Repubblica 7.3.18
Zanda
“Il ciclo di Renzi è finito ora il Pd a Martina Parlare coi grillini”
di Giovanna Casadio
Capogruppo Pd
Luigi
Zanda, è stato capogruppo del Pd al Senato nell’ultima legislatura. È
stato rieletto, ed è uno dei candidati per la presidenza
ROMA
«Matteo Renzi potrebbe seguire l’esempio di Walter Veltroni che, quando
si dimise, lasciò subito al suo vice Dario Franceschini il compito di
reggere il Pd e traghettarlo verso il congresso». Luigi Zanda, ex
capogruppo dem a Palazzo Madama, rieletto senatore, ha usato parole di
fuoco contro le dimissioni a metà - annunciate e congelate di Renzi . E
insiste, rilanciando: «Martina, il vice segretario, è il reggente in
pectore».
Zanda, lei chiede sempre al segretario dem di dimettersi immediatamente senza manovre?
«Dopo
una sconfitta così grave, le dimissioni del segretario sono una
conseguenza naturale. Le dimissioni sono una cosa seria e quando si
danno devono avere una efficacia immediata».
Ma questa richiesta è sua e di pochi altri, o è anche di Dario Franceschini, che è stato azionista di maggioranza del renzismo?
«Penso sia un’esigenza elementare largamente condivisa».
Nelle ultime ore forse Renzi si è convinto a dimettersi senza dilazioni?
«La
convocazione della direzione in una data certa, lunedì, e
l’indiscrezione che Renzi non vi parteciperà e che la relazione sarà
tenuta dal vice Martina sono dei passi in avanti. In più immagino che il
presidente del partito Matteo Orfini leggerà la lettera di dimissioni
di Renzi, che spero confermerà una decorrenza immediata. Le dimissioni
del segretario sono una decisione importante, che può aiutare veramente
il Pd sia a ad analizzare in profondità le ragioni della sconfitta sia a
raccogliere le energie nuove per ripartire».
Per ripartire intanto con Martina?
«Il reggente in pectore è lui.
Abbiamo
un precedente. Quando Veltroni si dimise e il Pd venne retto dal vice
segretario Franceschini. È un esempio che si potrebbe seguire. Mi pare
si stia andando in questa direzione».
Renzi parla di un attacco
nei suoi confronti, per trattare con i grillini sulle poltrone, ad
esempio sulla presidenza di una delle Camere.
«Né in politica né nella professione ho mai chiesto nulla per me e mai lo chiederò.
Qualsiasi insinuazione è offensiva. Ma c’è un punto politico che riguarda i rapporti con i 5Stelle e con la Lega Nord».
Secondo lei il Pd dovrebbe
dialogare con i 5Stelle?
«Per
5 anni nell’ultima legislatura ho guidato in Senato un confronto sempre
duro con i 5Stelle. Da loro non mi separano solo differenze sulle
politiche parlamentari, e programmatiche, ma una divergenza di fondo
molto seria: io sostengo la democrazia parlamentare rappresentativa, i
grillini vogliono la democrazia diretta, la democrazia dei clic e quella
di un referendum alla settimana».
Quindi non si vanno a vedere le carte, magari in streaming, senza tabù, come ritiene Sergio Chiamparino?
«In
politica si deve parlare con tutti e, a maggiore ragione, si deve farlo
con un partito che ha ricevuto un consenso molto ampio. Ma confrontarsi
non annulla le differenze forti”.
Anche la Lega sta cercando sponde tra voi dem. Aperture possibili?
«No.
I leghisti hanno visioni valoriali opposte alle nostre. Solo due esempi
su questioni importantissime: le diversità sulle politiche migratorie e
dell’Unione europea».
Insomma in questo è d’accordo con Renzi: il Pd deve restare all’opposizione?
«Sì,
una cosa è chiara: gli elettori hanno indicato per il Pd il ruolo di
opposizione e la volontà degli elettori va sempre rispettata».
Il Pd ha fatto una campagna elettorale all’insegna dello slogan “saremo il primo partito”. Poi è successo il cataclisma.
«È
il punto più basso mai raggiunto dal partito. La sconfitta più grave
dal 2014. Dopo il 40% alle europee, ci sono state quattro altre
sconfitte tra cui l’umiliazione della bocciatura della riforma
costituzionale al referendum. Fu un errore non fermarsi a riflettere su
come fosse stato possibile dilapidare in così poco tempo un grande
consenso politico strategico per la stabilità dell’Italia».
Sta dicendo che Renzi doveva farsi da parte allora?
«Non lo dico e non lo penso».
Dovrebbe farlo adesso?
«Ma ora l’ha fatto, si è dimesso».
Ma non è che fomentate altre divisioni?
«Nel
mio vocabolario non c’è la parola scissione. Penso che un partito senza
unità non sia un partito, ma un partito nel quale la fedeltà conta più
della lealtà non è un buon partito».
Aperture alla Lega?
Anche
no. Con i leghisti ci sono stati scontri su questioni importantissime
come immigrazione ed Europa La bocciatura del referendum il 4 dicembre
fu una umiliazione: è stato sbagliato non essersi fermati a riflettere
sulla crisi del partito