Repubblica 7.3.18
La sinistra resti dalla parte dele sue idee
di Ezio Mauro
Nel
1994, quando Berlusconi arrivò in politica e vinse, con lui era sceso
in campo il ceto medio, il mondo delle partite Iva, la piccola
imprenditoria, vogliosi di mettersi in proprio e di costruirsi una loro
proiezione pubblica, diventando protagonisti.
Era una specie di
istinto di classe (difensivo e aggressivo nello stesso tempo) che si
faceva partito, prendendo forma politica e cambiando il paesaggio
dell’intero sistema. Ventiquattro anni dopo non c’è un blocco sociale
che porta i suoi interessi dentro il gioco istituzionale, non c’è un
ceto che aspira alla guida della cosa pubblica.
Quella che è in atto è una cosa diversa: una grande sostituzione.
Non
avendo il Paese una vera e propria classe dirigente, ma soltanto dei
network che si autotutelano perpetuandosi, non ne aveva nemmeno una di
ricambio, un gruppo di emergenti che aspettava la sua occasione per
affacciarsi al comando. Prosciugate le culture politiche in cui è
vissuto e cresciuto l’Occidente, non c’era nemmeno un bacino di storia
alternativa a cui fare riferimento, conoscendone valori e ideali. Non
restava che pescare nel nulla, nella spontaneità di un movimento che è
un fenomeno sociale più che un partito, disancorato dalla vicenda
storica europea del dopoguerra, senza legami con le culture politiche di
altri Paesi, abituato a vivere solo nel presente, generato com’è dalla
delusione della rappresentanza trasformata in rabbia e risentimento.
Chi
viene da un altrove, senza passato e dunque senza vincoli, non può
evidentemente garantire esperienza e competenza, ingredienti
indispensabili ad ogni vero progetto politico di cambiamento. Ma può
realizzare qualcosa che è infinitamente più basico e insieme più
universale di un cambiamento, e cioè una generale sostituzione.
Siamo
arrivati a questo punto perché la politica ha esaurito qualcosa di
fondamentale, che l’ha animata per tutto il Novecento: la capacità di
generare speranza. Non essendo una risorsa naturale, la speranza nasce
dai progetti, dal carisma delle leadership, dall’autenticità delle
proposte, da un’idea del mondo e della vicenda umana capace di
convincere, di appassionare e di coinvolgere. Insieme con la fine (
tardiva) delle ideologie, si sono rinsecchite anche le idee, il concetto
della politica come costruzione di un progetto collettivo, il
sentimento della storia: la coscienza di agire dentro un’avventura
comune, da difendere, aggiornare e interpretare per poterla tramandare.
Siamo disancorati, dunque preda del vento del momento, e
nell’estemporaneità la narrazione soppianta la storia, il gesto prevale
sul pensiero, il segno prende il posto del significato, la
rappresentazione sostituisce la rappresentanza.
Proprio la crisi
della rappresentanza è l’altra ragione dell’indebolimento della
politica. In un’epoca in cui esplode la trama dei contatti, s’infittisce
la rete delle relazioni e crescono gli istituti di democrazia diretta
che ci chiedono di esprimerci, ci sentiamo scoperti di fronte al
carattere globale delle vicende che ci sovrastano, poco protetti, più
soli, non tutelati. Le contraddizioni ci confondono: se tutto è globale
non abbiamo più una scala su cui misurare gli eventi che ci incalzano e
valutare le risposte appropriate, vilipendiamo governi e parlamenti, ma
intanto chiediamo loro di governare a mani nude fenomeni epocali, siamo
contro l’Europa e i suoi vincoli, poi soffriamo della sproporzione tra
una politica domestica e l’universale che viene a bussare alle nostre
finestre.
Aggiungiamo la perdita di identità delle due grandi
forme del pensiero politico europeo, la destra e la sinistra,
diversamente svuotate e trasformate entrambe. La crisi
economico-finanziaria del decennio ha imposto l’egemonia della “
necessità”, un’egemonia apparentemente disarmata, senza mandanti e senza
ideologia, che porta le diverse politiche a conformarsi e ad
assomigliarsi, dentro una neutralità democratica senza più forti
passioni e senza nette distinzioni, come se la visione del mondo fosse
una soltanto e per sempre, e come se capitalismo e democrazia non
avessero entrambi bisogno di una critica costante, di un pensiero.
Questa
politica indistinta, che non trasmette speranze, che non garantisce una
effettiva rappresentanza, che non può domare la globalizzazione, è
probabilmente la cifra degli anni che stiamo vivendo: non riusciamo a
governare ciò che abbiamo prodotto. Ma gli effetti nella vita del Paese
sono devastanti, perché la crisi ha diviso, atomizzato, disperso. Ha
selezionato, spinto ai margini. Ha rotto il vincolo di necessità e di
responsabilità che fino a ieri teneva in collegamento tra di loro le
parti alte e quelle più basse della scala. In una parola, la crisi ha
riformattato il sociale, e la politica non c’era, o era gregaria.
Il
risultato è sotto gli occhi. Ci sono i nuovi esclusi. C’è il ribellismo
della piccola borghesia. E ci sono i dimenticati, una folla di
individui isolati che si sentono tagliati fuori, scoprono che miserie e
frustrazioni non si sommano più come un tempo, non trovano più un
traduttore politico che le trasporti dentro le grandi categorie del
discorso pubblico. Ci sono però due nuove opzioni politiche: una, quella
leghista, coltiva questo risentimento impaurito e gli fornisce una
cornice politica simbolica, popolata da bersagli concreti,
l’immigrazione, l’Europa, il cosmopolitismo, il mondo aperto. L’altra,
quella grillina, nobilita questa rabbia e questa invidia sociale
portandola in politica così com’è, senza mediazioni e trasformazioni,
scagliandola contro i partiti, le istituzioni, la corruzione, l’Europa.
Sono
due espressioni politiche istintuali, due radicalità simmetriche, con
linguaggi e movenze simili, che pescano nella stessa pancia del Paese, e
propongono non un cambiamento, una nuova politica, una correzione di
rotta, ma appunto una radicale sostituzione. Una politica sommaria,
dunque, da giudizio di Dio, dove non conta chi arriva ma solo chi se ne
va, purché se ne vada. Per tutti questi caratteri, si tratta di due
proposte populiste, una ferocemente di destra, l’altra mimetica e
mutante, un qualunquismo radicale che ha pescato voti ovunque purché
contro. Entrambi, oggi che hanno vinto ma non hanno i voti per
governare, chiedono agli altri ( come testimonia la lettera di Di Maio a
Repubblica) quelle prove di responsabilità che loro hanno sempre negato
in passato, e fino all’altro ieri: magari in streaming.
La vera
responsabilità, a destra, sarebbe quella di separare finalmente anche in
Italia i moderati dai populisti, cosa che Berlusconi non ha mai voluto
fare, fino a subire un’opa definitiva da Salvini. E a sinistra, la
responsabilità è chiara: ricostruire quel che si è perduto ( ben più del
voto), stando all’opposizione con la propria gente e con le proprie
idee. Ritrovate.