Repubblica 25.3.18
Il futuro della sinistra
Il Pd a rischio estinzione
di Claudio Tito
Quando
una forza politica subisce una sconfitta cocente, ha bisogno di tempo
per riordinare le idee. Per uscire dal rimbombo della disfatta. Ma
quello del Partito democratico non è un semplice smacco elettorale. È
qualcosa di più. Tocca il concetto stesso della sua esistenza.
Come
è capitato in quasi tutti i Paesi europei, la sinistra è caduta in una
crisi profondissima. Ma a differenza di tutti gli altri grandi Paesi del
nostro Continente, solo in Italia — lo dimostrano le elezioni dei
presidenti di Camera e Senato — ha vinto il fronte populista nel suo
insieme. La singolarità di questo dato mette in discussione appunto la
natura stessa di questo partito. Il Pd sta correndo sul filo
dell’estinzione senza accorgersene. La dinamica con cui si è arrivati
alla scelta delle due principali cariche parlamentari è solo
parzialmente giustificabile con il peso elettorale conquistato alle
elezioni. Sul centrosinistra incombe una vacuità politica che sterilizza
ogni prospettiva e riduce tutto a mera tattica. Il voto del 4 marzo ha
di fatto disegnato un nuovo sistema dei partiti, e i Democratici
appaiono preoccupati soprattutto di tutelare la ridotta in cui sono
precipitati. Imbalsamati, bloccati dai veti interni, paralizzati dalla
semplice interdizione e dalla “fraterna” delegittimazione. Una palude in
cui spiccano il potere di veto esercitato dall’ex segretario Renzi e la
paura di tutti gli altri.
Nel 1994 il Ppi di Martinazzoli, erede
della Dc, passò dal 29 per cento, ottenuto due anni prima, all’11 per
cento. Venne travolto dalla novità berlusconiana. Non capì cosa fosse
accaduto e quale evoluzione stesse segnando la politica e la società.
Rimase fermo per troppo tempo a contemplare la fine di una stagione, non
mise in campo rapidamente una reazione e di fatto morì.
Il Pd si
trova in una situazione analoga. Non ha la possibilità di leccarsi le
ferite come fece nel 2001 e nel 2008. La sua esistenza è legata ai tempi
della risposta. Ha bisogno di trovare rapidamente una nuova prospettiva
e un rinnovamento. Certo, la sua classe dirigente dovrebbe dimostrarsi
in grado di riflettere su cosa significhi essere di sinistra nel 2018.
Perché quei valori senza un nuovo codice interpretativo risultano
perdenti e incompresi. Dovrebbe assegnarsi un orizzonte evitando di
concentrarsi solo sulla necessità di lucrare sulle posizioni di un
potere ormai perso. Il gruppo di comando di un partito che punta a
governare il Paese avrebbe l’obbligo di capire le ragioni della débâcle e
studiare come tornare a essere rappresentativo anche delle fasce di
popolazione più debole e non solo di quelle più avvertite. Il suo
compito sarebbe quello di elaborare un’agenda politica che non si riveli
supina al pensiero dominante: reimparare a essere una forza popolare e
non populista. Il punto è proprio questo: la destra sa cos’è e quali
pulsioni sollecitare. La sinistra sa cosa è stata ma non sa cosa sarà.
Le
esigenze di questa fase impongono tempi serrati. Immaginare di rinviare
le scelte e aspettare tempi migliori per il Congresso equivale a una
rinuncia. Il Pd deve scegliersi un nuovo profilo e un nuovo leader. Ne
sarà in grado? L’incomunicabilità interna è un indizio contrario. La
prospettiva di una ennesima scissione è ormai il vero oggetto di
discussione in quel partito. Come lo è, specularmente, dentro Forza
Italia. La crisi berlusconiana produrrà fisiologicamente la divisione
tra chi seguirà il centrodestra di Salvini (sarà l’M5S a porla come
condizione per conservare l’asse con il centrodestra a trazione
leghista) e chi inseguirà un fantomatico partito unico antipopulista
immaginato sul modello Macron anche da molti esponenti dem che fanno
riferimento a Renzi. E questa è l’attestazione più chiara che — al di là
dei giudizi su questa eventuale operazione — il vuoto in politica prima
o poi viene colmato. E se non sarà il Pd a riempirlo, lo faranno altri.