Repubblica 4.3.18
L’album del Rosatellum
Una campagna elettorale di desolante quasi comico nulla
Mai
come questa volta è andata in scena la grande regressione del potere,
la fine di ogni cultura politica Viene da chiedersi cosa resterà nella
memoria collettiva dei rimborsi della grillina Sarti e del suo ex, del
fantoccio bruciato della Boldrini, del maiale dei Casamonica
di Filippo Ceccarelli
Una
campagna elettorale di buffa desolazione: e non c’è il benché minimo
barlume d’incompatibilità fra prenderla a ridere e starci male, salvo
scoprire, quest’ultima domenica, il richiamo del nulla, il brivido del
vuoto, la potenza dello zero.
Si perdoni qui, se possibile,
l’irritante tono oracolare. Ma in termini più pedestri è pur vero che,
appena iniziata la sarabanda, s’è capito che l’articolato che doveva
disciplinarla, l’ingegnosissimo Rosatellum, era sbagliato, donde il beau
geste di un democristiano (Tabacci) che ha inglobato una radicale
(Bonino), fino a scomparire; e già questo era un segno dei tempi.
Un
altro, se si vuole, filtrava dai nomi dei grandi esclusi, nolenti o
respinti che fossero: Albano, Tremonti, il “Viperetta” Ferrero,
Elisabetta Gregoraci, Di Pietro, Toto Cotugno. La formazione delle liste
ha pure crudelmente sacrificato il senatore Razzi: “Nessuno mi ha detto
niente, ci vorrebbe un po’ di educazione, ho lavorato tanto per il bene
degli italiani”.
In Sicilia, alla riunione finale sulle
candidature un dirigente del Pd si è presentato con una clava
giocattolo. Mentre al Nazareno, dopo la notte delle scelte, l’onorevole
Guerini ha dovuto negare che il ministro Orlando avesse cercato di
entrare a spallate nella sua stanza (qualche metro più in là, Renzi non
corre di questi pericoli disponendo di una porta blindata con
videocitofono).
Per cui davvero, e ancora una volta in linea con i
due generi nazionali della commedia e del melodramma, c’è stato da
ridere e al tempo avvilirsi, da soffocare le risa e insieme da
preoccuparsi dinanzi agli occhi lucidi di Giorgia Meloni richiamata a
sorpresa ai suoi doveri di mamma, ché la piccola Ginevra non la vedeva
più tanto, come pure di fronte alla solenne motivazione con cui
l’aspirante premier Di Maio, col suo «bel musino da tv» (secondo
Berlusconi), ha investito la criminologa Giannetakis nientemeno che alla
guida del ministero dell’Interno: «Perché ha un carattere tosto».
A
un certo punto da più parti si è sollevato un caso Orietta Berti, ma
sul serio, nel senso che in qualche trasmissione la cantante aveva
espresso le sue preferenze per i cinque stelle, pure soffermandosi
sull’abbronzatura del loro leader («sembra un mulatto»); e Berlusconi ha
dato l’allarme su un incontro tra Grillo e il giudice Davigo, in quel
caso anche sceneggiando la doppia e rinforzata stretta di mano fra i
due; e Salvini, nel nome di Dio invano, ha cacciato di tasca il rosario e
siccome non bastava ha pure giurato sul Vangelo; mentre per mettere
fine all’angosciosa diatriba sulla titolarità della gloriosa Margherita,
la ministra Lorenzin s’è prodotta in una perifrasi di una canzone di
Sergio Endrigo su semi e alberi per concludere che il simbolo che aveva
alle spalle, fino a poco prima coperto sotto un velo, era un fiore
«petaloso e giallo come il sole» - e tra smorfiette e sorrisini sembrava
un saggio di prima media.
Ora, a smontarli e a rimontarli a
freddo, i dispositivi degli spettacoli, specie quelli politici per cui
non si paga il biglietto, paiono perfino rassicuranti.
Uno pensa,
con un sospiro: che s’ha da fa’ per acchiappare voti, e passa ad altro.
Ma stavolta l’espediente dell’interpretazione drammaturgica zoppicava,
ansimava, sbandava come sotto un peso maggiore. Gli «italiani
rincoglioniti» (Dibba), la «razza bianca» (Fontana), il fantoccio di
Boldrini bruciato in piazza, il maiale dei Casamonica postato dai
Fratelli d’Italia, l’ipotetica lesbica dei cartoni animati, il cane sul
podio di Brambilla, ecco che nel gran caos di vero circo e cimitero
virtuale, chiacchiere e strilli, scemenze e cose pericolose, beh, mai
come stavolta il paesaggio elettorale ha proiettato all’orizzonte la
grande regressione del potere, il compiuto disfacimento di ogni residua
cultura politica, la scorciatoia verso l’insignificanza.
È troppo?
E sarà anche eccessivo, ma se l’archeologia è davvero una via d’accesso
al presente, la crisi del discorso pubblico è cominciata nei primissimi
anni 90, e cinque lustri sembrano aver consumato non solo l’attenzione,
ma anche il buonsenso.
Grillo ha pubblicato un video in cui parla
con una statua (Rousseau); l’altro giorno il generale Pappalardo voleva
arrestare la presidente della Camera; e dopo aver disposto una specie
di festosa coreografia davanti alle telecamere l’81enne Berlusconi,
immemore di valutazioni olgettinesche sulla compattezza dei glutei, ha
piazzato lì: «Chi mi sta toccando il culo?». Eh, saperlo!
Il
presidente Grasso preteso moroso col Pd; il suo creditore-accusatore
Bonifazi mezzo nudo su un divano, pure lui con cani; il governatore De
Luca poggia le braccia sul collo dei due figli; quando la Procura gliene
ha toccato uno, eccolo subito in tv rabbioso: «Siamo alla barbarie»,
promette «la resistenza», si dichiara «partigiano».
Tutto sembra
precipitato in basso, senza più distinzioni gerarchiche, di passione, di
speranza, di decoro, di gravità, di niente. Vaccini, scontrini, Traini.
L’eccesso
di vaniloquio fa sì che i talk show risultino ormai muti, calamitando
lo sguardo sui volti attoniti dei figuranti. Silvione ha rifirmato il
Contratto chiamandolo Impegno, ha rifatto lo spiritoso sui capelli e
promesso un posto a Vespa. La direzione artistica di Porta a porta,
d’altra parte, ha consentito a Giorgia Meloni di portarsi in
trasmissione la mamma di Pamela. Ma la definitiva centralità di Barbara
D’Urso ha forzato e aggiornato i rituali di consacrazione televisiva con
siglette soft, applauso di benvenuto, passeggiata piaciona dell’ospite
con bacetto alla taccutissima conduttrice: «Mi avevano detto che eri un
bel giovane – così a Di Battista – ma sei anche molto alto».
In
compenso parlano, anzi rimbombano le foto, con l’energia di visioni
provvisorie e stralunatissime. Sgarbi sulla tazza del cesso. Salvini con
un fucile in braccio. Boschi al Carnevale tirolese. Casini sotto
l’altarino del riformismo. Le nonne di Renzi garantiscono la bontà del
nipote, ci mancherebbe.
Nei giorni furibondi della campagna elettorale la società civile ha finito per adeguarsi.
Un
turista francese – quasi un presagio - ha fatto la pipì dentro una
fioriera di Montecitorio; la testimone delle cene eleganti Ambra
Battilana, ora decisiva in #MeToo made in Usa, vuol fare un film; e per
qualche ragione l’altra settimana è anche esploso il ristorante di pesce
di Walterino Lavitola.
Fra stupore e malinconia, viene da
chiedersi che cosa resterà nella memoria collettiva dell’ex fidanzato
rumeno che faceva i rimborsi all’onorevole cinque stelle Giulia Sarti;
se sarà eletta la misteriosa Marta Fascetta candidata berlusconiana in
quota Milan-Pascale; e quali altri fastidi sarà costretta a patire la
signora De Falco – giù le mani, czz - cui Gigino Di Maio ha portato la
sua problematica solidarietà.
Tutto scorre, in fondo, tutto se lo
porteranno via le urne, tutto forse vale la pena di prenderlo come
viene-viene in questo tempo interminabile di sconsolata buffoneria.