venerdì 30 marzo 2018

Repubblica 30.3.18
Lo studio
Troppo pochi gli italiani in età lavorativa
Senza figli il Pil non cresce gli immigrati non bastano più
di Rosaria Amato


ROMA Gli immigrati non bastano più.
Negli ultimi anni hanno salvato l’economia italiana, compensando la riduzione delle nascite e rallentando il declino dovuto all’invecchiamento della popolazione, ma a partire dal 2041 il loro apporto in termini di lavoro non sarà più sufficiente a risollevare il prodotto interno lordo. Servirà altro: in mancanza di una ripresa delle nascite, bisognerà lavorare di più, e più a lungo. A dirlo è uno studio appena pubblicato dalla Banca d’Italia, dal titolo “Il contributo della demografia alla crescita economica: duecento anni di storia italiana”, di Federico Barbiellini Amidei, Matteo Gomellini e Paolo Piselli.
L’Italia è passata dai 26 milioni di abitanti censiti all’indomani dell’Unità a oltre 60 milioni. Per molto tempo la crescita della popolazione ha contributo alla crescita del Pil: si traduceva in lavoro, è quello che si chiama “dividendo demografico”, e fino a pochi anni fa è stato positivo.
Negli anni ’80, timidamente, sono cominciati ad arrivare i primi immigrati: fino ad allora l’Italia era stato un Paese di emigrazione, poco attrattivo per gli stranieri.
Nel 1981 i migranti erano poco più di 200.000, meno dell’1%: in quasi 40 anni hanno raggiunto quota 5,1 milioni, l’8,4% della popolazione.
Mentre si intensificavano i trasferimenti di stranieri, per gli italiani iniziava il declino: la popolazione in età da lavoro ha raggiunto il 70% all’inizio degli anni ’90, poi è iniziata la flessione e non si è più fermata, ora siamo al 59%. Nel frattempo, gli immigrati hanno dato un grande apporto alla crescita: in termini di Pil, solo nel decennio 2001-2011 si calcolano 2,3 punti. E poi c’è un contributo “ritardato” dovuto alle nascite: gli immigrati fanno più figli, tutti lavoratori futuri se rimangono nel nostro Paese.
Ma anche l’immigrazione sta cominciando a frenare, e con il tempo gli stranieri tendono ad assumere i comportamenti degli italiani, e quindi a fare meno figli.
Il problema è che se ci sono meno persone che lavorano l’economia crescerà sempre meno. La soluzione immediata sarebbe tornare a far figli, ma gli studiosi sono scettici, non andrà così: le previsioni ci dicono che nel 2065 in Italia vivranno 53,7 milioni di persone, 7 milioni in meno. L’anno spartiacque sarà il 2041: a quel punto l’apporto degli immigrati alla crescita diventerà negativo, da noi come negli altri Paesi europei. Fanno eccezione gli Stati Uniti, che manterranno anche nei prossimi anni tassi di crescita positivi della popolazione.
E dunque l’unica soluzione per evitare il declino, o per limitarlo, è quella di lavorare di più. Se gli immigrati non bastano, per evitare un crollo verticale del Pil bisognerà agire su altri fronti: aumentare la produttività, alzare l’età pensionabile, favorire l’occupazione femminile. La crescita della produttività necessaria a mantenere il reddito reale pro capite ai livelli attuali, calcola Bankitalia, è dello 0,3% l’anno: sembra facile ma è decisamente “superiore a quella pressoché nulla registrata dall’inizio del nuovo secolo”.
Un ruolo determinante potrebbe essere giocato da un aumento dei livelli d’istruzione: basterebbe solo avvicinarci a quelli tedeschi per mantenere elevati livelli di reddito. Grande peso ha anche l’età della pensione: con buona pace di chi vuole abolire la riforma Fornero, l’estensione della vita lavorativa fino a 69 anni ridurrebbe di sette punti percentuali la flessione del Pil pro capite sull’orizzonte 2016-2061.
E poi un importante contributo potrebbe arrivare dalle donne: al momento il tasso di occupazione femminile non arriva neanche al 50%, oltre 18 punti inferiore a quello maschile. Ma se solo si raggiungesse il 60% (obiettivo Europa 2020) gli effetti negativi dovuti all’invecchiamento della popolazione si ridurrebbero moltissimo, il vantaggio è di 13 punti percentuali. L’alternativa è rassegnarci: tra 50 anni non saremo solo più vecchi, saremo anche decisamente più poveri.

Repubblica 30.3.18
In Germania occupazione da record
di Tonia Mastrobuoni


L’economia al galoppo sta regalando alla Germania una primavera del lavoro. Se i numeri contassero, nel dibattito pubblico, dovrebbero chiudere la bocca ai tanti allarmisti che cavalcano la retorica dei migranti e dei profughi che scipperebbero posti ai tedeschi. A marzo l’agenzia federale del Lavoro ha registrato un tasso di disoccupazione in calo a quota 2,4 milioni, pari al 5,3%, il livello più basso dalla Riunificazione, 28 anni fa. Si tratta di un calo di 204mila senza lavoro rispetto a un anno fa e, destagionalizzato, di 19mila rispetto a febbraio. Anche i sottoccupati diminuiscono, coloro che fanno un lavoro a tempo ridotto (ma in Germania sono quasi sempre su base volontaria, come ricorda un saggio pubblicato nel Bollettino economico della Bce di marzo). Sono 3,44 milioni, 86mila in meno rispetto a marzo 2017. Infine, per chi storce il naso perché la disoccupazione non terrebbe conto di chi non si affaccia neanche alle agenzie di collocamento, va segnalata anche l’occupazione in aumento a 32,47 milioni, un boom di 762mila persone in un solo anno.

Romano Màdera è un filosofo, psicoanalista di formazione junghiana
Repubblica 30.3.18
Il nuovo saggio di Romano Màdera
Woody Allen sbaglia Marx è ancora vivo
di Moreno Montanari


Dio è morto, Marx è morto e neanche io mi sento tanto bene». Sconfitta e utopia.
Identità e feticismo attraverso Marx e Nietzsche (Mimesis) può, per certi versi, considerarsi il personale tentativo di Romano Màdera di fare i conti con questa celebre battuta di Woody Allen, almeno per quanto riguarda Marx e l’individualità malata. Siamo sicuri, infatti, che Marx sia morto?
Non può darsi che ci siamo affrettati a seppellirlo vivo e che il suo spettro si aggiri ancora, irrequieto, per il mondo? Certo si tratta d’intendersi su quanto del pensiero di Marx è ancora vivo e di prendere congedo da ciò che, non solo lo è più ma non lo è mai stato, perché privo di ogni radicamento nel reale e, a ben vedere – spiega l’autore – nella stessa filosofia di Marx nella quale Màdera riconosce “una perfetta diagnosi, una mediocre prognosi e una terapia inconsistente”.
Del tutto infondata, in particolare, la pretesa scientificità della dialettica storica che avrebbe reso inevitabile la rivoluzione della classe proletaria, che appare, piuttosto, completamente slegata, e quasi giustapposta, dal formidabile impianto della sua radicale e lucidissima critica alla società capitalistica.
Secondo l’autore, il vero cuore del pensiero di Marx, che non a caso non si considerava marxista, non va ricercato nelle istanze rivoluzionarie, ma nel tema del feticismo, vero e proprio “codice genetico della civiltà dell’accumulazione” e origine di quell’alienante fenomeno di reificazione che, rovesciando i rapporti tra gli uomini e il loro prodotto, fa scadere le persone a funzioni, merci, cose tra le cose, proprio mentre infonde personalità alle cose, elevando i prodotti a feticci dotati di un magico valore spirituale, che gli antropologi chiamano mana.
Marx spiegava che per sottrarsi agli effetti di questa ideologia sarebbe servita “una coscienza enorme”, che non cadesse nell’errore di scambiare la parte per il tutto (questo è, appunto, un feticcio) e, reinserendola nel processo che la produce, la denaturalizzasse, pervenendo ad una diversa percezione del mondo. Tale coscienza, che è consapevolezza dell’interdipendenza di tutti da tutto, può essere realizzata, spiega l’autore, per vie diverse da quelle immaginate da Marx, grazie al contributo di Nietzsche e della psicoanalisi, fautori di una concezione dell’identità non più tautologica ma irriducibilmente differente perché attraversata dall’Altro che l’abita.
Tesaurizzandone in chiave individuativa l’invito a vivere una “metamorfosi dello spirito”, Màdera ribalta il celebre motto nietzschiano “divieni ciò che sei” in “sii ciò che puoi divenire” e indica nella psicoanalisi un processo che permette di disalienare l’individuo, liberandolo dal feticcio di un’identità monolitica per mostrarla come espressione di una dialettica intra e interpsichica. Ma non si tratta di un ritiro dal mondo ed un ripiegamento su di sé perché la coscienza enorme sarà propria solo di chi “riconoscerà nella sua corporea individualità, l’universalità che è”.
Così ripensata, tale particolare proposta di analisi filosofica, costituisce, anzi, un modo “per fare politica con altri mezzi”, mirando non già alla rivoluzione ma alla realizzazione di uno stile di vita che si preoccupi “di esserne degno”, avendo riconosciuto che gli ideali che lo muovono non vanno concepiti come mete da raggiungere ma come principi guida da incarnare.

Il Fatto 30.3.18
Scalfari scatena l’Inferno sulla visita a papa Francesco
La Santa Sede smentisce l’intervista nella quale Bergoglio avrebbe negato l’esistenza dell’Ade al “fondatore”
di Leonardo Coen


Quando il diavolo ci mette lo zampino… Martedì scorso, Eugenio Scalfari va a trovare Papa Francesco: per scambiarsi gli auguri di Pasqua, nella cruciale Settimana santa. Sono amici. Si telefonano spesso. È la quinta volta che il 94enne fondatore di Repubblica, nonché autore de L’uomo che non credeva in Dio (Einaudi, 2008) si reca in Vaticano per incontrare il pontefice. Una visita l’ha fatta con tutta la famiglia. Le altre quattro, da solo: per poi raccontare i colloqui col Santo Padre sul giornale romano. Come ieri.  Prima pagina, colonna di spalla. E un titolo da saggio di Stephen Hawking: “Francesco: ‘Il segreto della Creazione è l’energia’”. Il Big Bang di Dio. In un passaggio del lungo testo, Scalfari chiede al Papa delle anime cattive che sono morte nel peccato e vanno all’inferno per scontarlo in eterno: “Dove vengono punite?”.
Non vengono punite – risponde papa Francesco – quelle che si pentono ottengono il perdono di Dio e vanno tra le fila delle anime che lo contemplano, ma quelle che non si pentono e non possono quindi essere perdonate scompaiono. Non esiste un inferno, esiste la scomparsa delle anime peccatrici”. Il Papa, cioè, nega l’esistenza di una delle verità rivelate da Gesù.
Apriti cielo! Si scatena… l’inferno. Nel senso che la Sala Stampa della Santa Sede rilascia ieri mattina un comunicato in cui si conferma l’incontro “privato” tra Scalfari e Bergoglio, “senza però rilasciargli alcuna intervista”, ma si precisa che quanto riferito dall’autore nell’articolo odierno è frutto della sua ricostruzione, in cui non vengono citate le parole testuali pronunciate dal Papa”.
E incalza: “Nessun virgolettato del succitato articolo deve essere considerato quindi come una fedele trascrizione delle parole del Santo Padre”, la conclusione del comunicato. Dal quale traspare imbarazzo e fretta di ridimensionare la portata delle frasi che Scalfari attribuisce al pontefice. Possibile che ci sia stato un fraintendimento di tale portata?
Due anni fa, per esempio, Bergoglio aveva detto: “All’Inferno non ti mandano: ci vai tu, perché tu scegli di essere lì. L’Inferno è volere allontanarsi da Dio perché io non voglio l’amore di Dio. Questo è l’Inferno. Va all’Inferno soltanto colui che dice a Dio: ‘Non ho bisogno di Te, mi arrangio da solo’, come ha fatto il diavolo che è l’unico che noi siamo sicuri che sia all’Inferno”.
Nella dottrina cattolica, l’inferno esiste, ma come uno stato eterno (non un luogo) di chi lascia questa vita in peccato mortale. Lo ricorda il sacerdote nell’atto del battesimo, quando invoca i Novissimi: le ultime cose, cioè gli ultimi destini irrevocabili dell’uomo e dell’universo, ossia morte, giudizio, inferno e paradiso.
Il teologo gesuita Hans Urs von Balthasar fece scalpore con il concetto di “inferno vuoto”, salvo poi puntualizzare che le sue parole erano state travisate: “Chi spera la salvezza per tutti i suoi fratelli e tutte le sue sorelle, spera l’inferno vuoto”.
Le parole di Bergoglio riferite da Scalfari possono essere il corollario dell’intuizione di von Balthasar. Il quale, tuttavia, si difese dalle polemiche dei tradizionalisti rifugiandosi nell’allegoria della speranza.
Inferno e diavolo restano radicati nel profondo dell’animo, come ci hanno ricordato i romanzi di Dan Brown e soprattutto i film tratti dai suoi best seller. Per decenni il clero si ispirò alla provocazione di Pio XI che nell’udienza del 15 maggio 1929 disse: “Quando si trattasse di salvare qualche anima, di impedire maggiori danni di anime, ci sentiremmo il coraggio di trattare col diavolo in persona”.
Forse, però, lo scopo del comunicato – in un momento di crisi mediatica in Vaticano, dopo lo scandalo della lettera di papa Ratzinger tagliata e taroccata che sono costate le dimissioni a monsignor Dario Viganò, prefetto pontificio della segreteria per la comunicazione – è quello di inficiare altre frasi di Bergoglio, come quella sulle specie che durano migliaia di anni ma poi scompaiono poiché Dio ne regola l’alternanza.
O la Chiesa che si “estende a una santità civile e cristiana nel senso più ampio”, con l’amore verso il prossimo. O l’indiretta critica nei confronti di chi pratica “una religione ma soltanto nei suoi rituali”. O quando constata che è più forte la religiosità in Sudamerica, nelle pianure dell’America del Nord, in Oceania, nella fascia dell’Africa da est a ovest. L’Europa? “Deve rafforzarsi politicamente e moralmente. Ci sono anche qui molti poveri e molti immigrati. Abbiamo detto di voler conoscere la modernità pure nelle sue cadute. L’Europa è un continente che per molti secoli ha combattuto guerre, rivoluzioni, rivalità e odio, perfino nella Chiesa”.

La Stampa 30.3.18
La nuova Lega, ultraconservatrice e dura contro le idee di Papa Bergoglio
Le voci di riferimento tra fondamentalisti cattolici, teocon, populisti americani
di Flavia Perina


Sappiamo pochissimo dei protagonisti del nuovo bipolarismo, e in particolare della destra sovranista che si avanza, delle sue letture, dei suoi interessi, dei suoi riferimenti ideologici. Lo strappo culturale più evidente del Carroccio 2.0 è quello con la tradizione federalista e il pensiero di Gianfranco Miglio, superato dalla nuova dimensione nazionale o addirittura nazionalista. Ma ce n’è un altro altrettanto significativo, e politicamente molto più fruttuoso: l’ostilità manifesta verso la Chiesa di Papa Bergoglio, che rappresenta anche il terreno di saldatura con l’estrema destra, le diverse aree del fondamentalismo cattolico, i reduci del mondo teocon, i nuovi guru americani del pensiero populista, il vasto segmento di laici devoti che hanno nostalgia dell’era Ratzinger.
La critica al Papa, «l’autocrate argentino», «il dittatore», come lo definisce qualcuno, è il vero comune denominatore degli influencer pro-Lega. Personaggi noti come Antonio Socci, già vicedirettore Rai in quota Fi, o Giuseppe Valditara, professore di Diritto romano a Torino, in relazione con il guru della Alt-Right americana Steve Bannon e con il suo referente romano, l’ex sacerdote dei Legionari di Cristo Thomas D. Williams, che subito dopo il voto hanno voluto incontrare Matteo Salvini. Ma anche giornalisti di area liberale, comunità di blogger piuttosto seguite (Il Talebano), riviste online (Logos.it), il giro accademico che ruota intorno all’Università europea di Roma e alle vecchie strutture di Alleanza cattolica.
È a questo mondo che Matteo Salvini ha parlato il 24 febbraio, nella manifestazione più importante della campagna elettorale – il comizio di chiusura in Piazza del Duomo – quando ha giurato «sulla Costituzione e sul sacro Vangelo», tirando fuori a sorpresa un rosario e archiviando con un gesto sorprendente la tradizione laica o addirittura neopagana del Carroccio. Un gesto simbolico che ha segnato la stipula di un patto.
«Sì, c’è una netta discontinuità tra la Lega di Umberto Bossi, del tutto indifferente alla religione, e questa nuova Lega, che ha aperto relazioni con la vasta area del tradizionalismo cattolico, anche all’interno della Curia» dice il prof. Valditara, autore di Sovranismo, un saggio sul valore delle identità nazionali e sulla necessità di difenderle. Ma come, il Papa peronista che non piace alla destra? «Quello di Francesco è un peronismo di sinistra, che a differenza di Wojtyla e Ratzinger rifiuta ogni discorso identitario sul destino dei popoli».
Non c’è solo il dato ideologico. Vincenzo Sofo, milanese, fondatore della rivista online Il Talebano, spiega come la Lega di Salvini abbia consolidato ottime relazioni con l’associazionismo cattolico arrabbiato per lo «scarso interventismo» del Papa sui temi morali e per la sua distanza dalla galassia di formazioni, Cl compresa, abituate a un’interlocuzione diretta con Roma. «Il link fra la Lega e questo mondo si è aperto nel 2015, all’epoca delle Sentinelle in Piedi, e adesso è molto forte».
«In realtà – racconta Francesco Giubilei Rignani, giovane editore emergente e fondatore del progetto Nazione Futura – la Lega del dopo-Bossi ha mostrato fin dall’inizio interesse per i filoni tradizionalisti e anti-moderni snobbati da Alleanza nazionale e Forza Italia. La critica al pontificato di Bergoglio, nelle sue versioni più costruttive ma anche in quelle più estreme, è senz’altro un comune denominatore di molti gruppi attivi nel mondo della destra sovranista».
L’immaginario di questo genere di cattolici sembra fatto apposta per sposarsi con le suggestioni del nuovo corso leghista. A guidarne l’istinto non sono solo le costruzioni politico-intellettuali ma anche emozioni millenariste e distopiche sulla fine della Civiltà occidentale, l’idea del romanziere Jean Raspail di un’improvvisa invasione dell’Europa da parte di una colossale orda di migranti favorita dalla Chiesa cattolica e da un Papa sudamericano «che fa l’agitatore raccontando le miserie del Terzo Mondo». Il libro si chiama Il campo dei Santi, uscì nel 1973 ma sta riscuotendo in questi mesi nuova fortuna. Marine Le Pen lo ha addirittura consigliato in una trasmissione tv. In Italia le Edizioni di Ar lo hanno rieditato con grande successo, Bannon lo ha citato come manifesto identitario in un convegno della fondazione del cardinale Burke, ovviamente anti-bergogliana: chissà se c’è nella libreria di Salvini, di sicuro sta in quelle di molti suoi nuovi elettori.

Corriere 30.3.18
Il saggio di Boncinelli
Due forme di progresso così diverse
di Chiara Lalli


Che cos’è il progresso? Ha una traiettoria rettilinea o procede in modo disordinato? Stiamo meglio dei nostri antenati? E che cosa intendiamo con «meglio»? Sono alcune delle domande all’origine di Un futuro da Dio di Edoardo Boncinelli (Rizzoli, pagine 160, € 18). Nel rispondere, l’autore demolisce molti luoghi comuni ricorrenti — a patto di essere ben disposti, perché altrimenti non basterebbero le dimostrazioni più evidenti.
Intanto non possiamo parlare di progresso scientifico e di progresso morale come fossero entità simili. Il primo non è solo più veloce e travolgente, ma è pure un risultato da cui in genere non si torna indietro. Il progresso culturale è molto più incerto, lento, contraddittorio. È una differenza che potremmo definire ontologica e che, se ignorata, può causare incomprensioni se non disastri. Ecco un esempio: esportare la scienza non incontra gli stessi ostacoli del tentativo di esportare la democrazia. Ciò non significa che non ci sia stato un avanzamento morale, ma che è più difficile da misurare e ha un profilo più evanescente.
Spesso usiamo il termine «evoluzione» per indicare un miglioramento o una direzionalità, benché nell’accezione darwiniana non esista telos . Serve uno sforzo costante per ricordarsene: non solo non siamo stati progettati, ma non procediamo neanche verso il meglio. Difficilmente resistiamo alla tentazione di considerarci migliori dei nostri antenati e soprattutto delle amebe. Eppure questo cambiamento non ha di per sé nulla di positivo. Siamo cambiati, gli organismi sono molto più complessi, ma nulla dimostra che la filosofia della storia sia giusta. Anzi.
Però «l’uomo ha da sempre il vizio di sovrapporre i propri desideri alla realtà, ovvero di cercare di vedere le cose come vorrebbe che fossero piuttosto che come sono». Pensiero magico, religione e ideologie nascono da questa tendenza consolatoria. È umano essere affezionati a spiegazioni rassicuranti e non «materialistiche». Ma non è esente da rischi. Continuiamo a parlare di mente e psiche come se fossero entità separate dal corpo e immateriali, perché ci sembra più poetico avere qualcosa di più di un sistema nervoso centrale. Ritenere le teorie di Freud qualcosa di diverso da un’affascinante narrazione è una specie di fede laica, tenace quanto l’ostinazione con cui la psicologia resiste alle neuroscienze.
Perché poi le spiegazioni materialistiche sarebbero meno apprezzabili di quelle che ricorrono a entità spirituali? Forse anche perché non amiamo le novità e le neuroscienze sono troppo giovani rispetto a un dominio consolidato — pur se erroneamente — e trasmesso da illuso a illuso.
E la tribù dei nostalgici, ricorda Boncinelli, è molto numerosa. I nostalgici criticano lo «strapotere della tecnica» senza chiarire cosa intendano e spesso approfittando delle comodità che la tecnica offre, rimpiangono la «natura» senza aver mai trascorso un pomeriggio in campagna (scapperebbero invocando la tecnologia come l’amico di Nanni Moretti fuggiva da Alicudi in Caro diario ) e scambiano la loro scontentezza per una condizione universale. Se fossimo coscienti di queste premesse, reagiremmo diversamente agli avanzamenti della genetica e alla possibilità di modificare il nostro genoma. Perché anche qui il progresso è scisso. Sul piano tecnico è possibile intervenire e migliorare, e con Crispr possiamo farlo in modo preciso e poco costoso. Nel dibattito pubblico, invece, siamo fermi ai fantasmi della tracotanza umana e ai pericoli del giocare a fare Dio.

Corriere 30.3.18
Diritto
Nel saggio di Daniele Menozzi (Carocci) la storia di come la Carta regolò i rapporti tra Stato e Chiesa
Nella Costituzione senza esserlo Il destino ambiguo del Concordato
di Roberto Finzi


Non c’è dubbio che tra i «principi fondamentali» che reggono la nostra Repubblica racchiusi nei primi dodici articoli della Carta del 1948 (cui Carocci dedica una serie diretta da Pietro Costa e Mariuccia Salvati) il più controverso sia stato (in parte continui a essere) l’articolo 7 o meglio, e soprattutto, il primo asserto del suo secondo comma. Se, al di là delle sfumature, ogni forza politica e ogni cittadino, poteva ammettere che «lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani» perplessità e opposizioni nascevano e continuarono dalla affermazione che seguiva: «I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi», firmati, come si sa, da Benito Mussolini e dal cardinale segretario di Stato Pietro Gasparri l’11 febbraio 1929, regnante Achille Ratti, Papa Pio XI. Sanavano la «questione romana» apertasi con la presa di Roma. Con accordi e norme complicate tra cui due particolarmente odiose per un Paese che — dopo un decennio di guerre e la doppia occupazione nazista e alleata — si era scrollato di dosso la dittatura anche attraverso la Resistenza e stava lavorando non solo al ritorno delle civili libertà ma a una democrazia nuova, repubblicana come aveva decretato il voto del 2 giugno 1946.
Si trattava dell’asserto che quella cattolica era la religione «di Stato» e, per la sua pervasività, dell’attribuzione degli effetti civili al matrimonio religioso. Con il paradosso che chi riteneva il matrimonio un sacramento poteva, per le norme del diritto canonico, ottenerne la nullità, riconosciuta poi dallo Stato e chi invece aveva del matrimonio una concezione puramente civile era destinato a essere legato a vita, indissolubilmente, non per diretta conseguenza dei Patti, ma per la coincidenza nella visione della famiglia tra Chiesa e fascismo. Nel quadro per di più di un diritto di famiglia in cui era sancita una netta subordinazione della donna.
Nella sua ricostruzione del formarsi del dettame costituzionale e poi dei suoi effetti nella vita democratica italiana ( Art.7. Costituzione italiana ), Daniele Menozzi non nega le conseguenze negative del permanere di quelle norme specie nel quindicennio successivo alla emanazione della Carta Costituzionale. Ci offre però una chiave di lettura della formazione e del senso della norma più articolata, che affonda le sue radici nella complessità del problema cattolico nella storia dell’Italia unita e soprattutto a quel punto della vicenda del nostro Paese.
La Chiesa, lo dimostreranno le successive elezioni del 18 aprile 1948, aveva ancora un forte ascendente sulla popolazione ed era una Chiesa che, seppure — si vedrà di lì a poco — intimamente percorsa da interne pulsioni verso il nuovo, era ancora fortemente contraria al mondo moderno e alle sue forme politiche. In particolare a quelle di matrice socialista e comunista. Ora, si trattava, in sostanza — spiega Menozzi con precisione e acribia filologica — di attirare, per così dire, la Chiesa verso la accettazione piena di quella democrazia che si andava delineando nel lavoro della Costituente, cedendo in via formale alle sue richieste anche se nell’immediato contraddittorie con quella visione. Protagonista di questa operazione complicata e sottile fu in primis Giuseppe Dossetti che univa alla sua profonda fede cristiana una visione non ierocratica della Chiesa, la competenza giuridica del canonista di vaglia, cristalline convinzioni democratiche, saldi legami con le altre culture politiche formatisi nella Resistenza.
Dossetti trovò una sponda in Palmiro Togliatti, a lungo, e tutt’oggi, accusato di avere, in qualche modo permesso un inquinamento della Costituzione con il riconoscimento nel suo testo dei famigerati Patti Lateranensi. L’atteggiamento del leader del Pci derivava dal convincimento che nella Repubblica dovessero riconoscersi per davvero tutti gli italiani e pure, dice Menozzi, da considerazioni più immediatamente politiche. Mentre stava costruendo il «partito nuovo» guardava alla possibilità di una adesione al Pci di cattolici. Così temuta dalla Chiesa pacelliana che nel 1949 il Papa scomunicherà i comunisti.
Io aggiungerei due aspetti. Togliatti era ben consapevole di quanto Milovan Gilas nelle sue Conversazioni con Stalin ricorda avergli detto il dittatore sovietico: «Questa guerra (…) è diversa da tutte quelle del passato; chiunque occupa un territorio gli impone anche il suo sistema sociale». E infine la lotta per l’egemonia all’interno della sinistra. In quel campo i socialisti, allora sotto la sigla Psiup, erano ancora, seppure non di molto, maggioritari rispetto al Pci.
Per ben intendere la vicenda al quadro manca un tassello. Decisivo. Si tratta della seconda parte del secondo comma dell’articolo 7 che recita: «Le modificazioni dei Patti (Lateranensi), accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale». In tal modo si eliminava una delle più forti obiezioni all’inserimento dei Patti in Costituzione. Per tale via infatti non venivano «costituzionalizzati» ché la loro modifica poteva avvenire per legge ordinaria. L’artefice di questo accorgimento essenziale fu Roberto Lucifero, liberale e monarchico.
Così l’articolo, nota Menozzi, «appariva formulato con il concorso di tre diverse famiglie politiche: la democristiana, la comunista e la liberale».
La «non costituzionalizzazione» dei Patti — in un modo profondamente cambiato all’interno e soprattutto all’esterno della Chiesa — sarà uno degli elementi che permetterà all’Italia l’adozione formale, prima sul terreno parlamentare e quindi — con i referendum del 1974 e del 1981 — attraverso la conferma popolare di decisive riforme come il divorzio e l’interruzione volontaria di gravidanza. E del nuovo diritto di famiglia.

La Stampa 30.3.18
La lega, il razzismo e gli abbagli del Senato
di Vladimiro Zagrebelsky


Il presidente Mattarella ha nominato senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta alla deportazione nei campi nazisti, che subì da bambina ebrea. La nomina da parte del presidente della Repubblica – di cui va ricordato il primo gesto, appena eletto, di recarsi a rendere omaggio alle vittime delle Fosse Ardeatine – ha un evidente significato simbolico, così come l’ha avuto il levarsi in piedi di tutti i senatori al primo ingresso della senatrice Segre nell’aula del Senato. Tutti i senatori, salvo uno, Roberto Calderoli (ora appena rieletto vice presidente). Allo sconcerto scandalizzato di chi lo ha rilevato, Calderoli ha risposto: ma no, non avete capito, è solo che io sono contrario ai senatori a vita! Dunque nulla a che vedere con razzismo e antisemitismo.
Anche un’altra volta il senatore Calderoli non è stato capito: quando in un comizio tenuto in un grande raduno della Lega ebbe a dirsi sconvolto nel vedere sul sito del governo la fotografia del ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge, le cui sembianze gli ricordavano quelle di un orango. L’onorevole Kyenge non presentò querela per l’offesa ricevuta. Il suo non fu soltanto segno di elegante superiorità, ma anche un chiaro gesto politico, poiché lasciò alle istituzioni repubblicane l’onere di reagire all’attacco razzista. Le manifestazioni di razzismo non riguardano solo chi ne rimane vittima, ma colpiscono nel suo complesso una comunità che si è data una Costituzione fondata sul rispetto della dignità e sull’eguaglianza di tutte le persone. Era dunque da aspettarsi una ferma reazione, non individuale della persona offesa, ma delle istituzioni pubbliche. Eppure questa è mancata da parte del Senato. Chiamato a decidere se Calderoli avesse pronunciato quelle parole nell’esercizio delle sue funzioni di parlamentare e fossero quindi insindacabili dal giudice che procede per diffamazione aggravata dalla motivazione razzista, il Senato ha escluso l’insindacabilità per quanto riguarda la diffamazione, ma l’ha affermata per il profilo razzista.
In Senato Calderoli aveva detto di essersi scusato con l’onorevole Kyenge per avere usato un’espressione forte, ma fatta esclusivamente come battuta ad effetto, visto che il contesto, oltre che politico era anche ludico e, cioè, quello di una festa estiva organizzata dal suo partito. Si era trattato insomma di espressioni scherzose, per ridere, non per offendere. D’altronde, come i colleghi senatori sapevano, lui è solito far battute e il linguaggio offensivo è ormai divenuto comune anche nell’aula del Senato. Insomma non era stato capito e non era il caso di prendere sul serio quelle espressioni, infelici, ma non offensive e soprattutto non razziste. Quest’ultimo punto era particolarmente importante anche sul piano giudiziario, perché, cadendo l’aggravante della motivazione razzista, il reato di diffamazione cessava di essere perseguibile di ufficio e, come già ricordato, l’onorevole Kyenge non aveva presentato querela. I senatori hanno seguito l’autorevole collega e con un’ardita decisione hanno detto che effettivamente le espressioni offensive erano state usate fuori delle funzioni parlamentari, ma che la loro natura razzista era invece coperta dall’insindacabilità costituzionale. Decisione abnorme perché la qualificazione giuridica dei fatti spetta al potere giudiziario e non al Parlamento. Ora la Corte Costituzionale ha annullato la decisione del Senato, con la conseguenza che il tribunale può procedere per il reato di diffamazione aggravato dalla finalità di discriminazione razziale. Il sistema dei confini tra i diversi poteri dello Stato e del controllo della loro osservanza – rimesso alla Corte Costituzionale – ha dunque funzionato e c’è da rallegrarsene, per il passato e per il futuro. Ma resta il fatto che il Senato ha accettato che anche l’insulto razziale possa essere null’altro che una battuta per far ridere, così banalizzando espressioni e atteggiamenti razzisti su cui, invece che tolleranti, insensibili o addirittura scherzosi, occorrerebbe essere vigili e reattivi. Tanto più che vi sono stati anche altri incidenti simili. Qualche anno fa, per certe espressioni del ministro dell’Interno Maroni contro i rom, intervenne il commissario ai Diritti umani del Consiglio d’Europa, preoccupato per l’effetto che certo linguaggio ha sulla formazione dell’opinione pubblica, legittimando atteggiamenti razzisti. Ed è proprio questo il profilo più preoccupante. Non solo esponenti della Lega si lasciano andare a espressioni razziste, ma evidentemente lo fanno perché sono certi dell’approvazione del loro elettorato. Calderoli sorrise dicendo che l’onorevole Kyenge gli faceva venire in mente un orango, ma con lui, in quel comizio della Lega, risero le diverse migliaia di festanti convenuti.

Repubblica 30.3.18
Il futuro del Pd
Renzi, le finte dimissioni
Il Pd rimane alla finestra a guardare, senza far nulla. La classica posizione dei depressi
di Piero Ignazi


Il Pd rimane alla finestra a guardare, senza far nulla. La classica posizione dei depressi. C’è da capirlo. Una sconfitta così devastante, che ha portato il partito al minimo storico, annichilisce. Sette punti percentuali e 170 deputati in meno rispetto al risultato del 2013, giudicato allora dai renziani una sconfitta nonostante il Pd in coalizione con Sel godesse della maggioranza assoluta alla Camera, sono i dati duri e inoppugnabili della catastrofe. Nonostante tutto questo, Matteo Renzi, il leader che ha condotto il partito al disastro, continua a spadroneggiare. Le sue dimissioni sono una delle più sonore fake news degli ultimi tempi. Riunisce i suoi in qualche caminetto discreto e indica le azioni che solerti luogotenenti rendono operative. Invece di assumere un atteggiamento di decoroso e doveroso distacco, l’artefice della peggior Waterloo della sinistra italiana continua a voler dettar legge.
Può farlo perché sappiamo con quale cura abbia confezionato liste di fedelissimi alle elezioni, assicurandosi un adeguato manipolo di yes- man in Parlamento. Grazie al controllo di gran parte dei gruppi parlamentari, come si è visto con la scelta dei capigruppo, continua a dare la linea. Che è quella dell’immobilismo: rimanere a guardare le iniziative degli altri attori politici nell’attesa di un loro passo falso. Questa strategia avrebbe una sua logica se fosse chiaro cosa il Pd (o meglio, Renzi) si propone di fare dopo. Godere degli insuccessi altrui può lenire qualche taglio dell’anima ma politicamente è del tutto sterile.
Invece di discutere sul significato del risultato elettorale e sulle prospettive future, il Pd si ripiega in un immobilismo cadaverico, seguendo, in questo, la parola d’ordine lanciata da Renzi all’indomani delle elezioni. In effetti, solo se il Pd rimane imbalsamato in un rifiuto pregiudiziale ad ogni relazione politica con gli altri partiti, quasi una autoghettizzazione, l’ex segretario può mantenere il suo potere di interdizione.
Perché questo sembra l’obiettivo primario di Renzi: mantenere la propria presa sul partito, costi quello che costi. Se Renzi ricordasse quanto disse nella direzione che sancì la scissione dei bersaniani ( febbraio 2017), e cioè che si era « chiuso un ciclo alla guida del Pd, perché abbiamo preso un Pd che aveva il 25% e nell’unica consultazione politica lo abbiamo portato al 40,8%» dovrebbe umilmente prendere atto che portare il Pd al 18% implica una uscita di scena.
Allo stesso tempo, però, la minoranza, a parte il tonitruante Emiliano che ogni tanto lancia i suoi fulmini, si limita a qualche flebile lamento. Non è in grado di alzare la voce intimando a chi ha perso di passare la mano senza brigare e tramare. Fino a che il Partito Democratico non risolve la contraddizione di una leadership effettiva benché dimissionaria e, soprattutto, sfiduciata dai 2 milioni e mezzo di elettori mancati all’appello, non riuscirà né a ripensare sé stesso, né a progettare una strategia.
Forse, l’unica certezza è che lo sfondamento al centro con politiche pro- market, da tanti evocato per giustificare la politica renziana, sia fallito quanto la riproposizione di ricette socialdemocratiche pre- globalizzazione avanzate dagli scissionisti. Per ragionare a testa fredda sul futuro bisogna chiudere un altro ciclo, quello renziano.

Il Fatto 30.3.18
Pd, o fuffa-truffa o reale democrazia
di Gianfranco Pasquino


Stuoli (sic) di giornalisti equamente divisi fra filo-Pd e filo-Forza Italia che si preparavano a suonare la grancassa per la Grande Coalizione Arcore-style mi hanno accusato di essere filo-5 Stelle poiché ho sostenuto che le “carte“ di Di Maio, nonostante gli sgarbi quotidiani, il Pd doveva (deve) chiedere di vederle. Soprattutto, ho twittato che l’imposizione preventiva del rifugio nell’opposizione da parte del due volte ex segretario Renzi è assimilabile all’eversione delle regole, delle procedure, del funzionamento della democrazia parlamentare. I sostenitori di Renzi, parlamentari e giornaliste amiche, sostengono che sono gli elettori ad averli mandati all’opposizione. Nel frattempo, però, qualcuno nel Pd sta ridefinendo la posizione, troppo poco, troppo lentamente.
Naturalmente, è del tutto sbagliato sostenere che gli elettori hanno mandato il Pd all’opposizione. Gli elettori italiani non votavano sul quesito Pd al governo/Pd all’opposizione. Nessun elettore in nessuna democrazia parlamentare ha un voto di governo e/o un voto di opposizione. Comunque, gli elettori che hanno votato Pd volevano conservarlo al governo del Paese. Che adesso l’ex segretario del Pd interpreti il voto al suo partito come rigetto della sua azione di governo è confortante, ma troppo poco troppo tardi. Ed è sbagliato pensare che quegli elettori non desidererebbero, a determinate condizioni, che possono essere costruite, vedere il loro partito in posizioni di governo a temperare il programma degli alleati e a tentare di attuare parti del suo programma.
Quando ascolto molti parlamentari del Pd ripetere senza originalità quello che ha detto Renzi, mi infastidisco. Subito dopo mi interrogo e capisco. Siamo di fronte a un’altra conseguenza nefasta della legge Rosato. Non fatta per garantire qualsivoglia variante di governabilità, la legge Rosato non è stata, ma era prevedibile, neppure in grado di dare rappresentanza all’elettorato. I parlamentari eletti non hanno dovuto andarsi a cercare i voti. La loro elezione dipendeva dal collegio uninominale nel quale erano collocati/e e dalla eventuale frequente candidatura in più circoscrizioni proporzionali. Come facciano questi/e parlamentari a interpretare le preferenze e le aspettative di elettori che non hanno mai visto, con i quali non hanno mai parlato, ai quali non torneranno a chiedere il voto, potrebbe essere uno dei classici, deprecabili misteri ingloriosi della politica italiana e di leggi elettorali, come la Rosato. Formulata e redatta con precisi intenti particolaristici: rendere la vita difficile al Movimento 5 Stelle, creare le condizioni per un’alleanza Pd-Forza Italia, soprattutto consentire a Renzi e Berlusconi di fare eleggere esclusivamente parlamentari fedeli, ossequienti, totalmente dipendenti, per questi obiettivi, ma solo per questi, la Rosato ha funzionato. Adesso sì che i conti tornano. Il Pd va all’opposizione, almeno per il momento, perché lo dice, lo intima il capo che ha fatto eleggere la grande maggioranza dei deputati e dei senatori.
Costoro, da lui nominati, dovrebbero dichiarare candidamente che seguono le indicazioni-direttive, non degli elettori, ma di Renzi. Naturalmente, nonostante tutta la mia scienza (politica), neppure io sono in grado di dire che cosa preferiscono gli elettori del Pd.
Sono i dirigenti del Pd, meglio se nell’Assemblea del Partito, quindi non precocemente, che debbono decidere, ma dirigenti non sono coloro che si accodano alle preferenze inespresse e che seguono opinioni e sondaggi scarsamente credibili poiché fondati su ipotesi. Dirigenti/leader sono coloro che precisano le alternative, le dibattono, le scelgono, le confrontano con le proposte degli altri. Poi, se il Pd è un partito (e non un grande gazebo come vorrebbero coloro che stanno chiedendo già adesso fantomatiche primarie che servono a scegliere le candidature, per il parlamento non le ho viste, non i programmi) sottoporrà ai suoi iscritti, come hanno fatto i socialdemocratici tedeschi, un eventuale programma di governo concordato con altre formazioni politiche. Questa è la procedura democratica attraverso la quale si giunge al governo o si va all’opposizione. Il resto è fuffa/truffa.

La Stampa 30.9.18
La partita più difficile dei dem
di Federico Geremicca


Un altro 4 sulla strada di Renzi e del Pd: e a voler credere ai segni, in largo del Nazareno la preoccupazione dovrebbe essere al livello massimo. Il 4 dicembre 2016, infatti, un referendum cancellò i sogni riformatori di Renzi; il 4 marzo 2018 è l’intero Partito democratico ad esser travolto da una slavina elettorale; e questo 4 aprile - mercoledì prossimo - il Quirinale avvia le consultazioni che chiuderanno ufficialmente la lunga stagione del Pd di governo. La cabala non è incoraggiante: ma quel che più conta, è che è la situazione in cui versa il Partito democratico a non indurre ad ottimismi. Privo di segretario, scosso in periferia e diviso sulla rotta da seguire per uscire dalle secche, il Pd pare esposto ad ogni vento. E come spesso capita quando le difficoltà si fanno grandi, la posizione più semplice da assumere è quella del restar fermi.
In fondo è questa la ragione fondamentale che ha portato il Partito degli ultimi tre presidenti del Consiglio a disertare completamente la partita per il futuro governo. Inchiodato alla linea dettata da Renzi nel giorno delle dimissioni da segretario (mai con i Cinque Stelle, il nostro posto è all’opposizione) il Pd non è riuscito a cambiar passo, ed oggi si ritrova in una posizione complicata e - soprattutto - non facile da tener ferma nel tempo.
L’idea di una stagione da trascorre all’opposizione - così da avviare con meno vincoli l’opera di ricostruzione - sta infatti infrangendosi (come era forse prevedibile) di fronte alla difficoltà di mettere insieme una corrente maggioranza di governo. In attesa di capire se quello in atto tra Di Maio e Salvini - i vincitori il 4 marzo - sia una pantomima o uno scontro vero, le pressioni per un ritorno in gioco del Pd si fanno forti: esplicite pressioni interne (ieri ci hanno provato Orlando e Franceschini) e obliqui appelli provenienti dal basso (Movimento Cinque Stelle) ma anche dall’alto (i frequenti richiami al senso di responsabilità che arrivano dal Quirinale).
In questo quadro, l’interrogativo di fondo è già chiaro: se Di Maio e Salvini non riuscissero a dar vita ad un nuovo governo, il Pd terrà davvero ferma la linea aventiniana fin qui sposata? La risposta non è semplice, intanto perché è effettivamente difficile immaginare un ritorno al governo del partito più sconfitto nelle urne, e poi perché la scelta della rotta da seguire si intreccia con la dura battaglia interna apertasi in Largo del Nazareno. Sull’ipotesi di un governo con i Cinque Stelle, per esempio, Renzi è stato chiaro: «Per fare una maggioranza di quel tipo servirebbe il 93% dei parlamentari Pd: ma nessuno può credere che siano soltanto il 7% quelli che condividono la mia posizione».
È l’annuncio di uno scontro interno - insomma - che potrebbe trasferirsi fin nelle aule parlamentari (come del resto accaduto nella passata legislatura). Ed è una indubbia complicazione in più per chi spinge il Pd verso un ruolo di governo. Sergio Mattarella, che conosce bene il suo partito, è convinto che - in caso di stallo - i democratici non farebbero mancare il loro sostegno. In fondo, lo fecero per il governo Monti e - in qualche modo - anche per l’esecutivo di Enrico Letta, costretto alle larghe intese.
In molti, insomma, auspicano che lo stesso senso di responsabilità riemerga oggi, di fronte a una possibile paralisi. Non è detto che non accada: e la storia recente, anzi, legittima quell’auspicio. Che una volta di più, però, potrà realizzarsi solo dopo una chiara sconfitta di Matteo Renzi: un’ipotesi, al momento, tutt’altro che scontata.

Corriere 30.3.18
«Nel Pd tutti rinuncino al potere di interdizione. Con il Movimento il dialogo è doveroso»
Orlando: il nostro partito rischia di smarrire la funzione
La salita al Colle è la prima occasione per il partito democratico di parlare agli italiani
di Monica Guerzoni


ROMA L’opposizione farà bene al Pd. Andrea Orlando, è d’accordo con Renzi?
«Non basta dire “tocca a loro”. Prendere atto delle distanze che separano la nostra visione politica e istituzionale da quella delle forze premiate dal voto non equivale a esprimere una linea politica».
La sua qual è?
«Il quadro emerso dalle urne non ci consente di realizzare il nostro progetto da soli o in alleanza. Questo non ci esime dall’indicare le nostre priorità. Proporre un’agenda sociale al Paese, altrimenti la nostra posizione sarà subalterna e chiusa nel palazzo».
Lei e Franceschini avete chiesto un’assemblea prima delle consultazioni e i renziani ve l’hanno negata. La tregua è finita?
«Dire no all’assemblea è stato un errore. La salita al Colle è la prima occasione nella quale il Pd può parlare agli italiani oltre che al Capo dello Stato e dire che tipo di opposizione vogliamo fare alla eventuale nascita di un governo giallo-verde. Se è ineluttabile, dobbiamo decidere se gli facciamo una opposizione da destra o da sinistra».
Nella sua area e in quella di Franceschini si coglie la voglia di uscire dall’angolo. Davvero non pensate ad accordi con i 5 Stelle?
«Per quanto mi riguarda un conto è il dialogo, che è doveroso con una forza che ha raccolto un terzo dei voti, un conto sono le alleanze, che non vedo percorribili. Più che di questo tuttavia mi preoccuperei del dialogo con il Paese, che non si costruisce solo con un posizionamento tattico. Come rispondi al tema delle diseguaglianze sociali, per evitare di apparire come quelli che conservano uno stato delle cose ritenuto dagli italiani come ingiusto?».
È ancora Renzi a imporre nomine e linea politica?
«La scelta della reggenza è stata fatta dalla maggioranza, a noi è stato chiesto di sostenerla per spirito unitario. Lo stiamo facendo e spero che tutti consentano a Martina di svolgere in modo autonomo il proprio ruolo, rinunciando a un potere di interdizione».
Lo scontro sui capigruppo è la prova del potere di interdizione dell’ex segretario?
«L’elezione è stata gestita come si poteva. Il tema è se aprire una fase nuova per uscire dallo stallo. E io credo che convenga a tutti, indistintamente».
Sulla linea politica il Pd rischia un’altra rottura?
«Il rischio più grande per il Pd è smarrire la sua funzione. Non abbiamo molto tempo e io vedo due strade. Attendere l’eventualità che Forza Italia sia dilaniata dall’opa di Salvini e capitalizzare l’uscita di parte di quell’elettorato, oppure provare a recuperare i milioni di voti popolari andati a Lega e 5 Stelle. Le due strade sono incompatibili. Io credo si debba seguire quella che evita che una parte dell’elettorato di sinistra sia consegnato a forze antisistema».
Il Pd non ha ottenuto neanche un questore. Avete rinunciato a far politica?
«La forzatura prodotta dalla spartizione di poltrone tra centrodestra e M5S non è giustificabile e rappresenta un pericoloso precedente. Il Pd indubbiamente è rimasto frenato dall’idea sbagliata che interloquire sulle presidenze fosse aprire la strada a una interlocuzione sul governo. Dall’altra parte la cosa non ha addolorato nessuno, si sono subito avventati sulle poltrone».
Alla guida dei gruppi ci sono due renziani, falco e colomba. Si sente garantito da Marcucci e Delrio?
«Mi sento relativamente sollevato dal fatto che si è evitato di far ratificare ai gruppi decisioni assunte nell’area renziana, proseguendo nella logica già sperimentata della dittatura della maggioranza e intaccando inevitabilmente la figura del reggente».
Per Orfini non c’è il tempo di celebrare le primarie.
«Eviterei di archiviare rapidamente e definitivamente le primarie, ma mi porrei il problema di come ci si arriva. Dobbiamo riposizionare il partito e costruire una piattaforma che sia il frutto anche di maggioranze diverse sui singoli temi. Solo dopo potremo confrontarci su chi dovrà interpretare la leadership».
Zingaretti sarà il candidato della sinistra?
«È un ottimo candidato, ma prima dovremmo rispondere al problema di come rifondare il Pd. Intanto prendo atto che ora tutti condividono l’idea di separare le figure di premier e segretario. Quando lo dissi io, mi accusarono di voler rinunciare alla vocazione maggioritaria».

Repubblica 30.3.18
Il retroscena
Posizioni a confronto nel Pd
L’offensiva dei governisti dem anche Gentiloni in campo
Franceschini e Orlando per un esecutivo istituzionale: ridiscutiamo prima di salire al Colle. Renzi: noi all’opposizione. Martina media: non siamo in freezer
di Tommaso Ciriaco


ROMA L’offensiva è partita, anche se travestita da schermaglia un po’ estemporanea targata Dario Franceschini. «Discutiamo la linea prima delle consultazioni», propone il ministro durante la riunione del gruppo della Camera. Soltanto Andrea Orlando e pochi altri lo seguono. Ma dietro le quinte un mondo si riorganizza, anche se per ora con discrezione.
A partire da Paolo Gentiloni, che in questi ultimi tre giorni ha chiamato alcuni ministri per confrontarsi sul futuro. Ne è uscita fuori una bozza di posizione, una “linea istituzionale” - la chiamano così - che proverà a farsi strada nonostante il muro renziano.
Per i big della “corrente di governo”, e naturalmente per Gentiloni, Renzi sbaglia a chiudersi a riccio. A lasciar intendere di voler escludere anche soluzioni istituzionali d’emergenza, ostentando disinteresse per agli appelli alla responsabilità del Colle.
Il duello resterebbe sottotraccia, se non fosse per Franceschini.
Prende la parola davanti ai deputati e lancia il primo segnale.
«Il quadro ha subito un’evoluzione - sostiene - dobbiamo ridiscutere la linea prima delle consultazioni.
È un problema di metodo, potremmo riconvocare il gruppo prima del 4 aprile». Anche se con qualche distinguo, Orlando si associa. E tra i renziani scatta l’allarme.
Sembra un’apertura a una collaborazione con i cinquestelle, di certo una sfida a mettersi in gioco per un esecutivo largo e con un marcato tratto istituzionale.
Tocca a Lorenzo Guerini, allora, stroncare la mossa del ministro, ricordando che il mandato “d’opposizione” è stato sancito all’unanimità dalla direzione dem. Da quel momento, e per un giorno intero, va in scena l’ormai consueto copione post elettorale del Pd: lo scontro.
Renzi in persona non perde l’occasione per colpire i suoi avversari. «Il Pd starà all’opposizione - ribadisce - Può farci molto bene. Chi ha vinto le elezioni si metterà d’accordo, del resto cinquestelle e centrodestra stanno facendo accordi in tutti i passaggi istituzionali».
Nel mezzo della battaglia si ritrova Maurizio Martina. Pressato dalle due fazioni, alla fine prende posizione. Riafferma la linea renziana, «i gruppi e la direzione saranno convocati subito dopo le consultazioni», poi però a sera assicura che il Pd non sta nel «freezer» e si confronterà «sui temi» in Parlamento. Una mediazione o un timido cambio di linea? Nel dubbio, Graziano Delrio rimette nuovamente le cose in chiaro, a nome di Renzi : «Stiamo in minoranza non per capriccio, ma perché con gli altri partiti siamo distanti nel merito».
E d’altra parte è Renzi a considerare imprescindibile l’Aventino dem, costi quel che costi. Una linea che va di pari passo con la volontà di sostituire Martina con Delrio durante l’assemblea nazionale del prossimo 22 aprile (circola questa data), per completare la “riconquista” del Pd dopo la clamorosa batosta del 4 marzo.
Mentre il leader si riorganizza, la “corrente di governo” prova almeno a infilare un cuneo nella porta sbarrata al dialogo. Non solo Franceschini e Orlando, ma anche gli altri ministri che non rispondono al “renzismo ortodosso”. Proveranno a giocare di sponda con Martina, almeno fino a quando sarà possibile. Ma è chiaro che il baricentro politico di quest’area è Gentiloni.
Ufficialmente, il premier non può esporsi, impegnato com’è a Palazzo Chigi fino a nuovo ordine.
Ma ai big dell’esecutivo non ha nascosto tutta la preoccupazione per questa trincea renziana, che sembra escludere « a prescindere» anche soluzioni istituzionali d’emergenza, in caso di stallo. Un portone sbarrato che chi ha avuto e ancora ha - la responsabilità di governo non può permettersi. Che è poi il ragionamento consegnato dal veltroniano doc Walter Verini ai colleghi: «Ora l’iniziativa tocca agli altri, ma io il governo M5S-Lega non me lo auguro. Se si apre una fase nuova, si dovrà valutare».

La Stampa 30.3.18
Psicodramma tra i democratici prima dei colloqui al Quirinale
di Marcello Sorgi


L’approssimarsi delle consultazioni al Quirinale ha provocato un nuovo psicodramma nel Pd. Il ministro Dario Franceschini, apertamente contrario alla linea di opposizione a qualsiasi costo dettata da Renzi, ha chiesto di riunire i gruppi parlamentari prima dell’incontro con Mattarella. I renziani si sono opposti, e il segretario reggente Martina ha annunciato che si riuniranno solo dopo, per valutare il quadro emerso dal giro di colloqui al Colle che, per come si stanno mettendo le cose, molto probabilmente sarà solo il primo di una serie.
Franceschini, che formalmente, fino alle dimissioni del segretario, faceva parte della maggioranza renziana del partito, aveva già espresso in un’intervista al Corriere all’indomani dei risultati i suoi dubbi sulla linea «Tocca a loro», che Renzi ha trasformato in un hashtag e messo in rete. Ma anche se in tempi brevi, grazie a Franceschini, la platea di oppositori vecchi e nuovi dovesse allargarsi, difficilmente potrebbe realmente prendere corpo l’idea di rendere disponibili, a certe condizioni, e su invito del Capo dello Stato, i voti del Pd per sostenere in qualche modo un governo 5 Stelle o di centrodestra. Per una ragione assai semplice: benché in difficoltà dopo la rinuncia alla segreteria, Renzi ha mantenuto il controllo del gruppo dei senatori, di cui fa parte, e alla testa del quale è riuscito a imporre il suo fedelissimo Andrea Marcucci. Qualsiasi governo in cerca di una maggioranza dovrà fare i conti con questa pattuglia di irriducibili, che resterà tale almeno fino a quando non si capirà che piega prenderanno le cose al Nazareno dopo l’assemblea di aprile. Alla quale Renzi si presenterà con l’obiettivo di far fuori il reggente Martina, colpevole ai suoi occhi di mediare troppo con i suoi avversari interni, e di insediare al suo posto il ministro Delrio, appena eletto capogruppo dei deputati, o il portavoce Richetti, che dopo un periodo di raffreddamento è rientrato nella schiera dei renziani doc. In un’intervista di auto-candidatura al Corriere della Sera, Richetti ha invocato le primarie per bloccare i tentativi di chiudere nell’assemblea del Pd la partita per il nuovo leader. Primarie può voler dire tutto, perfino un ritorno in campo in autunno come candidato alla segreteria dello stesso Renzi. Un sospetto a cui dà voce, dall’alto del suo oltre mezzo secolo di militanza nella sinistra, Emanuele Macaluso: perché le primarie adesso e non per i candidati, scelti da Renzi in modo da mantenere il controllo dei gruppi parlamentari?

La Stampa 30.3.18
Franceschini contro Renzi
Lite sul dialogo con il M5S
Il ministro all’attacco: flessibilità verso i grillini. L’ex premier lo stoppa
di Carlo Bertini


«Valutiamo il fatto politico che se oggi abbiamo due vice-presidenze di Camera e Senato è grazie ai 5 Stelle, che hanno dimostrato una propensione al dialogo ben maggiore del centrodestra». Dario Franceschini va in pressing nel salone dei gruppi della Camera per strappare maggiore flessibilità del Pd alle consultazioni con Mattarella e Matteo Orfini, capita l’antifona, si alza e se ne va. «Non vorrei che questa apertura ai Cinquestelle da qualcuno dei nostri venga scambiata con un qualche improbabile accordo futuro per la Presidenza della Repubblica», sussurra a un suo compagno di corrente il presidente del partito. Ripetendo un concetto già espresso giorni fa alla presentazione di un libro. Ovvero il sospetto che quelle personalità più propense ad aprire ai grillini, come retropensiero coltivino in realtà l’aspirazione a entrare nel toto-nomi per il Colle quando si tratterà di eleggere il sostituto di Mattarella. Nientemeno che nel 2022, ma si sa che i politici guardano lontano e che per natura sono diffidenti.
Le dietrologie sul Colle
E anche se Orfini non fa nomi, i suoi sanno a chi si riferisca. A quelli dotati del curriculum giusto per poter aspirare alla massima carica istituzionale, personalità come Gentiloni, Veltroni e lo stesso Franceschini: gli ultimi due si sono espressi pubblicamente su diverse ipotesi che possano coinvolgere il Pd per il governo, mentre il premier uscente non ha mai dichiarato di voler aprire ai 5 Stelle, ma lo stesso rientra nel novero dei sospettati. E anche se questo sospetto è da fantapolitica, svela i fucili puntati dalle parti di Renzi, dovuti al fatto che - come dice uno dei big - «qualunque lettura dietrologica è giustificata in questa fase». È anche la conferma che tutto il gruppo dirigente non crede allo stallo, lettura cui dà voce nei conversari privati Marco Minniti. «Centrodestra e grillini faranno un governo, perché questo è il Parlamento che elegge il Presidente della Repubblica e non si faranno sfuggire l’occasione per deciderlo loro».
Ma oltre all’auto-candidatura alla segreteria di Matteo Richetti, che non dispiace a Renzi poiché dà fastidio a Martina e può tornare utile a maggio quando dopo le amministrative sarà convocata l’Assemblea del Pd, l’altra novità è l’uscita allo scoperto del ministro della Cultura. Con una premessa che «siamo stati troppo tempo silenti nel dibattito interno al partito», Franceschini chiede un’inversione di rotta: «Sarebbe bene fare una discussione nei gruppi più aggiornata rispetto alla Direzione, prima delle consultazioni al Colle per definire meglio la linea».
Si è aperto il Congresso
Idem Andrea Orlando. «Non si può andare al Colle dicendo che non siamo disponibili a niente, punto. Bisogna andare con una proposta su questioni sociali, sul tema dei salari o della Fornero, che caratterizzi la nostra opposizione», dice il Guardasigilli. Parte una discussione scoppiettante, che fa dire ad alcuni «si è aperto il congresso». E mentre Stefano Ceccanti nota che «Dario si è posizionato», anche in area renziana c’è chi non esclude una seconda fase più dialogante, «ma qualsiasi apertura a chiunque di loro non andrebbe mai fatta oggi, perché ora verremmo usati da Di Maio come arma di pressione». Ma con Delrio che frena pronto a ribadire che la linea fu decisa in Direzione e che nuovi gruppi verranno riconvocati solo dopo le Consultazioni, ci pensa lo stesso Renzi a stoppare le aperture: «Chi ha vinto le elezioni si metterà d’accordo, prima o poi. E l’opposizione si può fare bene e può farci molto bene».

La Stampa 30.3.18
Tra i dem si è aperto il dopo-Matteo
Pressing su Gentiloni per traghettare
No del premier. E Delrio si sfila dalla corsa per motivi familiari
di Fabio Martini


Quel pomeriggio Maurizio Martina si presentò davanti ai deputati del Pd e, lui così garbato, fu insolitamente sbrigativo davanti all’assemblea riunita a porte chiuse: «Vi chiedo di non mettere in discussione il complicato punto di equilibrio al quale siamo giunti nella individuazione dei due capigruppo» e qualche attimo più tardi propose - e ottenne - l’acclamazione per Graziano Delrio. Il nuovo presidente dei deputati Pd fu eletto con un caldo applauso, il «reggente» Martina incassò il risultato, ma tra i deputati - e poi tra i senatori - restò una sensazione di dibattito strozzato, il tutto sintetizzato così da uno di loro: «È la terza assemblea di gruppo che si apre e si chiude senza il minimo dibattito, così non va». Un malumore che in poche ore era diventato tam-tam tra i parlamentari Pd.
Era il 27 marzo. Ieri mattina la quarta assemblea impostata nella stessa modalità, è stata spiazzata dall’intervento a sorpresa del ministro Dario Franceschini e poco dopo da quello di Andrea Orlando, capo della minoranza, che con diversi accenti, hanno invocato l’avvio di una discussione sulla linea del Pd tra i gruppi parlamentari e nel partito. Un modo per dire a Martina (e al convitato di pietra Renzi, che pure non è il patron del «reggente»), che la stagione del riserbo è finita. Due interventi che di fatto hanno segnato l’avvio della stagione congressuale del Pd, che si preannuncia lunga e dagli esiti imprevedibili. Le dimissioni, improvvise e irrevocabili di Matteo Renzi dalla segreteria dopo la corposa sconfitta del 4 marzo, a breve hanno prodotto un effetto «urla nel silenzio», nel senso che hanno aperto una corsa alla leadership alla quale per ora non ha aderito nessuno. O meglio nessuno è uscito allo scoperto in modo esplicito, anche se dietro le quinte si muovono diverse candidature. E si è aperto un pressing, per ora discreto e rimasto riservato, su Paolo Gentiloni perché sia lui a diventare il traghettatore del Pd.
In base al calendario statutario Renzi sarebbe dovuto restare segretario fino al 2021, ma ora l’Assemblea nazionale del Pd sarà chiamata a decidere l’agenda congressuale. Convocato il 15 aprile, il «parlamentino» sarà posticipato, a data ancora da fissare e senza colpi di scena sarebbe chiamato a registrare le ambizioni, per ora espresse timidamente, di due quarantenni: il bergamasco Maurizio Martina, 40 anni, che viene dalla organizzazione giovanile dei Ds, l’erede della Fgci e il modenese Matteo Richetti, che ha 4 anni in più e viene dalla «nidiata» di Pier Luigi Castagnetti, ultimo segretario del Ppi e ancora oggi personaggio carismatico per una generazione di cattolici democratici. Tanto è vero che lo stesso Renzi indica a esempio un post su Facebook di Castagnetti sulle virtù dello stare all’opposizione.
Martina è appoggiato da gran parte degli ex Ds, mentre Richetti due giorni fa si è visto a pranzo con Renzi prima di lanciarsi in pista, auspicando «primarie» per legittimare il nuovo leader del Pd. Certo, nelle prossime settimane si intensificheranno le pressioni su Graziano Delrio perché sia lui il «candidato di tutti», ma il neo-capogruppo resiste per ragioni inusuali tra i politici: la volontà di dedicare più tempo alla sua numerosa famiglia. Ecco perché tre personaggi diversi tra loro come Walter Veltroni, Dario Franceschini e Andrea Orlando, ognuno per conto suo, hanno chiesto in questi giorni a Paolo Gentiloni di prendersi la croce e traghettare il Pd verso una sponda meno accidentata. La prima risposta è stata un «no grazie», ma il giorno della decisione è ancora lontano.

La Stampa 30.3.18
“Di Maio pronto al passo indietro”
Il braccio destro di Casaleggio svela il piano per l’accordo col Pd
Bugani: dopo il 4 aprile offriremo un programma in 5 punti Sfida a Salvini: legge sul conflitto d’interessi di Berlusconi
di Ilario Lombardo


Per capire fino a che punto esista davvero un doppio forno nella testa di Luigi Di Maio bisogna andare a Bologna. E ascoltare con attenzione quello che Max Bugani ha detto a un esponente del Pd emiliano: «Dal 4 aprile (avvio delle consultazioni, ndr) le cose cambieranno. Chiariremo meglio la nostra strategia. Saremo più espliciti con il Pd. Il primo giro di consultazioni andrà a vuoto. Passerà qualche giorno. Poi noi e il Pd dovremo per forza parlarci. A quel punto proporremo un programma di pochi punti, magari cinque, che vada bene a entrambi. Solo dopo, Luigi farà un passo indietro sulla premiership. Di Maio non è mica Renzi, non resterà inchiodato alla poltrona».
Non stiamo parlando dei desiderata di un peone qualsiasi: Bugani è la storia del M5S, consigliere comunale a Bologna e braccio destro di Davide Casaleggio nell’associazione Rousseau, ascoltatissimo da Beppe Grillo, in prima linea con i vertici romani del Movimento. Bugani chiarisce le voci che ieri sono tornate a essere insistenti tra i parlamentari, soprattutto dopo il muro alzato da Matteo Salvini sull’opportunità di rompere con Forza Italia a favore del M5S. Dopo le consultazioni, il fortino pentastellato avvolto dal silenzio comincerà ad aprirsi a dichiarazioni più esplicite. Chi lavora ai dossier economici in vista del Def acquisirà un ruolo più centrale. Da quanto si apprende, si sta cercando un difficile equilibrio su un programma che riesca nel miracolo di non scontentare nessuno, tra Lega e Pd. Ma ai dem, i grillini sono già pronti a offrire taglio dell’Irap, lotta all’evasione, misure contro la disoccupazione giovanile, e una nuova formulazione del reddito di cittadinanza che tenga conto del reddito di inclusione come base di partenza. Questi punti sono solo una parte selezionata di quella decina su cui ieri i capigruppo si sono confrontati con gli altri partiti. «Chiunque si dica di sinistra dovrebbe votarli» spiega Lorenzo Fioramonti, braccio economico del M5S.
Lo scenario disegnato da Bugani non è dissimile da quello ventilato da alcuni 5 Stelle in chiacchierate informali con i leghisti. Se lo stallo si trascinasse per un mese, Di Maio verrebbe quasi costretto al passo indietro, pur di far partire un governo. Salvini pensa che sarà con la Lega, alcuni grillini sperano con il Pd, convinti che sia la direzione in cui si muoverà anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Diventa ogni giorno più chiaro che Di Maio sta davvero giocando su due tavoli, pronto ad assumersi tutti i rischi del caso: «Le convergenze sono possibili sia a destra che a sinistra - ha detto dopo gli incontri di ieri - L’unico gruppo che si sottrae al confronto e al cambiamento è il Pd». Di Maio prova a stanare i dem, mentre i suoi colonnelli, a partire da Giulia Grillo, messi di fronte all’apertura di Dario Franceschini ripetono: «Ma con quale Pd dovremmo parlare? Sono troppi».
Il leader del M5S si sposta a seconda delle convenienze, pensando di sfruttare le debolezze dei suoi interlocutori. Da una parte c’è la Lega, con cui la sintonia è ottima, ma che si porta dietro un problema non da poco: Silvio Berlusconi. Dall’altra c’è il Pd, a cui il M5S non ha rinunciato fino in fondo, né intende farlo ora che sta combattendo una guerra di posizione con Salvini. Raccontano che Di Maio abbia espresso tutta la sua frustrazione durante l’assemblea del gruppo della Camera: «Se Salvini vuole restare attaccato a Berlusconi, faccia pure. Vediamo dove arriva...».
Su questo non sembra proprio esserci margine di trattativa. A domanda diretta i leghisti scuotono la testa, sconsolati. Stanno tentando di convincere Berlusconi a un’operazione di «cosmesi» spericolata: lasciare Forza Italia a un reggente e dire addio alla politica, nella speranza che i 5 Stelle accettino un’alleanza con l’intero centrodestra. Ma hanno capito che forse non basterà. «Ci sono zero possibilità a un governo con Fi» spiega, dietro garanzia di anonimato, un esponente della cerchia stretta del leader: «A maggior ragione, Di Maio premier non può coesistere con quelli». Molto si capirà il giorno in cui Fi salirà al Colle. Se ci sarà o meno Berlusconi. Anna Maria Bernini, capogruppo al Senato, non lo ha escluso ma nel colloquio con i 5 Stelle ha detto che comunque non ci sarà interlocuzione senza l’ex Cavaliere. Un atto di sfida che i grillini sono pronti a sterilizzare evocando in chiave anti-berlusconiana una legge sul conflitto di interessi. Con il Pd? «Vediamo...non l’hanno fatta in dieci anni - spiega Giulia Grillo - Ma le strade del signore sono infinite». Di legge sul conflitto di interessi e lotta all’evasione (entrambi un chiaro messaggio a Fi e all’alleato Salvini) parla anche Danilo Toninelli che per la prima volta ammorbidisce le resistenze alla flat tax. Una cortesia dopo la disponibilità mostrata dalla Lega sul reddito di cittadinanza, prima che in una carambola di tweet con il dem Michele Anzaldi Salvini facesse nuovamente impallinare la misura regina del M5S. Il doppio forno continua a bruciare ogni certezza.

Corriere 30.3.18
L’intervista Davide Casaleggio
«Intese? Conta la volontà popolare. Non temiamo di tornare alle urne»
Lo stratega M5S: l’accordo sul Senato ha evitato un condannato ai vertici dello Stato
intervista di Emanuele Buzzi


Davide Casaleggio, che idea si è fatto del quadro politico post voto? È possibile un accordo con Lega? E col Pd? A cosa potrebbe rinunciare il Movimento per creare un asse di governo?
«Delle soluzioni se ne sta occupando Luigi Di Maio e sta gestendo questo momento in maniera impeccabile. Per il resto la mia unica valutazione è che mi auguro che la volontà popolare venga rispettata».
Il Movimento però da solo non ha la maggioranza, secondo lei torneremo alle urne?
«La decisione di sciogliere le Camere spetta al capo dello Stato. Di certo non abbiamo mai temuto le consultazioni popolari».
Valeva la pena votare, tra vostri mal di pancia, una forzista come Maria Elisabetta Casellati pur di vedere Roberto Fico presidente a Montecitorio?
«L’accordo raggiunto ha permesso di evitare che un condannato in via definitiva diventasse la seconda carica dello Stato, una cosa che per i valori del Movimento sarebbe stata inaccettabile».
Cosa avrebbe detto suo padre di una situazione come quella attuale?
«Di sicuro sarebbe stato felice per l’elezione di Roberto Fico e orgoglioso per il metodo di totale trasparenza che Di Maio sta portando avanti».
Tra una settimana a Ivrea c’è Sum, che si porta addosso l’etichetta di Leopolda dei 5 Stelle...
«Sum nasce per ricordare mio padre e si fonda sull’impegno dei volontari dell’Associazione Gianroberto Casaleggio, che non hanno nulla a che fare con la politica. Lo scopo di Sum è offrire spunti di dibattito e idee per capire il futuro, uno spirito ben diverso da quello della Leopolda».
Però è ovvio che ci sia un legame con il Movimento.
«Alcuni sostenitori del Movimento hanno conosciuto di persona mio padre e sono legati all’Associazione da un profondo affetto nei suoi confronti. Chiunque abbia avuto l’opportunità di conoscerlo non può che sentire la mancanza del suo sguardo lucido e visionario e della sua capacità di immaginare scenari futuri».
Avete lanciato un manifesto: come pensate di renderlo operativo?
«Durante le cene di Roma e Milano abbiamo chiesto agli associati di indicarci quali siano i temi di maggiore interesse. Il 7 aprile presenteremo i risultati e annunceremo le prossime iniziative culturali».
Ha parlato di venti cene per promuovere l’Associazione: quando e come le farete?
«Non c’è ancora un calendario, lo costruiremo strada facendo anche sulla base delle proposte e delle idee degli associati. Certamente la formula sarà la stessa di Roma e Milano».
Per ora vi siete finanziati con la quota associativa, cambierete pelle aprendo a donazioni più rilevanti?
«L’associazione è fatta di persone che aderiscono a titolo personale. Abbiamo fissato una quota annuale che è simile a quella di altre associazioni culturali. Se qualcuno vorrà sostenerci in modo economicamente più rilevante, valuteremo caso per caso».
È cambiato qualcosa dopo il 4 marzo? Ricevete più attenzioni?
«Certamente c’è più attenzione, ma l’affetto già c’era e continua a esserci. Molti degli associati conoscevano mio padre di persona e impegnano energie e risorse per tenere vivo il suo ricordo e proseguire sulla strada da lui tracciata».
Quali saranno i temi portanti?
«Si parlerà del futuro della tecnologia, dell’energia, della filosofia, della democrazia, ma anche del futuro della parola e in generale dell’uomo».
Come avete scelto i relatori?
«Sum è un evento apartitico e apolitico che riunisce relatori di prestigio e provenienti dai più diversi ambiti. L’importante è che abbiano qualcosa da dire, per storia personale o professionale, perché lo scopo è stimolare riflessioni sul futuro, come riusciva a fare mio padre».
Lei è presidente anche di Rousseau. La piattaforma è stata nel mirino negli ultimi mesi. State cambiando qualcosa?
«Ci sono molte novità: siamo in pieno fermento. Stiamo lavorando su un percorso meritocratico per le selezioni dei candidati che sarà altamente innovativo. Presto partirà anche la Rousseau Open Academy con dei percorsi di formazione. Per quanto riguarda la piattaforma l’obbiettivo principale è l’integrazione con la blockchain per migliorare tutto il sistema e la sicurezza».
Si è parlato dello spostamento di Pietro Dettori da Milano a Roma come di un modo da parte sua di controllare il gruppo parlamentare.
«Una polemica senza senso».

Il Fatto 30.3.18
Redditi bassi, pensioni minime, poveri: ecco l’Italia senza ripresa
Dimenticati - I dati del Tesoro sull’Irpef e quelli Inps su assegni previdenziali e sussidi raccontano il Paese che non è ripartito
di Stefano Feltri


Ma quanti sono gli italiani in difficoltà, quelli per cui la ripresa non è mai arrivata? Al centro del dibattito sul reddito di cittadinanza ci sono i 4,7 milioni di persone in povertà, assoluta, che non riescono a permettersi uno stile di vita accettabile misurato su un paniere di consumi elaborato dall’Istat. Ma se questi italiani in difficoltà hanno conquistato almeno la cima dell’agenda della politica, i dati pubblicati in questi giorni sulle dichiarazioni sui redditi Irpef e sulle pensioni indicano che l’area del disagio è molto più ampia e non migliora molto.
Secondo i dati del ministero del Tesoro, nel 2016 il reddito medio dichiarato dai lavoratori dipendenti è stato pari a 20.680 euro, quello dei pensionati a 17.170 euro, due categorie che sicuramente non possono evadere. Va meglio ai titolari di ditte individuali, 21.080, i lavoratori autonomi dichiarano invece 41.070 euro. Ma quello che conta è la tendenza: rispetto al 2015 salgono parecchio i redditi medi d’impresa (+5,3 per cento), quelli del lavoro autonomo anche di più (+9), segno che hanno intercettato la ripresa, mentre quelli dei lavoratori dipendenti restano piatti (+0,1).
Anche nelle parti più basse della scala sociale le forbici si sono allargate. I poveri sono diventati più poveri. Secondo l’Istat, nel 2016 l’indicatore che misura l’intensità della povertà (quanto la spesa mensile delle famiglie povere è mediamente sotto la linea di povertà) è salito rispetto al 2015 dal 18,7 per cento al 20,7. Due punti in un anno solo non è poco. E che la situazione sia critica, nonostante la ripresa dell’economia, lo dimostrano i primi dati dell’Inps sul Rei, il reddito di inclusione che è stato introdotto dal governo Gentiloni e si può richiedere da dicembre 2017, in media vale 297 euro a persona al mese: lo hanno ottenuto 316.000 persone, non sappiamo quante lo hanno richiesto, però, visto che l’Inps non divulga questo dato (che è complicato da aggregare perché le domande sono nei Comuni e c’è una scrematura per escludere chi non ha diritto). Quel sussidio è pensato per la platea dei 4,7 milioni di italiani in povertà assoluta di cui fanno parte anche 50.000 persone senza fissa dimora che non si sa neppure se sono davvero conteggiati nelle statistiche dal momento che sono molto difficili da raggiungere con qualunque indagine sociologica (c’è un esperimento in corso a Milano, si chiama “Ulisse” e verrà poi esteso a Roma e Napoli).
I pensionati non sono le prime vittime della crisi, perché non potevano restare disoccupati, e infatti il rischio povertà è aumentato per i giovani, non per gli anziani. Ma se si guarda il valore degli assegni pagati dall’Inps si capisce quanto esile sia la tenuta di quel blocco sociale: su 17,8 milioni di pensioni pagate, ben 4,6 milioni sono sotto i 500 euro e altri 6,5 milioni tra i 500 e i 750 euro. È vero che magari per molte di queste persone non è l’unico reddito e che in molte zone d’Italia se si dispone di una casa di proprietà si può sopravvivere anche con 700 euro, ma stiamo comunque parlando di 11 milioni di italiani che ogni mese ricevono sul conto meno di quanto vale il famoso reddito di cittadinanza dei Cinque Stelle (780 euro). La pensione media è di soli 866,72 euro mensili.
Per queste vaste masse di italiani cambia poco se la crescita del Pil si attesta sull’1,5 per cento o sull’1,8. Molto potrebbe cambiare invece con una riforma di come vengono spese le ingenti risorse stanziate per il welfare. L’Inps ci ricorda con i dati di ieri che le pensioni assistenziali, quelle pagate senza essere coperte da alcun contributo, valgono 16 miliardi ogni anno. Ma un dossier della rivista Prospettive sociali e sanitarie diretta da Emanuele Ranci Ortigosa, stimava una cifra assai più sorprendente: per colpa di criteri di selezione congegnati male, dei 56 miliardi di euro di trasferimenti monetari erogati dallo Stato per il welfare, ben 13 miliardi vanno al 40 per cento degli italiani più benestanti, in base all’indicatore Isee che considera redditi e patrimonio. Gente che ha un reddito disponibile medio equivalente tra i 23.621 e i 43.389 euro annui. Non saranno tutti ricchi, certo, ma di sicuro non sono i più poveri e bisognosi. Per potenziare misure davvero contro la povertà bisognerebbe cominciare da lì, dal togliere sussidi a chi non ne ha davvero bisogno e secondo il dossier di Prospettive sociali e sanitarie si possono recuperare almeno 4,6 miliardi.
Come si è visto il 4 marzo, il futuro della politica si decide anche, e forse ormai, soprattutto su questi temi.

Repubblica 30.3.17
Come hanno votato le ex isole rosse
“Il Partito si è fatto rubare le idee” Così le Coop hanno scaricato il Pd
di Paolo Griseri


La sinistra? «È la faccia del mio amico Giovanni, una sera di nove anni fa sulla piazza di Melpignano, la capitale della taranta.
Giovanni era contento “perché da tanto tempo non si discuteva tutti insieme”. Era nata, quella sera, la prima cooperativa di comunità italiana: gli abitanti del paese uniti per comperare pannelli fotovoltaici, produrre energia e investire il ricavato in donazioni di beneficenza». Carmelo Rollo, di Bari, è un signore di 59 anni che conosce perfettamente la differenza tra il libro Cuore e la realtà. Eppure, se deve raccontare la frana della sinistra anche tra gli 8 milioni di soci di Legacoop, riparte da quella sera e dallo stupore positivo del suo amico per la pratica del confronto e della condivisione, «che non si vedeva da tanto tempo».
Per quanti anni i partiti della sinistra hanno lasciato soli i tanti Giovanni sparsi nella Penisola?
Quando è iniziato lo smottamento? I dati sono impietosi: nell’Emilia rossa il M5S è il primo partito e batte il Pd.
Nella terra di Bersani Leu è fermo al 4 per cento, poco sopra i postfascisti di Meloni. La Lega è al 19 per cento: insieme Salvini e Di Maio conquistano un milione di voti su 2,5. Una débâcle.
Una parte della responsabilità è indubbiamente del mondo cooperativo. Gli scandali delle coop che sfruttano i dipendenti con salari da fame, le mazzette pagate ai politici per vincere una gara d’appalto, non hanno aiutato la sinistra a vincere. Ma proprio quando si trattava di risalire la china, di ricostruire la credibilità delle coop rosse, si è rotto qualcosa nel rapporto tra i vertici del Pd e la più grande organizzazione della sinistra.
Venerdì 7 ottobre 2016 a Bologna nella sede aulica del Palazzo di Re Enzo, Legacoop scommetteva sulla possibilità di voltare pagina.
Lo scandalo di Mafia capitale esigeva una reazione. Milioni di soci non potevano essere ridotti allo scambio tra cene elettorali e interrogazioni parlamentari.
Erano stati invitati tutti i vertici del Pd. Si presentarono tutti.
Tranne uno: il leader.
Venne Napolitano e fece un discorso duro. Attaccò le cooperative per aver reagito «con inspiegabile ritardo di fronte a fenomeni di devianza, affarismo e autentica corruzione». Mauro Lusetti, presidente di Legacoop, ricorda che «a quella manifestazione, nella giornata conclusiva avevamo invitato Matteo Renzi. Aspettavamo da lui un segnale importante. Non venne».
Lusetti, 64 anni, non è un tipo permaloso: «Il fatto è che quell’assenza non era casuale. Era la sintesi di un’idea della politica che saltava tutti i gruppi, le associazioni, i movimenti organizzati. Tutti sostituiti dal rapporto diretto tra il leader e i cittadini. Una semplificazione che escludeva noi... e passi. Ma che ha avuto l’effetto concreto di distruggere il partito. Anche qui in Emilia il Pd si è rarefatto. In molti posti non c’è più. E se non ci sei, non vinci». Che sarebbe andata a finire cosi «noi della cooperazione agricola l’avevamo capito da un pezzo. Nelle nostre assemblee si avvertiva la voglia di cambiamento», rivela Gianni Luppi, solido pragmatismo emiliano. Si parla di politica nelle vostre assemblee? «Scherziamo?
Si discute di qual è l’uva migliore per il Lambrusco. La politica si intravede in filigrana. Ma lo capisci quando la gente non ne può più, vuole cambiare prodotto». Anche i partiti sono un prodotto? «In un certo senso sì.
Nascono, hanno successo e dopo un po’, se non si rinnovano, decadono». Questa volta il Pd è rimasto sugli scaffali, come i kiwi: un grande passato ma oggi non li compra più nessuno. Perché ? «I grillini hanno preso i principi della sinistra e li hanno saputi proporre meglio».
«Ci siamo lasciati scippare le intuizioni», conferma Enzo Gasparutti che vive a Udine e governa una cooperativa di servizi con 3.500 soci. Racconta un’epopea: «Negli anni Novanta siamo stati tra i primi a lavorare nel campo della raccolta differenziata. Pensavamo che si dovesse salvare l’Italia dall’immondizia. Non era un bel mestiere. La differenziata si faceva mettendo le mani nei rifiuti e separando le lattine dalla carta e dalle mele marce. Ci spingeva un’idea di sinistra, quella della salvaguardia dell’ambiente. Un giorno Grillo è andato al tg e ha detto che bisogna arrivare ai rifiuti zero. Ho pensato “Benvenuto nel club”».
Ma erano due club diversi: «Certo. Mentre i grillini spingevano sui rifiuti zero, i partiti della sinistra erano titubanti». Non erano convinti? «Dovevano mediare con altri interessi. Anche i proprietari delle discariche votano». Lei ha votato Pd? «Sì, nonostante le mie perplessità». Vuol dire che ha stretto le narici tra il pollice e l’indice? «Non ho usato quell’espressione, non mi piace.
Non ci si tura il naso il giorno del voto». Divergenze sul ciclo dei rifiuti? «Dubbi sulla democrazia interna del Pd. Sul modo con cui sono state trattate le minoranze.
Che sono una ricchezza, non un fastidio. Nelle coop è così. Si discute, si condivide e si media.
Perché il partito deve funzionare diversamente?». Parla Enzo da Udine ma sembra di sentire Giovanni da Melpignano: «Finalmente da noi si discute».
Non è la prima volta che cadono le roccaforti. La crescita della Lega nelle regioni rosse non è una novità. Ma è la prima volta che le cooperative di sinistra mostrano interesse per forze politiche, come i 5stelle, che non affondano le radici nella Seconda o nella Terza Internazionale. Lusetti ride: «Ormai lo sappiamo solo io e lei che cos’è stata la Terza internazionale...». Dopo anni di indubbio collateralismo con la sinistra le coop saltano sul carro del vincitore grillino? «Non saltiamo su nessun carro.
Abbiamo un rapporto di dialogo con tutte le forze politiche. Ad eccezione dei fascisti, naturalmente». Così una mattina Luigi Di Maio è andato a incontrare Mauro Lusetti: «Non c’è niente di strano. Per anni il Movimento ci ha attaccato.
L’incontro invece è stato di tutt’altro tono. Di Maio sembra un ragazzo alle prime armi e invece mi ha dato l’impressione di una persona che sa il fatto suo, con cui si può certamente dialogare».
Meglio che con il Pd? «Il Pd lo conosciamo da tanto tempo». E ci mancherebbe. Lusetti ha sostituito Giuliano Poletti alla guida delle coop, il rapporto con il ministro del lavoro non poteva che essere molto stretto. Alla Lega tengono alle distinzioni: «In questi anni il rapporto con il governo è stato buono. Sono state realizzate riforme importanti, dall’articolo 18 al job act». Quelle che hanno scatenato l’ira della Cgil...
Il governo ha fatto bene, il partito no è la sintesi dei cooperatori. Il partito è rimasto distante. Che cosa aveva trattenuto Matteo Renzi dal partecipare alla Biennale di Bologna, nel Palazzo di Re Enzo? Quel giorno il Presidente del Consiglio aveva scelto di andare in tv, all’Arena di Massimo Giletti. E aveva proclamato «senza giri di parole: se il 4 dicembre prossimo vince il no al referendum costituzionale, cambio mestiere». Non era stata, come si sa, un’uscita felicissima.
Ma sarebbe ingeneroso caricare su Renzi tutta la responsabilità dei ritardi decennali della sinistra. «Il fatto - dice Luppi - è che viviamo nella società liquida di Bauman. I punti di riferimento cambiano in continuazione».
Questo spiega l’avvicinamento tra Lusetti e Di Maio? Luppi sorride, allarga le braccia e sillaba con bell’accento emiliano: «Mio caro, nella società liquida, o che si nuota o che si muore annegati».

il manifesto 30.3.18
L’informazione oscura la realtà e la politica o si adegua o affonda
di Tonino Perna

Nell’era dei paradossi accade che mai la società umana ha prodotto tanta ricchezza e mai così alto è stato il numero di chi muore di fame. Più tecnologia e conoscenze produciamo e più ci avviciniamo alla soglia della catastrofe ambientale e nucleare.
Mai abbiamo avuto tanti mezzi di informazione, tanta facilità di comunicazione in tempo reale e contemporaneamente tanta ignoranza a livello di massa. Naturalmente con conseguenze enormi sul piano politico.
La nostra visione del mondo si basa essenzialmente sulla percezione e, ad esclusione degli addetti ai lavori, su qualunque fenomeno sociale del nostro tempo la coscienza collettiva si forma solo sulla percezione. L’ultimo delitto visto in televisione, ripreso dalla stampa, dibattuto sui talk show. Stragi di donne, tragedie familiari, giovani uccisi da assassini che restano ignoti: è il piatto forte dei telegiornali Tg. Chi sa che siamo, insieme alla Grecia e Malta, il paese europeo con il più basso tasso di omicidi ?
Malgrado mafia, camorra e ‘ndrangheta viviamo in un paese tra i più tranquilli dell’Unione europea, che a sua volta è un’area tra le meno violente del mondo relativamente ai fatti di cronaca nera.
Stesso discorso vale per i migranti. Quando chiedo ai miei studenti quanti sono gli immigrati in Italia, la maggior parte pensa che siano tra il 30 e il 40 per cento della popolazione italiana. Una vera e propria invasione! Quando gli comunichi che non arriva al 9 per cento, una delle percentuali più basse della Ue, rimangono perplessi e increduli. Se questo succede nelle aule universitarie, possiamo immaginare cosa accade fuori. Solo una estrema minoranza conosce la realtà, approfondisce i dati, ha un approccio scientifico alle questioni più delicate e importanti del nostro tempo.
Anche in passato l’umanità ha convissuto con una percezione falsa della realtà. Siamo stati convinti per millenni che il sole girasse intorno alla terra, così come pensavamo che gli animali e le piante fossero stati creati con le attuali fattezze fin dalla notte dei tempi. Galileo, Darwin e altri scienziati ci hanno convinto che la nostra percezione era falsa, ma ci sono voluti molti decenni, qualche volta secoli.
Credo che in questa fase della storia umana sia diventata una necessità di prima grandezza diffondere un approccio scientifico ai fenomeni sociali, economici e politici. Non tutti possiamo diventare scienziati, ma tutti possono avere a disposizione una cassetta degli attrezzi che faccia leggere in maniera non superficiale, istintiva la realtà sociale. Abbiamo bisogno di giornalisti, artisti, docenti, educatori – a partire dalla scuola elementare– capaci di costruire uno spirito critico, per aiutare a selezionare le informazioni, a difendersi dal bombardamento mediatico.
Non a caso stanno distruggendo definitivamente il ruolo della scuola come palestra di idee e individui pensanti, per questo è ricorrente l’idea di abolire la Tv pubblica che ancora riserva qualche spazio all’approfondimento.
E’ un’onda reazionaria che coinvolge l’Europa, e la risposta non può essere cercata nel breve periodo o in un cambio del brand politico. Si tratta piuttosto di una sfida antropologica: il profilo di essere umano costruito da questo modo di produzione capitalistico nell’era dell’iper-informazione/deformazione della realtà.
Non dimentichiamo che una parte preponderante della sinistra storica aveva le sue basi nel marxismo, una visione che tentava di interpretare la storia con un metodo scientifico.
Forse è proprio da quell’approccio che dovremmo ripartire, in maniera non meccanicistica, per contrastare il mix di razzismo-neoliberismo che ha impregnato la gran parte della società contemporanea.
E’ il terribile e reale rischio di far trionfare il «disumano», denunciato più volte da Marco Revelli, con cui dobbiamo fare i conti prima di pensare alle alchimie dei governi e dei partiti.
E’ quel «restiamo umani!», quel grido disperato di un grande testimone del nostro tempo, come Vittorio Arrigoni, che ci deve spingere a spendere le nostre migliori energie, ognuno secondo le proprie capacità, per far riemergere l’umanità dentro la nostra società.

il manifesto 30.3.18
Atac, due comitati per il No alla privatizzazione
Referendum Consultivo. A due mesi dal voto promosso dai Radicali formato "Mejo de no", fatto da lavoratori e consiglieri Pd. L’altro sarà fatto da sinistra, urbanisti e comitati pendolari
di Massimo Franchi


Domenica 3 giugno i romani saranno chiamati ad esprimersi sul referendum consultivo che chiede la messa a bando del servizio ora di Atac. Le 33 mila firme raccolte la scorsa estate dai Radicali hanno portato a questo voto che sostanzialmente chiede di privatizzare l’azienda di trasporto pubblico ora in concordato fallimentare per un debito stimato in un miliardo e 300 milioni.
A poco più di due mesi dal voto parte la mobilitazione sul fronte del No. Nel giro di pochi giorni si stanno costituendo due distinti comitati. Il primo è stato costituito formalmente ieri, si chiama «Mejo de no» ed è appoggiato – udite udite – da parecchi consiglieri municipali del Pd, in aperta contrapposizione ai Radicali (eletti in parlamento in coalizione col Pd) e a molti esponenti che hanno appoggiato la lotta per la privatizzazione: l’ex candidato sindaco Roberto Giachetti e colui che potrebbe esserlo fra tre anni: Carlo Calenda.
L’altro sarà formalizzato mercoledì 4 aprile in Campidoglio e sarà formato «da un fronte trasversale: partiti come Leu e Potere al Popolo, comitati di cittadini come quello dei Pendolari guidato da Maurizio Messina e urbanisti come Paolo Berdini e Vezio De Lucia», annuncia Stefano Fassina.
Quanto al primo comitato ieri una nota informava che «Mejo de No» ha come «scopo concretizzare un percorso condiviso e diffuso nella città sulle ragioni del ‘No’ con un’assemblea già convocata per il 3 aprile. Il comitato è lanciato da lavoratori Atac che infatti stamattina saranno «davanti ai depositi di Tor Sapienza e Grottarossa, ma anche davanti alla sede di Via Prenestina e alla Stazione Termini. «Cerchiamo l’unità e la voce di quanti, dai cittadini ai lavoratori, dagli utenti agli amministratori locali, finanche agli studenti e agli intellettuali, credono che il trasporto pubblico sia bene comune. Una campagna informativa unitaria e coerente – conclude la nota – con l’idea che sia possibile un discorso diverso da quello di una liberalizzazione non spiegata fino in fondo nei suoi possibili effetti».
La situazione dell’azienda è sempre grave e la gestione del concordato da parte della giunta Raggi e del nuovo management appare tutt’altro che solida. A pagarne le spese sono stati subito e come al solito i lavoratori. Lo scorso 8 marzo sono stati licenziati 140 operai della Corpa, azienda a cui era appaltata la manutenzione dei bus semplicemente perché l’appalto non è stato rinnovato.
Il concordato chiesto al tribunale fallimentare per evitare la chiusura doveva essere corredato da un piano di rientro. Lo ha redatto il neo ad di Atac Paolo Simoni senza però soddisfare i giudici che il 23 marzo hanno chiesto integrazioni, nuove garanzie e documenti. Il 30 maggio si terrà l’udienza che deciderà sulla sostenibilità del piano che dovrà poi essere approvato dai creditori per evitare il fallimento.
«Il concordato è stata una scelta fatta dalla giunta Raggi tenendo all’oscuro il consiglio comunale – denuncia Stefano Fassina – . Per questo abbiamo chiesto un consiglio comunale straordinario che si terrà dopo pasqua in cui chiederemo alla giunta di chiarire la sua posizione. La buona riuscita del concordato è imprescindibile per salvare l’azienda e i lavoratori ma finora le scelte sono state improvvisate e non hanno tenuto conto che l’Atac è del comune di Roma e quindi del consiglio, non della giunta».
Proprio la posizione dei grillini sul referendum – non si esclude che anche loro diano vita ad un comitato per il No – sarà decisiva per l’esito. Nel frattempo Raggi ha sfruttato il concordato per scavalcare la scadenza dell’affidamento ad Atac fino al 2019 e prolungarlo fino al dicembre 2021. Il tutto sebbene l’Antitrust abbia espresso un parere non favorevole all’ipotesi.

Repubblica 30.3.18
Dopo lo scandalo Cambridge Analytica
Guerra tra giganti tech Apple contro Facebook “La privacy è libertà”
Duro attacco di Cook a Zuckerberg sulla tutela dei dati personali “ Sono diritti umani”. E Trump accusa Amazon: “ Paga poche tasse”
di Federico Rampini,


New York Apple contro Facebook, il clima velenoso degli scandali genera un regolamento di conti fra Padroni della Rete. Donald Trump torna all’attacco di Amazon, su un terreno dove per una volta va d’accordo con l’Unione europea: « Paga pochissime o zero tasse». Il chief executive di Apple, Tim Cook, invece attacca Mark Zuckerberg per il saccheggio dei dati di 50 milioni di utenti. «La privacy è un diritto umano — dice Cook in un’intervista alla tv Msnbc — è una libertà civile, ed è qualcosa di unico per l’America. È come la libertà di parola, la libertà di stampa; la privacy è a quel livello d’importanza per noi » . Lo spettacolo della rissa in pubblico è raro, ma evoca un precedente in cui fu Apple a trovarsi sul banco degli imputati. Fu per una strage provocata da due terroristi islamici, immigrati di origine pachistana, che il 2 dicembre 2015 uccisero 14 persone in un centro per disabili a San Bernardino, California. Quando l’Fbi riuscì a procurarsi l’iPhone di uno dei terroristi, Cook si rifiutò di rivelare le chiavi d’accesso. Il capo di Apple disse che la richiesta di decrittare lo smartphone rappresentava una minaccia troppo grave alla sicurezza di noi utenti. Una volta che Apple avesse fornito all’Fbi il dispositivo per violare il codice crittato, sostenne Cook in una lettera pubblica, «potrebbe finire nelle mani sbagliate, che potenzialmente avrebbero accesso a qualsiasi iPhone » . Eppure la richiesta dell’Fbi era stata autorizzata dalla magistratura. In quel caso fu Bill Gates, fondatore di Microsoft, a rompere il fronte delle aziende tecnologiche, dissociandosi da Cook e condannando la sua scelta. La diatriba venne politicizzata, con l’intervento di Trump che all’epoca era uno dei candidati alla nomination repubblicana. Almeno Cook può rivendicare una coerenza: la sua linea rimane fedele alla tutela della privacy. Accusato nel 2015 di non essere patriottico, di non aiutare l’Fbi contro il terrorismo islamico, oggi è lui a salire in cattedra e a dare una lezione al 33enne Zuckerberg, il cui social media si è prestato a servire gli interessi della campagna Trump.
La tensione nella Silicon Valley ( e “ dintorni”: che virtualmente includono Seattle, sede di Amazon e Microsoft, sempre sulla West Coast) è dovuta a un clima improvvisamente ostile. La Borsa dopo gli scandali sulla privacy ha castigato non solo Facebook ma anche gli altri membri del gruppo Faang (Facebook Apple Amazon Netflix Google). Gli investitori si chiedono se un giro di vite sulla protezione della privacy sia compatibile con l’attuale modello di business, e coi livelli di profitto vertiginosi del settore. Se in passato solo Bruxelles sembrava decisa ad affrontare temi roventi come l’elusione fiscale o l’abuso di posizione dominante, oggi anche a Washington si respira un clima diverso. Trump, a dispetto dei “regali” che Facebook gli ha fatto, non ha né legami di affari né simpatia politica per quel capitalismo troppo liberal. L’attesa per l’audizione di Zuckerberg al Congresso è grande, anche se non bisogna caricarla di significati eccessivi: i parlamentari usano le audizioni per farsi belli davanti agli elettori, non sempre poi seguono azioni coerenti. Prima di dare per scontato che le norme cambieranno in senso più protettivo della privacy, bisogna aspettare. Certo se questo accadesse sarebbe un duro colpo per quei giganti — soprattutto Facebook Google Netflix — che campano soprattutto sulla raccolta pubblicitaria e la vendita di dati su noi stessi. Apple ha altri problemi: si moltiplicano le cause giudiziarie per gli iPhone che “ rallentano” quando l’azienda lancia sul mercato un nuovo modello. Apple ha ammesso che è tutto vero, giustificandosi col fatto che il rallentamento programmato serve a «prolungare la vita delle batterie » . Cinquantanove cause in tribunale l’accusano di farlo per costringere a comprare i modelli di nuova generazione. Siamo in un ambito molto diverso, ma la morale è che ciascuno dei Padroni della Rete ha degli scheletri nell’armadio, e tenta di spostare l’attenzione sugli abusi del vicino.

Il Fatto 30.3.18
La grandeur ridicola di Sarkozy, carnefice dell’“amico” Gheddafi
Senza riconoscenza. L’interventismo dell’ex presidente gollista ha portato all’uccisione del Colonnello libico, suo sponsor elettorale
di Massimo Fini


Mi spiace per Carla Bruni, una delle donne più affascinanti d’Europa, ma il suo attuale consorte Nicolas Sarkozy fa veramente ribrezzo. Non solo e, addirittura, non tanto perché è stato il capofila dell’aggressione, del tutto illegittima sotto il profilo del diritto internazionale (ma esiste ancora un diritto internazionale?) alla Libia di Muammar Gheddafi, Stato accreditato all’Onu. Dato che sullo stesso piano possiamo mettere Barack Obama, questo mezzo nero e mezzo democratico cui fu conferito il Nobel per la Pace, all’impronta, sulla fiducia, quando quasi non aveva ancora messo piede alla Casa Bianca (mentre a Donald Trump non viene risparmiato nulla, benché in realtà, nonostante qualche ‘trumpata’ verbale, si stia dimostrando molto meno bellicoso, come dimostra la sua sostanziale ‘non belligeranza’ con la Corea del Nord). E sullo stesso piano, anzi in un piano più sotto, che è quello che gli spetta, come rango e come caimano, va messo Silvio Berlusconi che dopo essersi professato amico quasi fraterno di Muammar Gheddafi, tanto da permettergli di far evoluire i suoi cavalli berberi nella caserma intitolata a Salvo d’Acquisto, un vero eroe italiano, quando il Colonnello fu fatto fuori, grazie anche alla partecipazione italiana alla sciagurata impresa libica, le cui conseguenze si sono riversate soprattutto sulle nostre coste, se la cavò, col cinismo che gli è consustanziale, con la formula “Sic transit gloria mundi”. Quindi Berlusconi è doppiamente responsabile, politicamente, perché a quell’aggressione era contrario ma vi partecipò lo stesso, per viltà, per seguire, da cane fedele e nello stesso tempo sleale, gli americani.
“Sic transit gloria mundi”. Ci piacerebbe ripagarlo della stessa moneta quando verrà il suo momento, ma temiamo di non esser presenti perché i cinici, come dimostra la statistica, vivono molto più degli altri.
Nicolas Sarkozy fa ribrezzo, anzi moralmente schifo, al di là delle sue responsabilità politiche, per il modo in cui è stato ammazzato Muammar Gheddafi. Linciato, umiliato, sodomizzato. Una cosa che nemmeno i ‘tagliagole’ dell’Isis hanno mai fatto. Fausto Biloslavo, un inviato che merita credito perché è sempre molto vicino ai fronti di battaglia, scrive sul Giornale (23.3) che furono i Servizi segreti francesi ad armare quello scempio. Probabilmente non ne furono gli esecutori materiali ma hanno la gravissima responsabilità di non aver fatto nulla per impedirlo. Non si lincia, non si umilia, non si sodomizza il nemico, anzi l’ex amico diventato improvvisamente nemico, lo si passa per le armi, punto e basta.
E poco importa qui, se parliamo dal punto di vista etico e non politico o giudiziario, che Sarkozy avesse o non avesse interesse a chiudere per sempre la bocca a Gheddafi perché non saltassero fuori gli ingenti finanziamenti con cui il Colonnello aveva foraggiato la campagna elettorale dell’allora aspirante all’Eliseo. E chissà che Sarkozy – se dovesse finire in gattabuia, come merita ma come sicuramente non sarà perché i Vip, in Francia come ovunque, godono sempre di uno statuto speciale, in barba alle sacre e sommamente ipocrite parole della Rivoluzione – non rischi un trattamento simile a quello che toccò a Gheddafi prima di essere ucciso, a opera della teppaglia delle carceri che è comunque meglio di lui.
Da un altro punto di vista Sarkozy rappresenta la commedia di “un uomo ridicolo”. Come ridicoli, in linea di massima, sono i francesi. Con la loro mania di ‘grandeur’. La linea Maginot: e Hitler, aggirandola passando per il Belgio, dopo due mesi passeggiava sugli Champs Elysées. Le hanno prese anche a Dien Bien Phu. Certo sono molto abili, molto più di noi italiani che pur siamo degli specialisti in materia, a trasformare le sconfitte in vittorie. Furono collaborazionisti dei nazisti, molto più di noi che pur ne eravamo alleati. La loro tanto conclamata Resistenza fu, come la nostra, un fatto del tutto marginale in quella grandiosa e tragica epopea che è stata la Seconda guerra mondiale. Ma grazie alla favola convenuta del ‘governo in esilio’ di quell’altro pallone gonfiato, tipicamente francese, che risponde al nome di Charles de Gaulle, hanno potuto sedersi da vincitori al Tavolo della Pace, insieme agli inglesi, agli americani e ai russi che i nazisti li avevano combattuti sul serio.
Io sono nato intellettualmente all’‘Età della ragione’, per usare il titolo del miglior romanzo di Sartre, in piena epoca esistenzialista. L’epoca di Montmartre, di Montparnasse, della ‘rive gauche’, del Dome, della Coupole, delle ‘caves’, di Juliette Greco e, naturalmente, dello stesso Sartre, di Albert Camus (Lo straniero e La Chute), di Maurice Merleau-Ponty. Da loro ho respirato il problema della scelta e della assunzione della sua responsabilità, la rivolta, l’individualismo, l’agnosticismo, tutti concetti che sono ancora ben presenti in me. Ma se riguardo a quei tempi con gli occhi un po’ più maturi di quelli che potevo avere da ragazzo, mi rendo conto che quella cultura era subalterna a quella tedesca e che ci è servita, utilmente servita, per portarci a livelli di conoscenza più alti, a Nietzsche, a Schopenhauer, ad Heidegger.
Certo ci sono state anche altre stagioni straordinarie della cultura francese, quella dei Baudelaire (“L’unica scusante di Dio è di non esistere”), del poeta della rivolta par excellence Arthur Rimbaud, di Verlaine, di Lautréamont (Les chants di Maldoror). Ma erano altri tempi. Adesso dobbiamo confrontarci con altri palloni gonfiati della cultura e della politica francese, a cominciare da Macron il quale potrà esistere e avere un senso finché rimarrà attaccato alla gonna del tailleur, oltre che agli ordini, di Angela Merkel. Heil Angela! E qui mi fermo perché non vorrei essere accusato, e quindi liberalmente messo al gabbio, di criptonazismo. Di questi tempi democratici, molto democratici, democraticissimi, tutto è possibile.

Corriere 30.3.18
I conti con l’antisemitismo nelle scuole tedesche E il governo litiga sull’Islam
Il Consiglio dei musulmani: imam e rabbini nelle classi
di Paolo Valentino


BERLINO In una scuola elementare della capitale tedesca, situata non lontano da una moschea salafista da tempo sotto osservazione delle autorità federali, una bambina ebrea della seconda viene insultata dai alcuni compagni e compagne di classe perché «non crede ad Allah» e per questo «meriterebbe di essere uccisa come tutti gli infedeli». Anche i più grandi si uniscono al mobbing religioso antisemita: «È ebrea», dicono additandola ogni volta che la incrociano.
La cosa va avanti da oltre un anno. Ma solo la scorsa settimana i genitori della bimba si sono decisi a uscire allo scoperto, denunciando la vicenda su un giornale berlinese. Ora è un caso nazionale, punta dell’iceberg di una crescente ondata di antisemitismo nelle scuole registrata un po’ in tutta la Germania. «Ecco come l’islamismo diffonde il suo odio già nelle nostre scuole elementari», titola la Bild , col solito tono allarmista, ma anche con la consapevolezza di interpretare le ansie del Paese profondo.
Non è sicuramente un caso isolato, quello della Paul-Simmel-Grundschule di Berlin-Tempelhof, il quartiere intorno al vecchio aeroporto dove vengono ospitati alcune migliaia di rifugiati e dove le scuole hanno spesso più studenti extracomunitari che tedeschi, soprattutto provenienti da famiglie musulmane. «Gli episodi di razzismo e antisemitismo sono in crescita», dice Soraya Gomis, commissario contro la discriminazione nelle scuole berlinesi. Il Centro di informazione e ricerca sull’antisemitismo di Berlino ha registrato 18 casi nel 2017, quasi il triplo rispetto all’anno precedente.
Ma in realtà la maggioranza degli episodi non viene denunciata, perché le famiglie preferiscono tacere: «Attacchi verbali contro i ragazzi ebrei sono all’ordine del giorno, molti di loro decidono di cambiare scuola e iscriversi ai ginnasi ebraici», spiega Sigmount Königsberg, uno dei capi della comunità berlinese. E il problema va oltre Berlino. Il presidente della Lega degli insegnanti, Heinz-Peter Meidinger, parla di numerosi casi nella Ruhr, a Francoforte, Stoccarda, Dresda. E anche lì, quasi nessuno studente o genitore si decide a denunciarli pubblicamente.
La forte preoccupazione della comunità ebraica viene condivisa dalla politica: «È scandaloso e insopportabile che un bambino ebreo venga minacciato», dice il neo ministro degli Esteri, Heiko Maas. Mentre Michael Müller, borgomastro socialdemocratico della capitale, annuncia «stop, questo è inaccettabile» e promette tolleranza zero.
La responsabile per l’Integrazione del governo federale, Annette Widman-Mauz, annuncia iniziative per coinvolgere obbligatoriamente i genitori musulmani nell’attività scolastica. Si muove anche il Consiglio centrale dei musulmani, che mette a disposizione dieci imam per andare nelle classi insieme ai rabbini a promuovere «dialogo, informazione e rispetto reciproco».
La vicenda della scuola berlinese è un esempio concreto alla base della polemica che da settimane divide il governo e la stessa Cdu-Csu sul ruolo dell’Islam nella società tedesca.
Tutto è cominciato da una frase del ministro dell’Interno, Horst Seehofer, secondo cui «l’Islam non appartiene alla Germania». Ma il leader cristiano-sociale bavarese è stato bacchettato pubblicamente da Angela Merkel, che nella sua dichiarazione programmatica al Bundestag ha ricordato che 4,5 milioni di musulmani vivono nella Repubblica Federale e quindi la loro religione è parte del Paese. «So che qualcuno ha un problema ad accettarlo», ha detto Merkel chiaramente irritata senza nominare il suo ministro. «Seehofer», le hanno gridato dai banchi dell’opposizione.

Corriere 30.3.18
Anniversario
Il Sudafrica ricorda: i primi cent’anni dell’era Mandela
Celebrazioni ed eventi in tutto il Paese per festeggiare il secolo dalla nascita del grande leader. Da Città del Capo a Soweto, 27 percorsi a lui dedicati, uno per ogni anno che passò dietro le sbarre come prigioniero
di Umberto Torelli


Aria di festa in Sudafrica. Il prossimo 18 luglio in tutto il Paese si festeggia una data importante. Sono trascorsi cent’anni dalla nascita di Nelson Mandela. Madiba come lo chiamano qui. Il suo nomignolo all’interno del clan Xhosa, il gruppo etnico di origine bantù in cui era nato. Lui è l’uomo che ha lottato tutta la vita per liberare i neri dalla schiavitù dell’apartheid. La segregazione razziale di fatto presente in Sudafrica dagli inizi del ‘900, poi resa legale dal governo nel 1948. Nelson Mandela venne eletto nel 1994 primo presidente nero del Sudafrica e rimase in carica fino al 1999. Un impegno politico che gli è valso il Premio Nobel per la Pace. La «Nazione Arcobaleno», così si chiama per la varietà di etnie che la compongono, nel corso dei prossimi mesi prevede in suo onore un ricco calendario di eventi. Secondo i dati ufficiali lo scorso anno 61 mila italiani l’hanno visitata, un numero destinato a crescere nel 2018. Quest’anno l’occasione può essere abbinare un viaggio tra mare, natura e safari, con la visita dei luoghi sulle orme di Mandela.
Partiamo dalla punta estrema di Città del Capo, capitale legislativa del Paese, nonché primo insediamento degli olandesi nel 1652 scelto come approdo naturale delle navi dirette alle Indie. Proprio di fronte troviamo Robben Island, «l’isola delle foche» dove Mandela trascorse 18 anni di dura prigionia (dei 27 totali). Già tristemente famosa perché nel secolo precedente era adibita a lebbrosario e manicomio. Oggi si visita in mezza giornata, partendo col traghetto dal Waterfront. Condizioni atmosferiche permettendo occorrono 45 minuti per la traversata.
Chi noleggia l’auto da Cape Town risale per 800 chilometri la costa oceanica sulla Garden Route. Una delle strade panoramiche più suggestive del Paese si snoda tra aree vinicole del sud, spiagge e verdi colline. Un tragitto da compiere in tutto relax in due-tre giorni fino a Port Elisabeth. Qui nella Donkin Reserve trovate la scultura del Voting Line, una gigantesca opera metallica lunga 38 metri. Raffigura il popolo sudafricano che si tiene per mano in occasione delle prime elezioni libere del 1994. La figura di Madiba guida il gruppo col pugno alzato in segno di vittoria.
Risalendo lungo la costa si arriva a Durban. Città cosmopolita con la maggiore concentrazione di indiani del Sudafrica, il più importante centro del KwaZulu Natal con 3,5 milioni di abitanti. Qui convive un felice potpourri di etnie, in cui le influenze della cultura zulu e coloniale si riflettono in architettura e cibo. Con ristoranti del lungomare famosi per specialità fusion e piatti a base di spezie orientali e frutti di mare. Come il l’Oysterbox che sull’Ocean Terrace offre da oltre mezzo secolo un raffinato menu a base di curry. Entrando nelle Midlands, a Howick, troviamo un altro luogo culto della lotta di Mandela. È il «Capture Site» da cui iniziò il suo lungo periodo di detenzione. Lungo la strada nell’agosto del 1962 la polizia fermò l’auto guidata da Nelson camuffato con una divisa da autista. Era latitante da un anno e mezzo e rientrava dal un incontro segreto con i membri dell’Anc, l’African National Congress. Oggi in memoria si erge un’impressionante scultura realizzata da Marco Cianfanelli. È composta da 50 barre di acciaio alte 9 metri. Compongono da lontano il volto di Mandela sorridente che scruta l’orizzonte.
Qui siamo in terra zulu, famosa per i grandi parchi e safari. E non si fa un viaggio in Sudafrica senza passare almeno un paio di giorni tra gli animali in libertà. Hluhluwe Park nel KwaZulu Natal copre un’estensione di 960 chilometri quadrati. Un’immensa riserva naturale realizzata in particolare per la tutela e protezione dei rinoceronti. L’ingresso è limitato a un centinaio di visitatori al giorno, i safari in jeep attrezzate e a piedi si fanno all’alba e tramonto partendo da Rhino Ridge Lodge, unica struttura umana presente nel parco, realizzata in perfetta armonia con l’ambiente. Rispetta nella costruzione e gestione i severi criteri di ecosostenibilità ambientale imposti dal governo. Il prezzo di permanenza in una delle 16 ville affacciate sulle verdi colline del parco parte da 180 euro a persona, inclusi i pasti e due safari ( www.rhinoridge.co.za ).
Johannesburg con oltre 5 milioni di persone è la città più popolosa del Sudafrica e Soweto con metà della popolazione ne rappresenta l’emblema. Parliamo di un’immensa bidonville formata da 48 quartieri autonomi in cui vivono nove etnie. Per assurdo un’area protetta e sicura perché l’ordine viene autogestito dagli stessi abitanti. Al suo interno scoppiò la rivolta del giugno 1976 quando gli studenti neri che protestavano contro la politica segregazionista del National Party furono duramente attaccati dalla polizia. In dieci giorni di sanguinosi scontri si contarono qualche centinaio di morti. Poco lontano si trova l’8115 Vilakazi Orlando West, l’indirizzo più famoso di Soweto dove si trova la casa in cui visse per 14 anni Mandela. Diventata oggi museo della memoria con intatti i reperti della sua permanenza. Curioso il fatto che questa è l’unica strada al mondo che ha avuto come residenti due premi Nobel per la pace, visto che ci abitò anche l’arcivescovo Desmond Tutu ( www.mandelahouse.org ).
Per l’ingresso in Sudafrica non è richiesto visto, né alcuna vaccinazione. La «Nazione Arcobaleno» è collegata con il nostro Paese con diverse compagnie aeree. Dalla tedesca Lufthansa a Klm, da Air France a Swiss Air con partenza da Zurigo. Decisamente interessante il nuovo volo diretto Alitalia, ripristinato da metà aprile dopo la soppressione del 2001. Molto comodo perché si parte la sera da Roma e la mattina alle 8.20, dopo 10 ore di volo, farete la prima colazione a Johannesburg. Buono il prezzo. L’offerta vale quattro giorni la settimana a partire da 525 euro. Sconsigliate invece le compagnie di Emirati e Qatar, perché allungano il volo con ore indesiderate di stopover negli aeroporti del Golfo Persico.
Le informazioni sui luoghi che hanno visto Mandela protagonista le trovate raccolte nell’App Madiba’s Journey, sviluppata dal South African Tourism in collaborazione con la Nelson Mandela Foundation. Sono 27 percorsi, uno per ogni anno passato dietro le sbarre come prigioniero (www.southafrica.net). L’applicazione in lingua italiana per dispositivi Android e Apple, consente di costruire itinerari personalizzati da condividere sui social e offre anche una ricca serie di informazioni aggiuntive sulla sua vita. Madiba morì il 5 dicembre 2013 a Johannesburg. Aveva 95 anni.

La Stampa 30.3.18
E Carlo Alberto “liberò” gli ebrei
170 anni fa il decreto che estendeva i diritti civili ai non cattolici
di Elena Loewenthal


Quest’anno la Pasqua avrà un sapore particolare per gli ebrei del Piemonte. Nei giorni intermedi della settimana di festa, se nella piccola sinagoga torinese dove un tempo c’era il forno per le azzime capiterà di rivolgere uno sguardo all’armadio santo - che contiene i rotoli della Torah - dipinto di nero in segno di lutto accorato per la morte di re Carlo Alberto, lo si farà con pizzico di malinconia tutta particolare e una gratitudine indimenticabile.
Perché proprio cento e settant’anni fa - il 29 marzo 1848 - il sovrano piemontese firmò sul campo di battaglia di Voghera un decreto col quale concedeva tutti i diritti civili agli ebrei e agli altri «acattolici», aprendo quel processo di emancipazione che fu fondamentale non soltanto per i figli d’Israele - e fra gli altri anche per i Valdesi del Piemonte - ma prima ancora per la civiltà. Fino a quello storico momento e per quasi duemila anni, infatti, gli ebrei avevano vissuto rinchiusi dentro un’emarginazione fisica e teologica: erano i «perfidi giudei», cioè gli infedeli per eccellenza, erano l’unico «diverso» dentro una società europea perfettamente uniforme. Ma in quanto testimoni viventi della passione di Gesù e del messaggio cristiano andavano preservati come una sorta di reperto archeologico a vista. In questo equilibrio fra colpa e sopravvivenza a uso teologico gli ebrei erano stati sempre sottoposti a una ricca serie di divieti e privazioni e trattati non da cittadini ma da stranieri spregevoli, anche se come nel caso del nostro Paese potevano vantare una continuità e delle radici millenarie.
Con la firma di Carlo Alberto, che da quel giorno in poi fu per gli ebrei piemontesi un vero e proprio idolo - con tutto il rispetto per il rigoroso monoteismo biblico - gli ebrei divennero «come gli altri» pur nella loro diversità. E se oggi la parità di diritti civili è giustamente un dogma della democrazia, bisogna pensare che a quel tempo rappresentò un passo sorprendente.
E Carlo Alberto diede prova di una straordinaria lungimiranza, degna di un grande sovrano, pur senza derogare al rinomato (mai abbastanza rinomato, a dire il vero) understatement piemontese: «Sulla proposta del nostro Ministro Segretario di Stato per gli affari dell’Interno, abbiamo ordinato ed ordiniamo: Gli Israeliti regnicoli godranno, dalla data del presente, di tutti i diritti civili e della facoltà di conseguire i gradi accademici. Nulla è innovato quanto all’esercizio del loro culto ed alle scuole da essi dirette. Deroghiamo alle leggi contrarie al presente». In questo scarno frasario del Regio Decreto del 29 marzo del 1848 sta racchiusa quella rivoluzione epocale che ha reso gli ebrei dei veri italiani. Anche se esattamente novant’anni dopo di allora il regime fascista emanava quelle infami leggi razziali cui i figli d’Israele guardarono innanzitutto con sgomenta incredulità.
La storia è molto spesso capace di stupire, nel male come allora. Nel bene di coincidenze che paiono costruite a tavolino, con mano sapiente e cuore partecipe. Proprio come la doppia ricorrenza di questi giorni, in cui i figli d’Israele celebrano, ricordano ma soprattutto si immedesimano nell’avventura della conquista della libertà. Perché soprattutto questo è il Pesach, cioè la Pasqua: «passaggio», come dice la parola ebraica, dalla schiavitù d’Egitto all’autodeterminazione nel deserto, al di là del Mar Rosso. Non un mero transito bensì una vera e propria trasfigurazione, perché quando arriva dopo tanto tempo e tanta fatica e non meno sofferenza, la libertà ti cambia.

Repubblica 30.3.18
L’autobiografia del leader degli Iron Maiden
Quando il rock va alla guerra
di Bruce Dickinson


Bruce Dickinson, leader della band heavy metal Iron Maiden, pubblica la storia della sua vita. E ricorda quando nel 1994 sotto le bombe riuscì ad arrivare a Sarajevo per un concerto che tutti cercarono di ostacolare
Il telefono di casa squillò.
«Ti va un concerto a Sarajevo?».
«Non si sparano addosso sul serio, da quelle parti?».
«Oh, sì, ma è una cosa organizzata dalle Nazioni Unite, sarai assolutamente protetto, è tutto organizzato». Non eravamo protetti, non c’era alcuna organizzazione e i proiettili erano veri, ma chi se ne fotte, andammo lo stesso. I Metallica e i Motörhead a quanto pare rifiutarono, e non mi stupisce, perché se fossi stato il loro manager avrei fatto lo stesso. Ma al mio non lo dissi.
(…) Il piano era di arrivare a Spalato, indossare giubbotti antiproiettile e caschi blu delle Nazioni Unite, salire su un elicottero Sea King, volare a Sarajevo, suonare e tornare indietro. Missione compiuta. Riuscimmo ad arrivare a Spalato, e vidi i caschi e i giubbotti impilati in un angolo dell’atrio degli arrivi. Un certo colonnello Green ci venne incontro e no, non era una partita di Cluedo. «Siete i ragazzi della band inglese?» chiese.
Era una delle domande più ovvie che mi avessero mai fatto. Annuii.
«Be’, mi dispiace, dovete tornare a casa. Ecco le vostre carte d’imbarco». Ci allungò i biglietti di ritorno, saremmo tornati indietro con lo stesso velivolo che ci aveva portati fino a lì. «E che succede se non partiamo?» chiesi.
«Il prossimo volo è tra una settimana» rispose il colonnello.
«In ogni caso, non abbiamo elicotteri liberi e il tempo è brutto. In più, le Nazioni Unite l’hanno saputo e Akashi non vuole indispettire i serbi».
(…) Un cameraman di una troupe della Reuters piazzata in un angolo dell’atrio degli arrivi si avvicinò. «Sono bosniaco.
È una stronzata, vi portiamo noi in città» disse. A rischio di perdere eventuali coperture assicurative sulla vita osai chiedere altre informazioni: «Continua». «C’è un tunnel, un passaggio segreto.
Possiamo farvi entrare. È così che portiamo i rifornimenti in città».
«Okay» risposi, mentre facevo girare piano le rotelle nel cervello.
(…) Avevamo un paio di bacchette da batteria, una chitarra acustica e la mia voce, così iniziammo a suonare per strada, con Alex Elena, il nostro batterista italiano, che picchiava sul muro sporco di fuliggine. Fu un momento un po’ strano perché ci rendemmo conto che molti di quei bambini non avevano mai visto né toccato una chitarra, e ne erano rimasti incantati. «Ehi!» urlò Alex, «battete tutti le mani, forza!».
E iniziò a battere le mani con entusiasmo. In un momento, che è ancora inciso nella mia mente, uno dei ragazzi più grandi saltò su e cominciò a battere le mani — rat-tat-tat — verso il gruppo di bambini più vicino a lui, e questi caddero come morti. Il suono delle mani che battevano era un suono di morte, il suono dei cecchini e delle mitragliatrici. Anche il gruppo seguente si lasciò cadere, finché anche i bambini più piccoli si sdraiarono a terra con le membra scomposte, immobili nell’attimo della morte.
Ci fermammo, sbalorditi, mentre i bambini si rialzavano e scoppiavano a ridere. Mi colpì che una cosa così piccola come battere le mani potesse essere travisata e distorta dalla realtà crudele di una zona di guerra.
(…) Il concerto fu immenso, intenso e probabilmente lo spettacolo più bello del mondo, per noi e per il pubblico. Il fatto che il mondo non lo sapesse non ci importava.
Tornati nei nostri quartieri oscurati dal nastro adesivo, bevemmo birra con il contingente delle Nazioni Unite, per lo più composto di soldati britannici, più alcuni norvegesi che parlavano tutti con un accento scozzese, chissà perché. Chiesi a un giovane ufficiale del Reggimento Paracadutisti come ci si sentisse a essere sotto assedio. «È noiosissimo, cazzo» disse.
«Sinceramente, mi piacerebbe andare su per la montagna e ammazzarli tutti, quei bastardi.
Sono dei vigliacchi».
(…) L’unico elicottero disponibile ci portò via, stile Apocalypse Now, con mitragliatrici a nastro che spuntavano dalle fiancate.
Attraversammo poi la terra di nessuno a bordo di alcune Land Rover fino alla strada che circondava l’aeroporto e al checkpoint serbo, che era diretto da una soldatessa stile Rosa Klebb, conosciuta localmente come la stronza infernale. Lungo la strada, in un fossato, vidi un carro armato russo bruciato, e in un altro dei miei stupidi atti di incoscienza feci fermare la Land Rover, uscii nel bel mezzo della terra di nessuno e feci quello che ora si chiamerebbe un selfie. «Ti è andata bene» commentò l’autista.
«L’ultimo che ha fatto una cosa del genere si è preso una pallottola».
Ci avevano detto di non guardare troppo da vicino la stronza infernale: da lontano sembrava abbastanza attraente, ma quando ti avvicinavi ti accorgevi che il trucco nascondeva quel tipo di cicatrice che ci si può procurare baciando una bomba a mano.
Secondo Trevor non è più su questa terra, perché è stata uccisa in un bombardamento.
Era implicata nell’omicidio e nella tortura di numerose famiglie.
Accostammo di fronte a lei, al checkpoint. Non guardare in faccia la Gorgone, mi dissi, ma mi misi immediatamente a fissare la cicatrice. La cogliemmo di sorpresa. «Da dove venite?» chiese. «Sarajevo». «Perché eravate lì?». «Ehi, avevamo un concerto. Siamo un gruppo rock.» «Sarajevo è un posto pericoloso, non tornate più».

Il Fatto 30.3.18
Travaglio, Lucarelli & C.
Arriva “È la stampa, bellezza”, il nuovo numero di MicroMega


MicroMega dedica il terzo numero dell’anno al giornalismo per discutere del ruolo e dell’etica di quello che è a tutti gli effetti il quarto potere delle democrazie contemporanee. Nell’epoca delle fake news e della post-verità, una riflessione sullo stato di salute dell’informazione e sulla sua capacità di svolgere ancora oggi il compito di critica radicale del potere.
Il tema dell’indipendenza e della sovranità dei fatti rappresenta il filo conduttore del volume: Luciana Castellina e Ferruccio de Bortoli, seguiti da Maurizio Molinari e Marco Travaglio, mettono a fuoco il rapporto fra militanza e imparzialità domandandosi come sottrarsi al controllo di interessi economici o partitici ed evitare forme di propaganda, mentre Enrico Mentana e Marco Damilano discutono dell’uso politico del giornalismo. Marco Lillo e Carlo Bonini presentano le sfide del giornalismo giudiziario e denunciano le difficoltà in cui versa negli ultimi tempi; con Stefano Cingolani e Giorgio Meletti è il giornalismo economico a esser tema di dibattito, mentre Selvaggia Lucarelli si concentra sulla rubrica della posta del cuore.

Repubblica 30.3.18
Aldo Moro. Cronache di un sequestro / 4
“Nel carcere del popolo”
Il presidente della Democrazia cristiana passa la prima notte in cella. I brigatisti, reduci dalla strage di Via Fani, siedono in cucina. Uno di loro batte a macchina parole come “ gerarca”, “ imperialista”, “ processo”. È il comunicato numero uno. Che si abbatte su un Paese in cui c’è anche chi incomincia a dire “né con lo Stato né con le Br”
di Ezio Mauro


È stato un macello. Noi stiamo tutti bene, ma è stato un macello». Valerio Morucci è appena rientrato nell’“ufficio” di via Chiabrera, dall’agguato di via Fani, dopo aver lasciato l’ostaggio sull’auto guidata da Moretti verso la “ base”, perché nessun brigatista oltre ai quattro carcerieri deve conoscere il luogo della prigione. La televisione mostra la scena fissa del massacro, l’Alfetta della scorta piena di colpi, gli agenti riversi all’interno, la 132 con le portiere spalancate, i due carabinieri morti e il parabrezza attraversato da un proiettile, i giornali sparsi a coprire il corpo di Raffaele Iozzino, a terra nel sangue. Non c’è l’audio, perché Adriana Faranda ascolta le radio della polizia e dei carabinieri, dove crepitano i messaggi delle pattuglie, gli aggiornamenti delle volanti, l’orrore della giornata trasformato in ordini e in messaggi. «Volevo farmi raccontare tutto – dice oggi Faranda –, non riuscii a chiedere niente. Lui tornò sconvolto, ripeteva soltanto quella parola: un macello».
Sconvolto da una strage preordinata, organizzata, cui ha appena partecipato, e che sta sconvolgendo l’Italia. Andreotti riunisce subito nel suo ufficio a palazzo Chigi i segretari dei partiti che sostengono il suo governo, Zaccagnini, Berlinguer, Craxi, Romita, Biasini, una specie di gabinetto d’emergenza, anche se tutti sono d’accordo a evitare leggi speciali. Si guarda soprattutto all’azione di polizia, il quartiere Trionfale, la Balduina, Belsito vengono setacciati strada per strada, si ispezionano i garage e i magazzini al piano terra, bersaglieri e granatieri affiancano gli agenti, arriva un primo contingente di mille uomini.
Ma i brigatisti si sono dissolti. Dopo i tre minuti del massacro, hanno lasciato la scena della morte, hanno spostato due volte l’ostaggio da un’auto a un furgone a un’altra auto, e adesso si sono separati disperdendosi nella città sulle macchine rubate che li aspettavano in zona, con le targhe e i documenti contraffatti. Chi è venuto da fuori città, per dar man forte alla colonna romana, è già ripartito, Bonisoli è appena salito sul treno che lo riporterà a Milano, da dove si muoverà solo per le riunioni dell’esecutivo Br, in una casa alle porte di Firenze, ogni volta che c’è da prendere una decisione strategica nei 55 giorni. Dall’altra parte della città, Aldo Moro sente chiudersi la porta di legno della cella sulla sua prima notte da prigioniero.
È solo, sdraiato sulla brandina, con il braccio destro sulla fronte, come lo vede Anna Laura Braghetti dallo spioncino: il prigioniero non incontrerà mai la padrona della casa che nasconde il covo, lei lo osserverà ogni sera quando torna dall’ufficio all’Eur, esce dalla sua identità convenzionale di impiegata, entra nella sua seconda vita di terrorista “ irregolare”. Stasera lo guarda a lungo, prima immobile, poi voltato di fianco, quindi di nuovo con la mano sulla testa, come a sorreggere i pensieri. Ha visto una scena terrificante. Le raffiche del mitra, la pioggia di colpi, il sangue dovunque quando ha aperto gli occhi rialzando il capo, l’auto che sbatte davanti e dietro e non riesce a scappare, l’autista freddato davanti a lui e il maresciallo Leonardi, con cui si è sempre sentito sicuro, fulminato proprio mentre si volta all’indietro per proteggerlo, urlando qualcosa. Poi quella mano che entra nell’auto, lo afferra per il braccio, lo tira giù, un’altra mano gli china la testa, lo spingono a forza dentro un’automobile.
Ha capito subito, più che capire è entrato di colpo dentro quello scenario che temeva da tempo, ma allontanava nel pensiero. La visita del Capo della Polizia Parlato nel suo studio, il pomeriggio prima dell’agguato, la moglie che insisteva per l’auto blindata, tutti quegli avversari sparsi che potevano diventare nemici, ma soprattutto il terrorismo brigatista che alzava il tiro ogni giorno e lui, certo, era tra i bersagli naturali quello più simbolico.
Tutte queste ombre prendono corpo nella luce notturna della prigione, insieme con l’angoscia per la famiglia. Poi si fa strada il bisogno di capire, decifrare, almeno intuire: per poter studiare una strategia, impostare un calcolo, inventare una teoria che guidi l’azione prigioniera. Come ha sempre fatto, anche se adesso scopre che la vita non è come la politica. L’unica cosa libera è la mente, che incomincia a organizzare le nozioni frammentarie di una giornata in cui è esploso l’ordine disciplinato della sua esistenza. Ciò che ha visto, ciò che ha subito, quel che ha percepito. Quel che si può solo ipotizzare.
Quanti sono? Due lo hanno preso, un terzo guidava. Altri hanno sparato, non ha visto, tutto è avvenuto troppo in fretta, una furia di fuoco. Il viaggio al buio gli è sembrato lungo, forse più di mezz’ora, magari lo hanno portato fuori Roma. La cassa che lo rinchiudeva dev’essere stata trasportata da almeno due persone. Hanno salito le scale in silenzio: una rampa, un pianerottolo, un’altra rampa. Gli hanno fatto cambiare i vestiti, dunque la prigionia sarà lunga. L’uomo che gli parla non ha accento, è deciso, sembra un capo. Se ha il cappuccio è perché ha paura di essere riconosciuto, dopo: dunque pensano che ci sia un dopo, oltre la prigionia. Poi c’è un altro carceriere che viene col vassoio per la cena senza parlare, e sotto il piatto c’è una tovaglietta di rafia, come se in casa ci fosse una donna, magari quella che stasera ha preparato il minestrone. Adesso non si sentono rumori, la casa è silenziosa. Cosa staranno facendo, oltre quella porta, cosa lo aspetta domani?
I brigatisti sono seduti in cucina, hanno finito l’analisi militare dell’azione, quei mitra inceppati, il poliziotto che è uscito sparando, Bonisoli che è riuscito subito a colpirlo, Moretti che ha tardato a scendere dalla 128 familiare perché doveva bloccare con la sua auto la 130 mentre cercava una via di fuga, l’azione che secondo i calcoli doveva durare un minuto di meno, quell’uomo che aspettava l’autobus alla fermata di via Fani ma è scappato subito, qualcuno che si è affacciato al balcone ma è stato ricacciato in casa da una sventagliata di mitra.
Poi, di fronte all’enormità dell’operazione, i carcerieri scoprono la fragilità della loro “base”, quasi la città la cingesse d’assedio. Hanno Moro in cella, ma è come se la città imprigionasse la prigione, tutt’attorno. Tutti li cercano, sono protetti soltanto dalla finzione della normalità in cui si camuffano, dalla banalità quotidiana di un condominio, dalla regolarità indifferente della periferia, dall’anonimato di un appartamento al primo piano, dall’odore ordinario di minestra all’ora di cena.
È la prima notte, Moro è in casa loro. Si guardano attorno, vedono la vulnerabilità di tre finestroni, di due ingressi, di una difesa minima in caso di attacco della polizia, con un gruppo di fuoco composto da tre persone (se Moretti è in casa), più la Braghetti che tiene la pistola sul comodino, ma non ha mai sparato un colpo, si esercita ogni tanto premendo il grilletto a vuoto, per provare.
Decidono di fare i turni di guardia la notte, partendo da stanotte. Moretti e Braghetti dormiranno nella camera da letto, Maccari sul divano in salotto, Gallinari si è già seduto nello studio per il primo turno con il mitra in mano, davanti alla parete che nasconde la cella. Domani, Moretti passerà dal prigioniero poi andrà all’“ ufficio” con una busta arancione in tasca, per consegnarla a Valerio Morucci e Adriana Faranda con le istruzioni per l’uso. Dentro, ha infilato la Polaroid di Moro in mano alle Br, ritagliata di 2,4 centimetri in larghezza e 1,3 in altezza, per cancellare il codice di identificazione stampigliato di fianco. Ma insieme con la foto, nella busta c’è il “comunicato numero 1” delle Br, con quel marchio nel cerchio, la stella a cinque punte.
Lo ha scritto Moretti nel pomeriggio, con addosso ancora il sudore freddo dell’agguato, del sequestro, della fuga, come se il volantino facesse parte dell’azione, la completasse spiegandola, perché senza la cornice ideologica resta imperfetta. Quando il prigioniero è rimasto solo nella cella, lui si è seduto al tavolo di formica marrone della cucina, e ha firmato la rivendicazione, per renderla pubblica insieme con la prova fotografica del sequestro brigatista. In una cucina- tinello di via Montalcini, tra i pensili con le pentole e il lavandino, dietro le tende chiuse, prende così corpo il disegno terroristico preparato nei covi da mesi, la teoria dell’azione. Il testo è stato concordato nell’ultima riunione dell’Esecutivo, Moretti può scriverlo personalmente a nome dell’organizzazione, senza bisogno di nuove verifiche, ha carta bianca.
In quel primo documento, dopo la rivendicazione della strage della scorta, “ completamente annientata”, c’è già l’annuncio pubblico del “processo” a cui Moro verrà sottoposto e c’è la traccia del percorso tragico che porterà all’uccisione dell’ostaggio. Moro, dice infatti la prima riga, è in un “carcere del popolo”. Dunque la legittimità è subito e definitivamente rovesciata. È stato catturato perché «è il gerarca più autorevole, il teorico e lo stratega di quel regime democristiano che da trent’anni opprime il popolo italiano, ed è l’esecutore più fedele delle direttive impartite dalle centrali imperialiste ».
L’accusa ideologica è senza rimedio e contiene in sé la condanna: i vecchi Stati liberali si stanno trasformando in Stati imperialisti delle multinazionali, cinghia di trasmissione degli interessi del grande capitale mondiale. In Italia la Dc «è la forza centrale della gestione imperialistica dello Stato, è il polo politico della controrivoluzione ». Bisogna dunque «estendere il processo al regime stanando dai covi democristiani gli agenti controrivoluzionari » , bisogna «braccarli ovunque, non concedere loro tregua».
In questa gabbia ideologica, dove il potere è un blocco unico, e si muove per cerchi concentrici concatenati, Moro è non solo recluso ma condannato fin dal primo giorno, anzi è stato preso per essere condannato, perché l’atto d’accusa è talmente totale e definitivo da coincidere con la sentenza. Il prigioniero è stato sequestrato perché impersona l’ultimo anello perfetto di una catena che parte dalle manovre del capitale multinazionale, s’incentra sul Sim, lo Stato imperialista delle multinazionali, ristruttura il sistema italiano di potere attraverso la Dc, che ha come demiurgo di questa operazione proprio Moro.
Su Moro si scarica dunque al contrario l’intera costruzione di questa piramide ideologica, secondo le Br è lui che porta integrale il peso degli errori della Dc e, risalendo alla rovescia, la colpa dei misfatti dei governi italiani, la responsabilità delle manovre del Sim, la macchia dei piani della controrivoluzione imperialista mondiale. Nei pochi metri quadrati di una cucina del quartiere Portuense, precipita così un capo d’imputazione universale. Il groviglio di simboli sovrasta il leader, annienta il politico, cancella l’uomo, che pro va a dormire qualche ora nella sua cella. Mentre un sedicente “Tribunale del popolo” annuncia il “processo”, oltre quella parete, l’imputato non ha scampo.
La fotografia di Moro e la rivendicazione dell’agguato trovano un Paese sbandato, che brancola nel buio. Una commessa di Cardia, il negozio di via Firenze, riconosce in Adriana Faranda la donna che ha comprato le divise da aviere di via Fani. Circolano identikit, la televisione trasmette un elenco di sospetti terroristi, il ministro dell’Interno Cossiga insedia due comitati di crisi che risulteranno pieni di nomi iscritti nelle liste della loggia massonica P2 di Licio Gelli. Il Pci parla di “complotto internazionale”, le bandiere rosse e bianche si affiancano nelle piazze per le manifestazioni anche se negli ambienti intellettuali di sinistra si fa strada lo slogan «né con lo Stato, né con le Br » . « Scambiereste Moro con Curcio? » , chiede Giampaolo Pansa ai deputati che affollano il Parlamento, sempre più cuore ferito di uno Stato sotto attacco: anticipando con quella domanda il dilemma dei 55 giorni.
A Milano due studenti di 19 anni, Fausto e Iaio, vengono uccisi vicino al circolo Leoncavallo, una sigla di estrema destra rivendica l’omicidio, che rimarrà senza colpevoli, a Roma lo Stato si raduna nella basilica di San Lorenzo per i funerali dei cinque uomini della scorta di Moro. « Hanno servito la patria » , dice l’ordinario militare durante la messa. Ma si sentono le urla della madre di Zizzi: « Franco, amore mio, dimmi qualche cosa», il pianto di Cinzia, la figlia di Leonardi che si divincola dai carabinieri per singhiozzare sulla bara, il lamento della madre di Iozzino che non vuole tornare nei banchi: «Lui sta lì, perché io non posso stare qui?».
Continuano le perquisizioni, c’è l’ordine di aprire sfondando le case sospette, ma quando una pattuglia arriva in via Gradoli 96, davanti al covo dove abitano Mario Moretti e Barbara Balzerani, si ferma davanti alla porta chiusa dell’interno 11, dietro la quale nessuno risponde.
È una domenica delle Palme cupa, il 19 quando Paolo VI, amico personale di Moro dagli anni dell’Azione cattolica, prega alla finestra di piazza San Pietro « per l’onorevole Moro, a noi caro, sequestrato in un vile agguato, perché sia restituito a noi al più presto » . Scattano le nuove norme antiterrorismo, che portano a trent’anni la pena per i sequestri di persona e prevedono l’ergastolo se l’ostaggio muore. Ma a Torino vengono trovati otto volantini firmati Brigate Rosse alla verniciatura e alla carrozzeria di Mirafiori, a Genova la sezione “Gramsci” del Pci non rinnova la tessera a sei iscritti, dopo che il collettivo operaio portuale ha firmato un volantino che dice «né Stato né Br».
A Roma Morucci e Faranda sono già arrivati in una copisteria vicina a piazzale Belle Arti per fotocopiare il comunicato numero 1, lo porteranno in largo Argentina per lasciarlo nel sottopassaggio, insieme con la foto del prigioniero che rimbalza nelle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, mentre i periti della Procura escludono che sia un fotomontaggio e stabiliscono che l’ostaggio era a una distanza di un metro e quaranta dall’obiettivo. L’analisi del volantino rivela che è stato scritto con una macchina elettrica da un tastierista abile, forse straniero come suggeriscono le spaziature, di buon livello culturale, approssimativo quando parla del governo, perché scrive che appoggiano Andreotti tutti i partiti dell’arco costituzionale, mentre in realtà sono solo cinque.
La folla si è portata la radiolina sul traguardo della Milano-Sanremo, per restare collegata con l’emergenza, vince Roger De Vlaeminck che copre i 282 chilometri in 6 ore, 47 minuti e 34 secondi, ma un cartello sul Capo Mele diceva: «Io prego». È tornato a correre sulla pista di San Siro Sirlad, il cavallo più forte del mondo che da nove mesi soffriva di solitudine, la Fiat annuncia che si chiamerà Ritmo la nuova 138 battezzata al 57° Salone di Torino, le azioni Montedison si svalutano da 500 a 175 lire, Paolo Rossi resterà un altro anno a Vicenza grazie all’azionariato popolare dei tifosi, sei preti a Matera si dimettono dalla Chiesa «per radicarsi nelle lotte operaie».
Ma la vera notizia in un Paese stordito è che i terroristi hanno bucato la rete dei diecimila uomini che presidiano Roma, tornando con una delle auto usate nella fuga da via Fani – una 128 blu – vicino alla strada dell’agguato, in via Licinio Calvo, proprio dove due giorni fa avevano abbandonato la 128 bianca usata nell’azione del sequestro. Sembrano muoversi come vogliono, attenti ai luoghi emblematici, agli obiettivi simbolici, a usare la sorpresa come una beffa, la beffa come una forza. Quei volantini uguali che compaiono in quattro città. Quel santuario di via Fani dove tutta Roma porta i suoi fiori. Quel processo che i capi storici rifiutano a Torino. «È nelle nostre mani – urla alla quinta udienza Renato Curcio, aggrappandosi alle sbarre nell’aula bunker –: Il vero processo si sta facendo altrove, e sarà molto serio».
In quell’“altrove” di 100 metri quadrati stasera Prospero Gallinari sta lavando la prima camicia del prigioniero: se ne occupa lui, sempre, nella casa non c’è la lavatrice, tutto viene portato in una lavanderia automatica, salvo i vestiti dell’ostaggio, lavati a mano e stesi per sicurezza nel bagno di servizio. Se si passa oggi in via Montalcini, quarant’anni dopo, sembra di vedere dalla finestra la stessa luce prigioniera delle notti del sequestro. In salotto Moretti prova il registratore: domani comincia l’interrogatorio, si apre il processo.

Il Fatto 30.3.18
Le Br e la “strategia delle lettere” per beffare lo Stato
di Miguel Gotor


Come uno sparo nel buio: così risuonarono, dopo tredici interminabili giorni di silenzio, le prime tre lettere di Aldo Moro recapitate dalle Brigate rosse il 29 marzo 1978. La prima era indirizzata alla moglie Eleonora, la seconda al ministro degli Interni Francesco Cossiga e la terza a Nicola Rana, capo della segreteria politica di Moro.
Nella tarda serata, i brigatisti fecero ritrovare un comunicato, cui allegarono la fotocopia della lettera a Cossiga (solo quella) che pervenne contemporaneamente alle redazioni di alcuni giornali di Roma, Milano, Genova e Torino, dando così prova di un imponente coordinamento e dispiegamento di forze che rivelava una logistica e una organizzazione ramificate a livello nazionale.
Queste tre lettere sono importanti, anzi decisive, per diversi motivi in quanto costituirono il momento genetico della complessa “operazione Moro” e, come una prima cellula cancerogena, ne preannunciarono lo svolgimento futuro e l’esito finale.
Sul piano della “propaganda armata” e della battaglia comunicativa determinarono i successivi orientamenti dell’opinione pubblica italiana concorrendo a formare l’immagine del prigioniero che occupò lo spazio mediatico in quei 55 giorni. I sequestratori dispiegarono una micidiale strategia differenziata dei recapiti che divenne parte integrante della loro azione terroristica. In un primo momento inviarono le tre lettere in originale a Rana così da potere saggiare il comportamento dei destinatari, ma subito dopo stabilirono di divulgarne una sola (quella a Cossiga), decidendo così loro quanto doveva restare segreto e quanto essere offerto in pasto all’opinione pubblica. In questo modo, costrinsero da subito il governo all’inseguimento e i famigliari del rapito ad acconciarsi ai tempi e ai modi della loro strategia comunicativa.
In secondo luogo, sul piano della lotta politica visibile, le due lettere a Cossiga e a Rana (che vanno lette insieme come un’unica missiva) innescarono la dimensione spionistico-informativa del sequestro. Il prigioniero, infatti, spiegava che era in gioco la ragione di Stato, che si trovava “sotto un dominio pieno ed incontrollato”, che era sottoposto a un “processo popolare” e che poteva “essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni”.
In terzo luogo, con queste due lettere i brigatisti lasciarono che Moro indossasse direttamente i panni del capo del fronte della trattativa così da potere loro conservare uno spazio di autonomia e di libertà di manovra e di smentita. L’ostaggio, infatti, propose un esplicito scambio di prigionieri a condizione però che la trattativa rimanesse segreta. Bisognava quindi limitarsi a informare il capo dello Stato Giovanni Leone, il presidente del consiglio Giulio Andreotti “e pochi qualificati capi politici” che è facile immaginare rispondessero alle figure di Enrico Berlinguer, Bettino Craxi, Ugo La Malfa e forse Amintore Fanfani. Inoltre Moro indicava con chiarezza a chi rivolgersi per favorire il negoziato, ossia alla Santa Sede, essendo ben consapevole di come quel sentiero extra-territoriale avesse per secoli svolto un delicato ruolo di intermediazione tra i governanti della penisola e di compensazione dei conflitti fazionari.
Infine, il comportamento adottato dai sequestratori con queste due missive mostra oggi come allora che i brigatisti in realtà erano ben interessati ad avviare una trattativa segreta che a parole negavano perché “nulla doveva essere nascosto al popolo”. Non si tratta di illazioni, ma di una semplice analisi delle loro effettive azioni, tutte efficaci e razionali. I brigatisti, infatti, dopo avere consegnato riservatamente le due lettere e avere garantito al prigioniero che il loro contenuto non sarebbe stato reso pubblico decisero di divulgare quella indirizzata a Cossiga. Oggi sappiamo che contemporaneamente fecero credere al prigioniero che non erano state loro a violare i patti, ma il ministro dell’Interno cui Moro rivolse una seconda lettera di rimprovero, scritta intorno al 4-5 aprile, che si guardarono bene dal recapitare, ritrovata soltanto nell’ottobre 1978 come dattiloscritto e in fotocopia autografa addirittura nell’ottobre 1990. In questo modo i brigatisti nel loro comunicato serale non persero l’occasione per farsi beffe di Moro, di Cossiga e della Dc e di conquistare punti davanti all’opinione pubblica italiana sostenendo che “le manovre occulte sono la normalità per la mafia democristiana”. Allo stesso tempo, però, vollero tutelare la riservatezza della seconda missiva, quella indirizzata a Rana, il cui contenuto rimase segreto per loro scelta.
Il contenuto di questa lettera era sostanzialmente identico a quello della missiva a Cossiga ma con una preziosa novità: Moro, infatti, individuava nella portineria dell’abitazione privata del suo collaboratore il luogo da utilizzare per far pervenire dei messaggi riservati dall’esterno all’interno della prigione e viceversa e invitava Cossiga a difendere la segretezza di questo canale di ritorno. Così facendo i brigatisti dimostravano all’antiterrorismo e agli uomini politici più avveduti che proprio quella era la preziosa informazione che essi volevano salvaguardare per futuri ed eventuali utilizzi. Che insomma, un conto erano le parole dette al popolo, un altro le loro effettive intenzioni che spietatamente avrebbero perseguito.
Non a caso, tre giorni dopo il recapito di questa missiva rimasta segreta iniziò la vera partita, giocata mediante una serie interminabile di finte e controfinte, che avrebbe previsto l’avvio di un doppio e intrecciato canale, riservato (primo livello, con l’“iniziativa” socialista/Franco Piperno) e segreto (secondo livello, con il “negoziato” Vaticano) e che avrebbe coinvolto proprio la Santa Sede nella persona di Paolo VI e la famiglia pontificia lungo l’esile ma tagliante filo della ragion di Stato. Una dottrina di matrice cattolica, realistica, serissima e feroce, che già Benedetto Croce aveva definito “un Dio ascoso”: dunque non stupisce che avrebbe coinvolto persino lo spirito di Giorgio La Pira, che sarebbe stato interrogato nel corso di una seduta spiritica il 2 aprile 1978 e di seguito certamente invocato da Moro in una lettera d’addio non recapitata con un enigmatico “spero mi aiuti in altro modo”, di cui però parleremo la prossima volta. E già, in altro modo.
3 – continua