Repubblica 27.3.18
Salvini, il colle e quei segnali verso la Russia
di Stefano Folli
Esistono
indizi che illuminano angoli in apparenza secondari del problema. La
domanda che molti si pongono è se Salvini e Di Maio, ciascuno nel
proprio ambito, non stiano già rinfoderando le bandiere sventolate in
campagna elettorale. Ma gli indizi, appunto, dicono il contrario. Ieri
Salvini, dei due senz’altro il più dinamico, ha polemizzato con il
governo Gentiloni per la decisione di espellere due diplomatici russi
nell’ambito della ritorsione europea dopo l’affare Skripal.
Si è
capito che un esecutivo in cui la Lega avesse ruoli di primo piano non
seguirebbe l’Unione su questa strada e non farebbe nulla per accrescere
la tensione con la Russia di Putin. Il segnale è chiaro e tocca un
aspetto cruciale della politica estera italiana in un momento di crisi
internazionale. Giorni fa Salvini è stato ricevuto dall’ambasciatore
americano e al termine ha dichiarato di riconoscersi nella linea del
presidente Trump (“America first”), tradotta dalla Lega come “prima gli
italiani”. Questo non vuol dire che il nuovo centrodestra intenda
ricalcare tutte le mosse di Trump, tuttavia s’intravede un comune
denominatore ed è la scarsa simpatia, per usare un eufemismo, nei
confronti dell’Unione europea.
Come dire che l’Italia in cui
Salvini si trovasse ad esercitare una sorta di egemonia politica
potrebbe diventare, in certe circostanze, un grimaldello contro le
scelte di Bruxelles. Una questione su cui il Quirinale è molto attento e
su cui chiederà adeguate garanzie ai vincitori del 4 marzo. Peraltro
non è solo il desiderio leghista — o dell’intero centrodestra — di
mantenere buoni rapporti con Putin. In queste prime mosse
post-elettorali c’è la volontà di distinguersi dall’Europa su un
ventaglio di temi di fondo: la politica verso la Russia, certo, ma
soprattutto le questioni economiche. L’Europa chiede rigore sul debito e
quindi sul sistema pensionistico, mentre la Lega vuole cancellare o
almeno riscrivere la legge Fornero. È una contraddizione di non poco
conto: forse con qualche artificio si può aggirare l’ostacolo, ma è
singolare che Berlusconi, dopo l’amaro fine settimana in cui ha perso la
leadership del centrodestra, si preoccupi solo di garantirsi un posto
al tavolo dove siederanno Salvini e Di Maio. Altrimenti “il loro governo
sarebbe un ircocervo”.
Come posizione politica è debole e rivela
tutta la fragilità di un leader che fino a ieri si considerava, a
ragione, il referente italiano dei Popolari di Angela Merkel.
Quanto
ai Cinque Stelle, prima di dare per scontata l’intesa finale fra Di
Maio e la Lega, è necessario attendere una serie passaggi parlamentari e
istituzionali, in particolare — è ovvio — le decisioni di Mattarella.
Del resto non sono ancora nemmeno cominciate le consultazioni.
Di
Maio e i suoi per adesso sembrano concentrarsi sulla nuova “centralità”
del Parlamento (vedi il discorso del neopresidente della Camera Fico),
il che serve a valorizzare il quasi 33 per cento del M5S ma è anche un
modo per sfuggire alle contraddizioni del rapporto con la Lega. E con
Berlusconi. D’altra parte Salvini è abile a lusingare e attrarre i
“pentastellati” sul terreno più favorevole al centrodestra. Persino sul
reddito di cittadinanza non esclude un compromesso, come ha detto
Giorgetti.
E sul tema di fondo — chi va a Palazzo Chigi? — Salvini
conferma che non è quella la sua priorità. Con ciò sgombrando il campo
da un possibile attrito con l’interlocutore. Tanto più che per lui quel
che conta è la presa di possesso del centrodestra. La certezza che la
guida della coalizione sarà nelle sue mani.