Repubblica 4.3.18
Antonio Albanse
Io sto con i migranti. Mi ricordano papà
Intervista di Anna Bandettini
Deve
essergli piaciuta come “ missione impossibile”: l’idea di parlare del
tema più controverso del momento, l’integrazione tra culture e popoli,
con toni incoraggianti invece che ansiosi, per sorridere e non per
drammatizzare, per farne non una storia triste, di dolori, violenze,
rifiuti, ma di normalità. « Sono stanco di sentire sempre toni e
reazioni esagerate quando si tocca un tema enorme come quello dei
migranti», dice, «è vero che i problemi ci sono, non lo nego. Sono il
primo che all’ennesimo venditore tiro dritto sul marciapiede col grugno
in faccia, ma se si vuole affrontare il tema lo si può fare con un tocco
leggero e un po’ di umanità».
Antonio Albanese lo ha fatto
tornando regista al cinema dopo sedici anni, in una stagione che sta
attraversando da ilare schiacciasassi: protagonista trionfale con Paola
Cortellesi di Come un gatto in tangenziale autentico successo al
botteghino, autore del folle ricettario di prelibatezze inesistenti,
Lenticchie alla julienne (Feltrinelli), regista, appunto, del suo quarto
film e in procinto di un altro, imminente ritorno, a fine aprile in Rai
con un programma tutto suo, atteso dai tempi del fortunato Non c’è
problema del 2003, che si intitolerà Topi, su Raitre. «Sto scoprendo il
piacere di scrivere e dirigere: anzi spero di farlo più spesso, e per
altri, senza stare in scena io stesso ».
Il quarto film si
intitola Contromano, scritto con Andrea Salerno, Stefano Bises e Marco
D’Ambrosio- Makkox, il disegnatore satirico, e uscirà nelle sale il 29
marzo con Fadango e Rai. Albanese è Mario Cavallaro, un signore un po’
come lui, un lombardo tranquillo, onesto, routinier, un po’ isolato («Io
mondano? Preferisco una cenetta intima con pochi amici » , confessa di
sé), il quale per liberarsi del senegalese che vende calze proprio
davanti al suo negozio di calze, decide di riportarlo personalmente nel
suo paese, in Senegal.
Ma da dove le è venuta un’idea così folle?
«Tra
le mille cazzate che ho sentito dire sulla questione dei migranti,
giuro, c’è anche questa: abbiamo tante macchine, li carichiamo su, li
riportiamo in Africa e il problema è risolto... Come spunto per
raccontare in modo paradossale una questione complessa, piena di
contraddizioni e paure, mi è sembrato perfetto. Quel viaggio “
contromano” i protagonisti del film lo fanno davvero e sarà anche un
viaggio nei sentimenti».
Il cambiamento può venire anche da cose così?
«Per
il mio Mario ma anche per Oba, il senegalese interpretato da Alex
Fondja, e Dalida, la sua compagna che è Aude Legastelois, originaria del
Mali, esordiente bravissima, funziona. Perché ciò che conta è che,
quando finalmente ci si confronta “noi” e “loro”, capiamo di essere
tutti sulla stessa barca».
Oggi si vota: in questa campagna elettorale quello dei migranti è stato un tema centrale. Lei che ne pensa?
«Che
molti lo usano in maniera furba. Personalmente mi danno fastidio quelli
che hanno parole che nemmeno Cetto La Qualunque si sognerebbe o quelli
che trovano le soluzioni facili, “ Mandiamoli a casa”, “
Blocchiamoli”... Ma cosa blocchi? Io da italiano mi sento orgoglioso di
far parte di un Paese che ha accolto, facendo cambiare posizione anche
all’Europa o almeno a una parte di essa. Per fare il film, con Alex e
Aude, i due attori, abbiamo davvero fatto un viaggio verso la
Mauritania. Ci siamo imbarcati a Genova nell’unica nave che dall’Europa
va verso il Marocco e porta marocchini, tunisini con le auto cariche di
masserizie da portare ai parenti. È qualcosa di toccante a vederlo, e a
me ha fatto venire in mente i racconti di mio padre».
Cioè?
«Quando
nel ’58 è salito dalla Sicilia al Nord e nessuno affittava casa ai
meridionali. Io sono un po’ segnato da queste storie, da quel sentimento
per cui migrare è un sacrificio oltre che un’opportunità. Però per
questo sono felice che mio figlio Leonardo, il secondo di otto anni, a
scuola possa stare con bambini di altre nazioni. Secondo me per l’Africa
ci vorrebbe un piano Marshall come fu per l’Italia nel dopoguerra:
finanziamenti a progetti per costruire lì e valorizzare il territorio.
Altrimenti non c’è soluzione. Il mio Mario in fondo fa così, fa quello
che ha realizzato Slow Food finanziando migliaia di orti in Africa,
insegnando alla gente a coltivare e garantirsi i viveri. Da un Mario
come il mio può scattare qualcosa di grosso».
Salverà Mario nella galleria dei suoi personaggi, Epifanio, Frengo, Alex Drastico...?
«
Amo la sua onestà da personaggio un po’ vintage, un po’ stordito, come
l’Occidente. Sì, forse potrebbe stare in quella galleria a cui sono
affezionato perché credo che siano tutti personaggi ancora vivi, non
invecchiati. Perché? Un po’ io li ho protetti rifiutando di
inflazionarli in film, show, spettacoli, dicendo tanti no; un po’
perché, lo dico con presunzione, sono maschere della Commedia dell’Arte,
i Pantalone, i Brighella di oggi».
Presto tra loro ci sarà anche il protagonista di “Topi”, la serie tv. Che storia è?
«Tempo
fa mi è capitato di sentire in tv di un latitante che possedeva
qualcosa come duecento milioni di euro ma viveva in un bunker mangiando
tonno. Mi ha fatto così ridere che ci ho scritto sopra la storia di una
famiglia di latitanti, una specie di Alex Drastico con moglie e figli
che vivono nei sotterranei. Saranno sei puntate di trenta minuti l’una,
storie comiche, da ridere. A cinquantatré anni il mio mestiere mi piace
sempre di più, e la comicità è la sfida per raccontare il nostro
presente complesso e incasinato senza retorica, vedendolo magari in modo
più chiaro».
Eppure si ride sempre meno. In tv i comici sono spariti, la satira limitata a una o due presenze...
«Se
è per questo mi hanno detto che il mio è l’unico libro comico delle
migliaia di titoli pubblicati quest’anno. Un segno brutto, noi che
veniamo dalla tradizione dei Benni, Serra... L’ironia è necessaria,
rovescia pregiudizi, false verità, ti fa vedere un’altra realtà, infonde
energia positiva e contrariamente a quello che si crede ti fa trovare
la misura delle cose, non ti fa distrarre dalla notizia di un canguro
che ha saltato la recinzione su Facebook... Ma come si può perdere tempo
in quelle puttanate? Se si ride meno è anche colpa di questi Facebook e
Twitter».
E perché?
«I social sono un virus che si è
insinuato, anche nell’informazione: si prende sul serio tutto, ogni
cazzata. C’è chi twitta per commentare negativamente quello che sta
vedendo alla tv: ma allora esci, vai a berti una birra, dico io. E
invece no, i social ti inducono a cercare nel mondo più malinconia di
quanta nei hai tu. Altro che risate ».