in una società fin ancora di recente molto tradizionale.
I
modelli femminili proposti dai media continuano a essere offensivi e la
scarsa presenza femminile in ruoli chiave dell’economia, della politica e
della finanza sottraggono modelli di riferimento alle giovani donne. Si
direbbe che in Italia il successo femminile, quando avviene, crea non
solo risentimento ma addirittura sgomento. Basti pensare come Boldrini e
Boschi sono state trattate: un accanimento personale volto a
distruggere e a intimorire bene al di là del normale scontro politico.
Stupisce anche come in Italia si sia parlato poco dell’effetto Weinstein
e dei dati sconcertanti che continuano a emergere ovunque sulle
molestie sessuali nel mondo del lavoro. Tra gli intellettuali anche
illuminati prevale un cinismo italico che si mischia a una grande
ignoranza del problema.
Ma il progresso del nostro Paese, la sua
capacità di selezionare e trattenere talenti in tutte le sfere della
società è legata al progresso delle donne. Cambiare la situazione
richiede almeno tre cose: accettare che il problema esiste, capire che
va affrontato con politiche attive e comprendere che il progresso delle
donne è complementare al progresso di tutti.
Innanzitutto, la
valorizzazione del lavoro a tutti i livelli incoraggia le donne in ogni
segmento occupazionale e rende più facile combinare procreazione e
lavoro. Ragionare di donne significa ragionare sul futuro del lavoro.
Ma
non solo. L’insieme di regole barocche — de jure e de facto — con cui
in Italia si seleziona la classe dirigente e la mancanza di trasparenza
di nomine e cooptazioni in posti chiave, inibisce la possibilità di
pescare in pool di talenti ampi e quindi di beneficiare della
potenzialità del nostro capitale umano, maschile e femminile. Ma
scoraggia soprattutto le donne, che in un sistema del genere rinunciano
in partenza perché tipicamente tagliate fuori dai «boys club» e dai
meccanismi informali di cooptazione.
La fragilità della posizione
delle donne nella società italiana è l’indizio di un malessere più
generale. Combattere per i diritti delle donne significa anche battersi
per una società più inclusiva per tutti. Ma non illudiamoci: la strada,
per noi, continuerà ad avere una sua specifica difficoltà e avrà bisogno
di politiche dedicate che la rendano meno impervia.
Forza ragazze, c’è ancora molto da fare e non se ne deve parlare solo l’otto marzo.