Repubblica 7.3.18
La sfida che può cambiare i dem
di Stefano Folli
Il
vero tema del dopo elezioni riguarda la prospettiva dell’intesa tra
Cinquestelle e Pd. Per adesso la posizione ufficiale dei vincitori è:
“noi parliamo con tutti”. Ma il vero interlocutore nascosto dietro il
termine “tutti” è il Partito democratico. È nel pieno interesse dei
Cinquestelle cercare un’intesa con il centrosinistra sconfitto. È il
disegno immaginato fin dal primo momento e rispetto al quale non esiste
un piano B, ossia un ponte proiettato verso Salvini. M5S e Lega restano
opposti uno all’altro: avversari e concorrenti.
Quindi il Pd.
Chiara la volontà del M5S che ha raccolto una messe di voti proprio
nell’alveo del centrosinistra, sfruttando la crisi di questa area. Molto
meno evidente l’interesse del Pd ad accettare un giro di valzer con Di
Maio.
Tuttavia la tentazione affiora nel partito, anzi si va
diffondendo nei giorni precedenti la direzione: Chiamparino parla di
“abbattere i tabù”, poi ci sono le voci della minoranza e le
dichiarazioni di Emiliano, finora il più esplicito. Ma le ragioni
contrarie sono altrettanto solide: paventano il suicidio di un partito
ancora frastornato dopo la disfatta di domenica. Si può chiedere a un Pd
quasi disarticolato di accordarsi con chi gli ha sottratto voti, base
sociale e ruolo pubblico? La risposta, a parere di tanti, soprattutto
fra i militanti e nella base elettorale, è negativa: non in questa fase e
non nei termini adombrati dal M5S. E infatti Dario Franceschini ha
pronunciato il suo “no” di bandiera: il Pd non intende fare accordi
politici con i Cinquestelle.
Tutto risolto, allora? Non proprio.
Siamo
solo all’inizio di un percorso lungo e complesso. In realtà
Franceschini rispondeva a Renzi, non al capo del M5S. Ed è logico. Dopo
lo “show” intorno alle dimissioni/non dimissioni del segretario perdente
si è acceso nel Pd uno scontro feroce, la cui posta in gioco è l’unità
del partito e la sua rifondazione. Il gioco di Renzi sta nel
condizionare la linea politica partendo da un “no” ai Cinquestelle che
per lui è strategico e definitivo: tanto assoluto da celare a malapena
la stizza verso il capo dello Stato e da sfiorare la mancanza di
rispetto verso l’istituzione cui spetta di sbrogliare la matassa
avviando un dialogo con tutti i protagonisti della crisi. Renzi è
consapevole che i suoi avversari nel Pd vogliono liberarsi di lui e sta
giocando le sue scarse carte con la consueta spavalderia. Ai nemici
interni del leader conviene tenere ben distinto il tema della segreteria
dalla discussione sulla linea politica (quale rapporto con i
Cinquestelle). A Renzi conviene il contrario: mescolare le due questioni
e sfruttare la diffidenza della base verso Di Maio e i suoi amici.
Franceschini
con il suo “no” ha inteso sgombrare il campo dagli equivoci. In seguito
si vedrà. È chiaro che il gruppo dirigente che guarda oltre Renzi non
intende creare ulteriori problemi al Quirinale. E non vuole nemmeno
rinunciare alla politica. Del resto la situazione è tutt’altro che
statica, come dimostra l’adesione di Carlo Calenda al partito: un gesto
volto anch’esso a delineare il cammino del dopo Renzi.
La crisi si annuncia lunga e alcuni dei “no” di oggi potrebbero diventare i “sì” di domani, sia pure a certe condizioni.
Di
sicuro non si può chiedere a un centrosinistra che cerca la strada per
rigenerarsi di diventare il vassallo dei Cinquestelle. D’altra parte il
limite della posizione intransigente, che concepisce solo l’opposizione a
tutti i costi, è il rischio di portare a nuove elezioni in tempi brevi.
Un esito che nessuno si augura.