martedì 6 marzo 2018

Repubblica 6.3.18
Il grande deluso
Triste, solitario y final l’ultima sconfitta del lìder Massimo
di Filippo Ceccarelli


La crudeltà elettorale non guarda in faccia nessuno e così l’urna sterminatrice ha falciato via D’Alema. Il quale per la verità era già fuori dal Parlamento, ma solo perché l’aveva voluto lui, sia pure di altezzosa e dissimulata malavoglia, al culmine della Gran Rottamazione.
Eppure, proprio perché escluso, e distante, e sconfitto, aveva raddoppiato i suoi sforzi, aveva dilatato il suo tempo, la sua passione, la sua celebrata intelligenza e la sua sprezzante cattiveria per rimanere a suo modo centrale dentro gli ingranaggi del potere, della fama e della lotta interna. E siccome, scissione o non scissione, alla fine c’era riuscito, e i giornalisti lo cercavano, nelle cerimonie lo facevano accomodare fra le autorità, al Nazareno ne temevano giustamente i fulmini, quando gli avevano mostrato un primo possibile bozzetto del marchio del nuovo partito, disegnato dall’ignaro Oliviero Toscani all’insegna di una enorme scritta, “MAX”, che esauriva qualsiasi altra emblematica valenza, Massimo D’Alema si era concesso lo sfizio di commentare signorilmente, con lieve e inconfondibile smorfia di sopportazione: «Mi pare un tantino eccessivo, diciamo». E si era buttato da par suo nella campagna elettorale salentina, orgoglioso e perfino appagato di vendetta.
Tale è il personaggio: così facile da rappresentare a tinte forti che ogni valutazione più schiettamente politica rischia di disperdersi nel novero dell’indistinto e del superfluo, così come nello sfoggio di calcolata inautenticità - ma pazienza.
C’è adesso una foto, sadicamente scattata la notte dei risultati in una sala deserta e disadorna di un albergo di Lecce. Tutto trasmette freddo, delusione, solitudine: Max è seduto a capo chino con due persone, alle sue spalle la beffarda divinità delle inquadrature ha piazzato un impianto anti incendio. La sedia è piccola e nera, essenziale, e agli osservatori professionali delle faccende di potere ha fatto venire in mente per contrasto il trono con pedana e panneggi che per D’Alema fu allestito nella sala della Regina di Montecitorio ai tempi della Bicamerale; e poi, sempre in tema, un’altra foto mai vista, eppure mormoratissima, in cui sempre lui sarebbe stato ritratto dal fotografo personale come un vero sovrano su un trono doppiamente reale e per giunta normanno, nella casa siciliana di Vladimiro Crisafulli, ricca di storici tesori. E di nuovo: vabbè.
Fin troppi adesso si gusteranno i numeri della sconfitta dalemiana e la triste immagine leccese perché la mortificazione di un leader superbo assomiglia a un atto di giustizia rinforzato dalla sua stessa colpa, una punizione quasi trascendente che ripaga i tanti che in un quarantennio lui stesso ha sgominato o contribuito a sgominare: il povero Natta; il povero Occhetto, che ancora qualche mese fa lo chiamava “serial killer”; e poi Prodi, un paio di volte, senza contare le delizie riservate nel corso del tempo a Fassino, a Veltroni, allo stesso Bersani, che per inciso rischia pure lui il posto in Parlamento, in questo testimoniando l’esito fallimentare dell’intera “ditta” del post-comunismo italiano, con i suoi nomignoli commerciali, i suoi leader caldi e freddi, simpatici e antipatici, le sue storie di cupio dissolvi, abiura e rovesciamento del severo costume dei padri.
L’illusione di riempire il vuoto di una fede con barche, scarpe, birre e gigionerie linguistiche, narcisismi da talk show e da gentiluomo di campagna, ostensione di imitatori, vini pregiati, ulivi centenari, affettatrici d’epoca e minacciose zanne di mastini danteschi che possono uccidere, «U-cci-de-re, capito? Su, Aiace, fai vedere i dentini...». E passi, pure questa, dolce Aiace.
Ma ecco che qualcosa stavolta è accaduta. Non per colpa, s’intende, o per vendetta soprasensibile in conto terzi: ma perché i leader tosti, i politici che nel carattere e nel combattimento cercano e trovano la loro ragione, non sono infallibili, tantomeno invincibili, e rischiano e vengono sconfitti, e addio alle armi.
È nella forza delle cose e del tempo, che tutto blocca e insieme tiene in movimento.
Anche in questo Renzi è stato fatale per D’Alema, che prometteva: «Finché mi sarà dato di esistere, non potrà stare tranquillo». Così però va il mondo, nelle vicende di potere, che Renzi ha perso e che D’Alema pure, esito paradossale nella crudele normalità delle urne.