domenica 25 marzo 2018

Repubblica 25.3.18
Polonia
A Cracovia sorgerà il primo quartiere soltanto per cattolici
di Andrea Tarquini


A Cracovia, da secoli simbolo del cattolicesimo liberale, specie negli anni in cui Karol Wojtyla ne fu arcivescovo, sorgerà il primo quartiere solo per cattolici. E il progetto la dice lunga sul clima oggi in Polonia. L’iniziativa di costruire “il Quartiere di Fatima” è del produttore cinematografico ed editore cattolico Andrzej Sobczyk: «Abbiamo consegnato questo investimento nelle mani di Dio e speriamo che si sviluppi in conformità con cuori di uomini uniti da simili valori». Tutte le case, in fase di costruzione, sono già state vendute. È uno strappo storico con la tradizione di Cracovia, dove, specie sotto la dittatura comunista, la Chiesa era centro motore e difensore di libertà. Come funzionerà l’apartheid di fede: sarà richiesto un certificato di battesimo o altra attestazione?

Repubblica Robinson 25.3.18
Lo psicoanalista dal volto umano
Un nuovo manuale, che il suo autore qui ci presenta, già definito all’uscita negli Usa “il più sofisticato sistema diagnostico attualmente disponibile”. Una dettagliatissima mappa della mente: per una terapia dove, finalmente, la parola d’ordine è “sensibilità”. Così la disciplina del dottor Freud ritrova, un secolo dopo, l’ispirazione originaria: aggiornata e corretta ai tempi nostri. Quale migliore occasione per scoprire cosa resta davvero del suo sogno?
Umberto Galimberti, Gohar Homayounpour, Vittorio Lingiardi, Stefano Massini, Lorena Preta, Massimo Recalcati
di Vittorio Lingiardi

Leggere la psiche (in 1200 pagine!)
Il “ Manuale Diagnostico Psicodinamico” ( PDM- 2) è in corso di traduzione in tutto il mondo. In Italia esce per Raffaello Cortina ( 1200 pagine, 89 euro). Curatori e responsabili scientifici sono Vittorio Lingiardi e Nancy McWilliams. Il comitato scientifico è composto da trentasette esperti internazionali. Strutturato per fasce d’età e organizzato in sedici capitoli e sei sezioni. Tre sono gli assi diagnostici: personalità, capacità mentali, sintomi ed esperienza soggettiva a cui se ne aggiungono altri due per i bambini da zero a tre anni. È patrocinato da dieci organizzazioni scientifiche e professionali internazionali, tra cui la Division of Psychoanalysis dell’American Psychological Association, l’International Psychoanalytical Association, l’International Association of Relational Psychoanalysis and Psychotherapy e l’International Society of Adolescent Psychiatry and Psychology

Se quello della diagnosi psicodinamica è un lungo viaggio, mi piace immaginare che sia partito nel 1915 da questa frase di Freud: “ Noi non vogliamo semplicemente descrivere e classificare i fenomeni, ma concepirli come indizi di un gioco di forze che si svolge nella psiche”. Sono orgoglioso di pensare al Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM) come una tappa importante di questo viaggio. Con Nancy McWilliams ne ho curato la nuova edizione, il PDM- 2, uscita l’anno scorso negli Stati Uniti e da pochi giorni disponibile in traduzione italiana. Otto Kernberg, decano internazionale della diagnosi psicoanalitica, lo ha definito “il più sofisticato sistema diagnostico attualmente disponibile”. Si tratta del primo tentativo sistematico di fondare la diagnosi su teorie e modelli clinici psicodinamici, cioè finalizzati a comprendere e, dove possibile, spiegare, proprio quel “gioco di forze che si svolge nella psiche”. Certamente consapevoli che oggi questo tentativo può avvenire solo in dialogo con altre discipline, in primis la psicopatologia evolutiva, la psicologia cognitiva, le neuroscienze e la teoria dell’attaccamento.
Non tutti gli psicoanalisti e gli psichiatri sono propensi a riconoscere i vantaggi delle diagnosi. C’è chi ha affermato, proprio in occasione dell’uscita di questo manuale, che ogni categorizzazione diagnostica è una forma di “ oggettivazione autoritaria”, un modo di “inaridire” l’esperienza umana. Dal nostro punto di vista, invece, ricondurre un’esperienza umana a una dimensione clinica a sua volta riconducibile anche a una diagnosi non significa inaridirla. Significa studiarla, comprenderla, confrontarla. Sappiamo che limiti e semplificazioni sono intrinseci a ogni sistema di classificazione. Proprio per questo sosteniamo che per il clinico la diagnosi deve rappresentare, direbbe Karl Jaspers, un tormento, una tensione votata a conciliare l’assoluta singolarità di quel paziente con la possibilità di ricondurlo a un quadro più generale.
Costruendo il Manuale Diagnostico Psicodinamico abbiamo insomma cercato di mantenere una visione binoculare, capace di tenere insieme l’etichetta diagnostica e la formulazione narrativa del caso, la categoria generale e l’elemento distintivo. Se il più diffuso Manuale diagnostico dei disturbi mentali ( DSM)) può essere definito una “tassonomia di malattie”, il PDM è piuttosto una “tassonomia di individui”: in altre parole si prefigge di fornire al clinico informazioni per capire che cosa una persona è e non solo che cosa una persona ha. Anche nei disturbi psichiatrici a forte componente biologica vi sono fattori psicologici e ambientali che influenzano l’esordio, il decorso, la suscettibilità alla terapia. Due persone con lo stesso disturbo ( che sia una patologia ansiosa, un disturbo dell’alimentazione o della personalità) avranno storie e potenzialità diverse, e risponderanno alla cura in modi diversi. La valutazione psicodinamica serve proprio a immergere nella varietà umana il rigore dell’etichetta diagnostica. Quando dico che il signor A. ha una personalità ossessiva oppure narcisistica, tanto per nominare due diagnosi, sto evocando la sua unicità esistenziale, ma anche la sua appartenenza a dimensioni diagnostiche con caratteristiche che devo saper descrivere usando un linguaggio comprensibile e condiviso. Il signor A. con cui ho appena concluso un colloquio è unico, ma per indicargli la terapia più efficace devo conoscere anche i dati che anni di clinica e ricerca hanno accumulato su casi simili al suo. Per non parlare del fatto che al signor A. può interessare molto sapere che anche altri hanno il suo problema e che questo problema ha un nome. Lo racconta bene Simona Vinci in Parla, mia paura: “ Lo psichiatra mi dedicò un’ora del suo tempo. Parlammo dell’analisi che stavo facendo, degli attacchi d’ansia, della paura. [...] Aveva centrato il punto: [...] la mia era una depressione reattiva [...] avevo bisogno di definirmi, di appiccicarmi un’etichetta, di sapere chi ero diventata”.
Come è strutturato il nuovo manuale? In altre parole, che cosa offre al clinico? Per prima cosa la possibilità di formulare le diagnosi a partire dall’età del paziente, dal bambino all’anziano. Poi di descrivere la personalità, dalle risorse ai tratti più problematici o francamente patologici. Quindi di valutare, una per una, le principali capacità mentali (per esempio, la regolazione dell’autostima, i meccanismi di difesa, il controllo degli impulsi, la capacità di sviluppare relazioni intime, l’adattamento, la resilienza, le capacità di autosservazione, la mentalizzazione, gli standard morali). Infine di riconoscere ed elencare i sintomi, senza trascurare l’esperienza soggettiva che ne fa il paziente e le risposte emotive del clinico (controtransfert diagnostico). Alle indicazioni per il colloquio, via regia per la formulazione diagnostica, il PDM-2 affianca istruzioni specifiche anche per la somministrazione di test e questionari. È, insomma, espressamente rivolto alla pianificazione dei trattamenti. La bontà di una diagnosi, infatti, sta nella sua traducibilità clinica: come sintesi dei problemi e delle risorse principali di un paziente, come indicatore efficace per individuare l’approccio terapeutico più idoneo. Se isoliamo l’etichetta diagnostica dagli obiettivi potenziali che essa contiene, rischiamo di fare come lo sciocco che, quando il saggio indica la luna, guarda il dito.
Come sappiamo dalla sua etimologia, la diagnosi è un processo conoscitivo e un incontro. La scommessa del PDM- 2 è integrare conoscenza operativa, complessità clinica e dimensione intersoggettiva. Agli psicoanalisti diffidenti del processo diagnostico ricordo che Freud criticava chi non si preoccupava di formulare diagnosi accurate. E paragonava questo atteggiamento alla “ prova della strega” di cui andava fiero un re scozzese: faceva immergere la sospetta strega in un calderone d’acqua bollente e poi assaggiava il brodo. Solo a quel punto era in grado di dire se si trattava di una strega. Ecco, chi trascura la diagnosi rischia di fare come il re scozzese: riconosce e nomina le cose fuori tempo massimo.
Oggi molti giovani colleghi si trovano a dover scegliere tra procedure diagnostiche ipersemplificate e linguaggi idiosincratici, estranei alla prova della ricerca empirica e poco condivisibili tra professionisti di diversa formazione. Questa condizione, sospesa tra compilazione burocratica e autoreferenzialità gergale, non solo mortifica l’identità professionale del clinico, ma appanna o distorce la sua capacità di individuare e descrivere le caratteristiche del suo paziente. In definitiva, compromette la relazione clinica. Manuale Psicodinamico si muove nella direzione opposta: dare un senso alla diagnosi valorizzando la sensibilità clinica.

Repubblica Robinson 25.3.18
Inconscio ergo sum
Chi dice che è morta? Prima che terapeutica l’invenzione freudiana è una rivoluzione etica. E la scommessa più ardita si chiama “desiderio”. Da assecondare così
di Massimo Recalcati

Che cosa resta della grande lezione di Freud? Cosa resiste della esperienza sovversiva dell’inconscio? Cosa della grande rivoluzione culturale rappresentata dalla psicoanalisi è destinato a non essere cancellato? Il progresso delle neuroscienze, l’affermazione delle psicoterapie cognitivo-comportamentali, la potenza chimica dello psicofarmaco, la promessa di terapie brevi ed efficaci centrate sul cosiddetto “ sintomo bersaglio”, sembra abbiamo messo definitivamente all’angolo la psicoanalisi riducendola a uno spettro condannato a circolare solo nel museo delle cere del Novecento. Lo si grida da più parti e ormai da molto tempo: la psicoanalisi è morta, le sue categorie teoriche irrimediabilmente compromesse da un irrazionalismo di fondo che rifiuta di confrontarsi con la valutazione scientifica, la sua efficacia terapeutica dubbia, la proverbiale lunghezza delle sue cure assolutamente sfasata rispetto al ritmo performativo richiesto dallo spirito del nostro tempo e indice di una fumisteria epistemologica e clinica priva di fondamenti.
Perché allora dovremmo insistere nel difendere tenacemente l’invenzione di Freud? Il nucleo di questa invenzione è etico prima che terapeutico. Se il Novecento è stato il secolo del sacrificio della singolarità schiacciata sotto il peso inumano dell’universale ideologico della Causa, la teoria e la pratica della psicoanalisi, sin dalla sua origine, si è posta al servizio del carattere insacrificabile della singolarità. Non certamente della natura borghese dell’Io o dell’individualismo liberista, ma di quella singolarità assai più ampia che sconfina in zone dell’essere che eccedono la coscienza e la sua illusione (cartesiana) di padronanza. La singolarità irregolare e anarchica dell’inconscio impone infatti di ripensare innanzitutto il concetto stesso di identità. Certamente questo riguarda la sessualità umana che Freud rivela essere sempre parzialmente contaminata da quella infantile e pregenitale come se non esistesse una sessualità cosiddetta “matura”, “genitale”, perché essa vive e si nutre di fantasmi che provengono dalle esperienze infantili del corpo pulsionale. Ma la prima vera e grande sovversione etica imposta da Freud è quella che ci costringe a modificare la nostra ordinaria concezione della malattia e della sofferenza psichica. Questo è un contributo ancora attualissimo e nevralgico della psicoanalisi: l’eccessivo compattamento identitario del soggetto non è una virtù da salvaguardare, ma è la vera malattia da curare. La divisione multipla interna al soggetto — tra coscienza, preconscio e inconscio, tra Es, Io e Super- io — ci costringe infatti a ridisegnare la nostra idea della vita umana. L’Io non è mai padrone in casa propria: l’alterità non è innanzitutto esperienza dello straniero che viene dal di fuori, ma del nostro stesso essere, della nostra più propria intimità. L’inconscio freudiano è infatti “uno stato nello stato” — un “territorio straniero interno” — che obbedisce a una legislazione che eccede radicalmente quella che governa il funzionamento normativo dell’Io. Nei sogni, nelle nostre più quotidiane sbadataggini, nei lapsus, nei sintomi di una singolarità eccedente l’Io parla, manifesta la propria voce dissonante disturbando il funzionamento diurno della coscienza e del pensiero. Ne deriva, appunto, un’inedita concezione della malattia e della sofferenza psichica che scaturirebbe non tanto da una assenza o da una debolezza dell’Io, ma da una sua postura troppo rigida, da una mancanza di democrazia interna che vorrebbe escludere la voce dell’inconscio dal parlamento interno del soggetto. Se queste procedure egoico-narcisistiche di esclusione si rafforzano, se il soggetto persegue una rappresentazione solo ideale di sé stesso finalizzata a scongiurare l’esistenza di quelle parti di sé giudicate “incompatibili” con questo stesso Ideale, la vita si atrofizza e si ammala. È un principio clinico che riguarda tanto la vita individuale quanto quella collettiva: i confini che disegnano la nostra identità devono essere plastici, capaci più di integrare lo straniero interno che di scindere e segregare. La psicoanalisi incoraggia una politica anti-segregativa. La prima grande lezione etica della psicoanalisi consiste nel favorire una concezione indebolita della soggettività che consenta il transito e l’apertura in alternativa a ogni sua illusione identitaria di padronanza che finisce per irrigidire i propri confini contribuendo alla loro chiusura.
Quale è il volto dello straniero che si tratta di accogliere? Innanzitutto quello del desiderio che esprime la dimensione radicalmente insacrificabile della singolarità. Si tratta di un’altra grande e ardita scommessa della psicoanalisi: non contrapporre la ragione al desiderio — come la luce all’ombra — ma fare della “ voce del desiderio” la voce stessa della ragione. È questo un punto nevralgico presente nel pensiero di Freud, ripreso con forza da Lacan: non solo la vita si ammala per un eccesso di solidificazione dell’identità, ma anche quando essa volta le spalle alla chiamata del desiderio, quando tradisce la sua attitudine, la sua vocazione, il suo talento fondamentale. Questo desiderio — assimilato kantianamente da Freud alla “voce della ragione” — non può essere normalizzato, irreggimentato, assoggettato da nessun principio, compreso quello di realtà. La difesa della singolarità comporta l’opzione per un pensiero laico, anti- dogmatico, anti- fondamentalista, critico nei confronti di ogni tentativo di assimilazione del singolare nelle procedure anonime dell’universale. È il tratto, se si vuole, irriducibilmente “ femminista” della psicoanalisi: la cura è cura per il particolare, per la sua differenza assoluta, per l’incomparabile, per la vita non nel suo statuto generico e biologico ma nel suo nome proprio, nel suo volto unico e irriproducibile. Questo comporta un attrito fatale nei confronti di tutte le pratiche di normalizzazione autoritaria e di medicalizzazione disciplinare della vita. La vita del desiderio — la vita della singolarità — è sempre vita storta, difforme, deviante, bizzarra, anomala. La psicoanalisi opta per l’accoglienza di questo “straniero interno” come condizione di possibilità per l’accoglienza della vita in tutte le sue forme più divergenti. Essa contrasta politicamente ogni conformismo del pensiero, ogni attitudine all’adattamento passivo, ogni ideale moralistico di normalità. Non esiste infatti mai un “rapporto giusto col reale”, affermava Lacan. Ciascuno ha il compito di trovare la propria misura della felicità. La psicoanalisi è una teoria critica della società: il potere che impone una misura unica della felicità diviene necessariamente totalitario. La sua vocazione è antifascista nel senso più radicale e militante del termine: veglia affinché la tentazione autoritaria che spinge l’uomo verso il padrone o verso il suo carnefice che promette la tutela autoritaria da ogni rischio che la libertà della vita fatalmente impone, sia avvistata per tempo. La psicoanalisi svela che esiste nell’uomo una tendenza pulsionale ad amare più le catene della propria libertà, a disfarsi del proprio desiderio, a consegnarsi nelle mani di una autorità che, in cambio della cessione della propria libertà, assicurerebbe la protezione della vita. È la dimensione “fascista” della psicologia delle masse che costituisce un grande capitolo della ricerca sociale e politica della psicoanalisi oggi più che mai attuale.

Repubblica Robinson 25.3.18
Ogni continente ha la sua anima
La nuova geografia della psiche spiega anche le differenze tra Est e Ovest. Terrorismo compreso
di Lorena Preta

Fine luglio 1909: Freud e Jung, emozionati e curiosi, solcano l’oceano che li porterà dalla vecchia Europa agli Stati Uniti per un ciclo di conferenze dedicate alla nuova e discussa disciplina chiamata psicoanalisi. In America non se ne sa molto ma “la cura con le parole”, come ebbe a definirla una delle prime pazienti di Freud, ha già suscitato insieme grande interesse e molta diffidenza. C’è attesa ma forse poca consapevolezza della portata storica e rivoluzionaria della psicoanalisi. In realtà l’immagine dell’uomo conosciuta fin lì è stata radicalmente stravolta: le azioni e i sentimenti non sono determinati dalla coscienza, ma hanno origine dalla forza potente e indecifrabile dell’inconscio. Muri invalicabili crollano sotto la spinta della nuova teoria: il sogno è portatore di significati nascosti; la sessualità ha un ruolo fondamentale nell’organizzazione della vita mentale ed essa non è appannaggio solo del mondo adulto ma anche dell’infanzia; il rapporto del medico con il paziente non è affatto asettico ma è guidato da affetti potenti che portano quest’ultimo a sperimentare verso l’analista un amore di “ transfert”. Il mondo relazionale quindi ma anche la scienza, l’arte e la religione stessa non sono definiti esclusivamente dai loro fondamenti storici e culturali ma dalla complessa dinamica inconscia. Ce n’è abbastanza per pensare che la nuova disciplina possa portare uno sconvolgimento totale nella visione dell’uomo e del mondo. Infatti durante il viaggio Freud orgoglioso ma anche un po’ preoccupato, dice a Jung: “Non sanno che gli andiamo a portare la peste! ”. E oggi? La psicoanalisi ha ancora questa carica contagiosa e dirompente?
Sono pochi i Paesi del mondo in cui la psicoanalisi non sia arrivata introducendo nuovi vertici di osservazione dei rapporti individuali e sociali. Eppure la sua funzione è ben diversa da cultura a cultura, da società a società nonostante la globalizzazione renda omogenee alcune problematiche. Nell’Occidente super tecnologico per esempio, l’individuo si trova a vivere una situazione di frammentazione e di angoscia di perdita di sé, uno scollegamento dal proprio gruppo di riferimento sia famigliare che sociale. L’esigenza sembra essere il bisogno di riconnettersi e recuperare un senso di appartenenza. In questo caso all’esperienza psicoanalitica sono richiesti un contenimento e un’integrazione. Al contrario in Oriente si sta introducendo un’affermazione sempre più forte dell’individualità e la necessità di uno sganciamento dal controllo del gruppo famigliare e dalla collettività, che spesso sappiamo corrispondere a gravi politiche di oppressione. In questo caso la psicoanalisi può avere una funzione liberatoria. Eppure anche se segnata da profonde differenze, la mappa geografica planetaria mette in risalto un disagio psichico comune che attraversa tutti i Paesi del mondo. Le innovazioni tecnologiche hanno negli ultimi anni mutato profondamente la percezione che abbiamo del nostro corpo e della relazione con l’altro. Inusuali composizioni uomo-macchina, innesti di organi di specie diverse prima immaginati soltanto nelle mitologie, fecondazioni artificiali che possono ormai essere completamente sganciate dalla sessualità, differenze generazionali e di genere che sembrano annullate, comunicazioni virtuali che attraversano spazi senza corpi e senza materia, tutto questo fa di noi degli esseri diversi da prima e ingaggiati in un inedito processo di mutazione antropologica. La dimensione del tempo sembra schiacciata totalmente sul presente. Difficile elaborare il passato per superarlo e quasi impossibile proiettarsi nel futuro che i troppo rapidi cambiamenti rendono inimmaginabile. Sembra di non avere più un luogo, ma di essere costantemente “dislocati”, out of joint, fuori dai cardini.
In quest’ottica si possono leggere i fenomeni migratori caratterizzati da percorsi geografici e politici segnati da conflittualità e differenze a volte inconciliabili e da traumi non elaborabili. La soluzione a volte sembra essere il ricorso a un’appartenenza mimetica che può sfociare nei giovani, in un tentativo di “rifondazione” identitaria con accenti deliranti come nel fenomeno del terrorismo. A sua volta chi viene in contatto con il migrante affronta paure di dispersione e alterazione della propria identità che spesso vediamo sfociare in gesti di violenza inammissibili. Eppure è proprio tenendo conto del fatto che la psiche stessa è strutturata sulla dinamica di parti tra loro inconciliabili ed eterogenee che bisognerebbe attrezzarsi a ospitare le estraneità, senza pretendere di ridurre l’altro a sé ma lasciandogli quella dose di irriducibilità che lo fa diverso da noi. Come non avere coscienza però che mancano le attrezzature sufficienti per capire le nuove geografie della mente che ci aspettano? Se la psicoanalisi può ancora portare la peste della sua parola non conformistica, è conservando la funzione di “ problematizzare” la realtà, di non darla per ovvia o scontata. Non si tratta di usare un paradigma da investigatori che devono smascherare il colpevole, ma di rimettere in contatto la persona con i suoi moti profondi e di considerare le complesse dinamiche dei gruppi che sono oggetto ancora inesplorato, in modo da generare “ un raggio di intensa oscurità”.

Repubblica Robinson 25.3.18
Stare sul lettino a Teheran
I 10 anni del Gruppo freudiano in Iran: dove la psicoanalisi è ancora dottrina “sovversiva”
di Gohar Homayounpour

Abbiamo appena celebrato il decimo anniversario del Gruppo freudiano di Teheran a Mashhad, una delle città più religiose dell’Iran, un sito di pellegrinaggio per i musulmani sciiti, dove il desiderio di psicoanalisi è sorprendentemente sempre più forte. L’Iran ha una popolazione di 75 milioni di persone, 13 solo a Teheran, e oltre il 60 per cento della popolazione ha meno di trent’anni. In Iran ci sono pochissimi psicoanalisti e ancor meno psicoanaliste. Di conseguenza, la domanda supera costantemente l’offerta, e quindi chiunque abbia un “divano” ha sempre una clientela numerosa. Il contrario di quello che sentiamo dire da colleghi di altri Paesi, dove la psicoanalisi è in crisi. Sembra esserci un’angolazione misteriosa nello sguardo dell’Occidente su di noi: più l’Iran diventa politicamente scandaloso, e più l’altro occidentale lo segue con attenzione, più diventa un oggetto desiderabile. Negli ultimi anni c’è un crescente desiderio per tutto ciò che viene dall’Iran e riguarda l’Iran ( quasi una reazione feticistico-fobica). Per esempio, c’è una forte domanda di produzioni artistiche, dai film alla fotografia, alla letteratura. Un esempio eclatante si può trovare in quello che è successo con l’arte iraniana negli ultimi vent’anni: si ha la sensazione che nulla di sovversivo venga prodotto. In particolare nel campo delle arti visive, un vasto assortimento di piaceri persiani è stato generato e venduto in Occidente a prezzi altissimi, senza uno sguardo critico. Un fenomeno ben diverso è quello del cinema, dove l’Iran, sulle orme di Sohrab Shahid- Saless e Abbas Kiarostami, e il genere che hanno creato, ha toccato i massimi livelli di produzione artistica, producendo film brillanti, acclamati a livello internazionale. Non voglio certamente idealizzare tutto il nostro cinema e banalizzare l’arte iraniana in generale. È solamente un’osservazione per ragionare meglio sui pericoli di produrre piaceri erotici persiani. Non potrebbe essere un patto inconscio, nel quadro di una dialettica hegeliana padrone/ schiavo, per sfuggire all’oscurità, alla differenza e all’ignoto? Una patto che mantenendo il cliché dell’esotismo avrebbe evidenti vantaggi nevrotici per l’Occidente e per l’Iran, ma trascurerebbe l’inconscio e le sue storie mostruose. Il Gruppo freudiano di Teheran non ha alcun accreditamento ufficiale presso lo Stato iraniano e non può offrire a studenti e candidati qualsivoglia tipo di certificato o diploma, perché non siamo associati con nessuna università del Paese. Non siamo nemmeno riconosciuti da nessuna associazione internazionale. Com’è possibile, allora, che abbiamo circa duecento membri a Teheran e a Mashhad, e che ci sia un continuo e insistente desiderio di nuove adesioni da tutto il Paese? Per dirla brevemente, il successo del gruppo ha a che fare con un senso interno di legittimità del gruppo, e in ultima analisi con il “desiderio” di psicoanalisi in Iran. Il gruppo è stato fondato nel 2007, perché funzionasse come un istituto di psicoanalisi, dove cerchiamo di praticare le regole fissate dall’Associazione psicologica internazionale per la formazione dei candidati ( analisi, supervisione e lezioni teoriche). Negli ultimi dieci anni abbiamo avuto la fortuna di godere dell’ospitalità di molti dei nostri colleghi internazionali. Di certo, la maggior parte dei nostri studenti riceve terapia psicoanalitica e formazione. La psicoanalisi è intrinsecamente sovversiva, e la cosa che trovo più intrigante del fatto di fare psicoanalisi a Teheran è la possibilità di praticarla proprio nel suo originario formato sovversivo. Vivere e lavorare in Iran come psicoanalista costringe inevitabilmente a vedere le cose attraverso il terzo occhio. Al margine del linguaggio. Al margine del soggetto. Il linguaggio dell’inconscio è quello del margine, è sovversivo e tale deve restare. Forse la crisi della psicoanalisi in Occidente ha a che fare proprio con questo fenomeno: più cerchiamo di far rientrare la psicoanalisi nel motto capitalista “il cliente ha sempre ragione”, più cerchiamo di ripulirla da tutto quello che può far sentire a disagio qualcuno, come la fantasia inconscia, la sessualità e… insomma, in un certo senso, più politicamente corretti diventiamo per attrarre “clienti”, meno desiderabili diventiamo per gli analizzandi. Siamo diventati convenzionali per diventare più attraenti, ma nel farlo abbiamo perso ogni desiderabilità. Dobbiamo ricordarci di quello che diceva Freud, e cioè che se un giorno parleremo della psicoanalisi senza suscitare reazioni ostili, sarà un chiaro segnale che non siamo riusciti a spiegare bene cosa sia realmente la psicoanalisi. Sarà un chiaro segnale che siamo diventati convenzionali, che ci siamo allontanati dal margine, dalla fantasia dell’inconscio, per entrare nel territorio dell’uniformità, della familiarità e del politicamente corretto. Dobbiamo proporre una politica della differenza e un rigetto dell’uniformità, nel territorio dei mostri, dentro le mille e una storie nel carnevale delle nostre menti. Senza sfuggire all’universalità della condizione umana, dove il dolore è dolore.

Repubblica Robinson 25.3.18
Terapeuta, parla col mio neurone
Basta con i conflitti tra la psicoanalisi e le neuroscienze. Per Vittorio Gallese, uno degli scopritori dei neuroni specchio, le discipline possono collaborare. Ecco come
di Riccardo Staglianò

Il giovane Freud aveva cercato nel cervello le risposte al funzionamento della mente. Ma nel 1920 gli strumenti a disposizione erano largamente insufficienti all’avventura, da qui la feconda deviazione verso la psiche. Fosse vivo oggi cercherebbe l’Io con una risonanza magnetica funzionale? «Mi augurerei di no» risponde Vittorio Gallese, neuroscienziato all’università di Parma, «perché il sistema di metafore che ha elaborato resta essenziale. D’altronde quando parlo di neuroni specchio anch’io uso una metafora » dice alludendo alla base fisiologica all’empatia che ha contribuito a scoprire. Chi cercasse il liquidatore di un secolo di pensiero psicoanalitico non troverà in lui alcuna sponda. «Intanto le due discipline hanno lo stesso oggetto. Ovvero: di cosa parliamo quando parliamo dell’umano? Una volta a un convegno un supercilioso professore di filosofia mi chiese: pensa, occupandosi di estetica, di nobilitare il suo lavoro? Per molti anni mi sono sentito chiamare filosofo, e non era un complimento. Oggi le cose sono cambiate».
La Società psicoanalitica italiana le ha conferito il premio Musatti: è l’omaggio del vinto (psicoanalisi) nei confronti del vincitore (neuroscienze) o il semplice riconoscimento di un dialogo possibile?
«Non c’è guerra e questo dialogo io lo pratico da molti anni. La diffidenza psicoanalitica di qualche tempo fa era suggerita anche da ciò che chiamo neuro- h?bris, l’illusione di alcuni neuroscienziati di poter mappare in scala 1 a 1 ogni attività mentale rispetto alla relativa area che si attiva nel cervello. Come nelle elezioni, le promesse che non puoi mantenere si trasformano in boomerang».
Dice: evitiamo ogni tracotanza scientista?
«Dico che neuroscienza e psicoanalisi vanno declinate al plurale. Quando si parla della prima si pensa al cervello che però può essere analizzato partendo dalle molecole, i geni, i recettori fino al mio approccio cognitivo che si occupa di empatia, estetica e intersoggettività. Come faccio a capire l’altro? Perché mi commuovo quando qualcuno piange? O mi appassiono alle vicende di Anna Karenina, personaggio di finzione? Le risposte cambiano se presumo che il cervello funzioni secondo algoritmi indifferentemente implementati in un substrato biologico o in chip. O invece dalla mia prospettiva che presuppone il rapporto con il corpo ed è comparativa».
Comparativa tra chi e chi?
« Fino a dieci anni fa ho studiato il cervello del macaco per capire in cosa era simile o diverso dal nostro. Lo scarto, come ci ha detto Steven Pinker, era nella mutazione del gene Foxp2, quello della grammatica? Certo, siamo animali linguistici, ma è solo la punta dell’iceberg. Cui bisogna aggiungere la prospettiva estetica: cosa succede quando guardo Seurat oppure Guttuso o Rembrandt? Sono gli interrogativi che si è posto per primo Semir Zeki, pioniere della neuroestetica».
La parola, terreno d’elezione della psicoanalisi, resta però difficile da eludere o sbaglio?
« Certo che no. Quando dico “ amo mio figlio” o “ amo il mio lavoro” uso la stessa parola e tutti capiscono le differenze. Lo stesso verbo ha la stessa base neurobiologica? Io non credo. Primo Levi ne I sommersi e i salvati l’ha spiegato meglio di tutti: comprendere significa semplificare. Per farlo la nostra specie si è dotata di due strumenti: il pensiero e il linguaggio. Dunque quando io dico “ amo” c’è una sola scatolina nel cervello che si attiva, ma si connette dinamicamente a circuiti cerebrali diversi a seconda che l’oggetto sia il figlio o il lavoro».
Ma con quale lingua comunicano la psicoanalisi e le neuroscienze?
«In comune hanno l’oggetto di indagine: chi sono e perché non funziono come dovrei. Molto diverso è invece il livello di descrizione, da una parte le dinamiche transferali o ( sempre meno) la rimozione, i neuroni dall’altra. Non credo sia possibile una sintesi ma credo in parole chiave che fungono da ponte. Una di queste è relazione: sia quella tra paziente e analista ma anche quella tra feto e madre. L’alterità nasce con noi, è già dentro di noi».
Cosa aggiungono le neuroscienze alla psicoanalisi e la psicoanalisi alle neuroscienze?
«La psicoanalisi aggiunge la vita, nella sua totalità. Così facendo ha anticipato contenuti a cui le neuroscienze sono arrivate dopo. Tipo: non siamo totalmente padroni a casa nostra, perché ciò che determina il nostro comportamento avviene al di sotto della nostra coscienza. Che il Sé fosse soprattutto un Sé corporeo Freud l’aveva scritto nel 1923 e per me resta un gigante. Ai colleghi che ne dubitano segnalo la notizia, uscita sui giornali, che sarebbe stata trovata l’area del “senso del Natale”. Quei tipi di studi sono estremizzazioni caricaturali di dove può portare una deriva che non chiamerei riduzionista ma riduttivista».
Ci spieghi bene la differenza...
« Per capire come reagiamo di fronte a un film faccio esperimenti mostrandolo su un computer con 128 elettrodi in testa. Puntualmente c’è chi obietta che vederlo al cinema è tutt’altra cosa. È ovvio che la tecnologia non ci restituisce la vita a 360 gradi ma una sua riduzione a poche variabili che possiamo controllare. Ciò non va trasformato in riduttivismo ontologico, quello che fa dire a qualcuno “io sono i miei neuroni”. Fosse così facile! Per capire la stessa esperienza si possono usare le molecole (senza psicofarmaci non si sarebbero chiusi i manicomi). Oppure la parola, anche se quando parliamo di psicoanalisi sempre più spesso intendiamo psicoterapie. E le neuroscienze possono fotografare cosa succede dopo l’uno o l’altro approccio».
Che ruolo hanno le emozioni?
«Un grande ruolo. E sono in ottima compagnia, da Jaak Panksepp che coniò il termine di “ neuroscienza affettiva” a Mark Solms e Antonio Damasio che hanno ribadito che non siamo esseri pienamente razionali. Per non dire dei premi Nobel Kahneman e Tversky che hanno decostruito l’homo economicus, spiegando come prendiamo decisioni controproducenti quando ci sentiamo svalutati. Da ultimo assisto a un imbarazzo crescente nei confronti delle localizzazioni frenologiche di certe idee, con svarioni tipo quello del Natale. Per questo quando dico “i neuroni non amano né odiano” il clima si rilassa e si può cominciare a dialogare».
A proposito, in che rapporti stanno l’empatia e il sistema dei neuroni specchio che ha contribuito a scoprire?
«Empatia non è simpatia o altruismo. Non ho mai creduto che si nasce buoni grazie ai neuroni specchio ed è la cultura a renderci cattivi. Il sadico ha bisogno di mettersi nei panni dell’altro per poter eccitarsi delle sue torture. Io empatizzo con i miei due gatti e credo che loro empatizzino con me. Non dovremmo antropomorfizzare neuroni chimicamente indistinguibili. Importante è il meccanismo che manifestano: ovvero riaccendersi, come avevano fatto quando avevano provato disgusto, vedendo in altri la stessa smorfia».
I neuroni specchio rendono superflue le parole?
«Testimoniano una risonanza diretta che non ha bisogno di parole, ma le parole aumentano o spengono quelle sensazioni che evocano. Quando si vogliono convincere i nostri simili a compiere uccisioni di massa non si spengono i loro neuroni specchio ma si tenta una modulazione cognitiva per rappresentare gli altri diversi da noi perché neri, con il nasone semita e così via. Lo stesso si applica all’immigrazione. Se parliamo di numeri, la prospettiva di dimezzare i migranti è tranquillizzante. Ma se li incarno in persone le cose cambiano. Pensate alle conseguenze della foto del piccolo Aylan morto su una spiaggia non vestito da jihadista ma in jeans e maglietta, come uno di noi…».
Sta dicendo che le neuroscienze spiegano anche le ultime elezioni?
«Se invece di percepire un politico distante che legge il New York Times sul suo iPad mentre sorseggia succo di pompelmo gli spaventati delle periferie avessero avuto di fronte qualcuno che li andava a trovare ascoltandoli, magari facendo promesse irrealizzabili ma riconoscendoli o, per dirla con Kojève, appagando il loro desiderio di essere desiderati, le cose sarebbero andate diversamente. Chi non lo capisce viene punito».

Repubblica Robinson 25.3.18
Le 10 scuole da tenere a mente
di Francesco Mancini* 
Psicoterapia Cognitiva Standard (PCS)

Deriva dalla psicoanalisi rifiutandone interpretazioni stereotipe e mette al centro i problemi così come sono presentati dal paziente.
Il terapeuta ricostruisce il flusso di pensieri che accompagna il sintomo e interviene sui significati contenuti in esso
Comportamentismo
Tra Pcs e Comportamentismo si sono create delle alleanze di successo. Ad esempio, il Gold Standard per la terapia del disturbo ossessivo è di derivazione comportamentale: la “ Esposizione e prevenzione della risposta” viene integrata con interventi cognitivi
Schema Therapy
La sofferenza psicopatologica è conseguenza della frustrazione, in età precoce, di bisogni primari. Il paziente reagisce costruendo schemi che ripetono la frustrazione. Il terapeuta rintraccia e indebolisce tali schemi. Efficace per i disturbi di personalità, in particolare il Borderline e i disturbi d’ansia
Mindfulness
È una pratica meditativa di ispirazione orientale e fa riferimento alla capacità di prestare attenzione al momento presente in modo consapevole e senza “ giudicare” l’esperienza che si sta vivendo.
È riconosciuta efficace nella prevenzione delle ricadute nella depressione
Acceptance and Commitment Therapy (ACT)
Evoluzione del comportamentismo ( nella versione di Burrhus Skinner).
La sofferenza dipende da come, con il linguaggio, si connotano gli eventi: la terapia consiste nel prenderne le distanze attraverso meditazione e uso di metafore.
Efficace per il dolore cronico
Compassion Focused Therapy
Dialectical Behavior Therapy (DBT)
Terapia Metacognitiva Interpersonale
Cognitivismo Evoluzionista
Terapia Sensomotoria
Secondo Paul Gilbert l’efficacia delle tecniche classiche della terapia cognitivocomportamentale può essere aumentata aiutando i pazienti a sviluppare un atteggiamento di cura e compassione nei propri confronti, riducendo la loro attitudine autocritica
Sviluppata da Marsha Linehan, è una terapia individuale e di gruppo finalizzata a sviluppare la regolazione emotiva, la tolleranza allo stress e la gestione dei rapporti interpersonali. È considerata il Gold Standard per il disturbo borderline
La metacognizione è l’insieme delle abilità che consentono all’individuo di riconoscere gli stati mentali in sé stesso e negli altri e di utilizzare tali conoscenze per risolvere problemi interpersonali e padroneggiare la sofferenza
Identifica il forte nesso tra maltrattamenti e abusi nell’infanzia e sintomi dissociativi nell’adulto.
Questo approccio si avvicina alla psicoanalisi perché vede nella relazione terapeutica lo strumento principale della cura
Durante un evento traumatico, sostiene Pat Ogden, le reazioni sensomotorie consistono in pattern sensoriali e motori, che attivano risposte di allarme/ difesa. I pattern riemergono in modo dissociato o incompleto, come immagini intrusive, suoni, dolore e incapacità di modulare le emozioni

Repubblica Robinson 25.3.18
Un, due, tre valzer sull’analisi
Freudiano. Cognitivista. Junghiano. Lo psicoterapeuta visto da vicino. Anche troppo
di Dario Olivero

All’inizio fu una freudiana. Con un nome che faceva bene sperare perché richiamava una certa idea di eden. Se non il residuo di una educazione immancabilmente cattolica, almeno l’auspicio per un transfert. C’era, probabilmente c’è ancora, un lettino e lei si sedeva alle spalle. Ascoltava? Prendeva appunti? Pensava ad altro? Tre sedute canoniche di 45 minuti a settimana: lunedì, mercoledì e venerdì la mattina presto. I problemi cominciarono subito: l’ortodossia psicoanalitica di quella fine anni Novanta non poteva conciliarsi con i turni variabili di un lavoro piuttosto caotico che spesso richiedevano al mattino la presenza. Oggettiva presenza. Sul concetto di oggettivo si abbatté quello di resistenza se non di atto mancato. Inutile mostrare l’agenda con i turni fissati in anticipo: oggettivo non è dato, tutto dipende dalla percezione, dalla realtà psichica. “ Se non trova il tempo vuol dire che non lo vuole trovare: dovremo lavorare su questo”.
Si trovò un accordo — che lasciò qualche strascico di senso di colpa che fiduciosamente sarebbe stato affrontato col tempo — per due volte a settimana. Ma anche così non sembrava funzionare. Questione di ritmo, troppe interruzioni, troppo difficile far coincidere gli orari delle persone coinvolte: la psiche dell’analista, la psiche del paziente, l’inconscio dell’analista, l’inconscio del paziente. Come fissare una cena a quattro invitati con quattro diversi fusi orari e, soprattutto, quattro diversi jet lag. Ma forse anche questione di età e di una scelta frutto soprattutto di curiosità intellettuale: immaginare la via del quartiere popolare di Roma come una traversa della Berggasse, aspettandosi di vedere squadernate una dopo l’altra le voci del Laplanche- Pontalis studiato all’università da Abreazione a Zona erogena, parlare di sogni cercando gli indizi che avrebbero portato a intravvedere d’un tratto l’immensa cattedrale dei complessi stagliarsi netta e chiara come una risposta a tutte le domande. Finì con la classica rottura unilaterale.
Il secondo, anni dopo, fu cognitivista. Con qualche altro suffisso difficile da ricordare. Maschio, perché forse un maschio può capire meglio, se non assolvere, certe questioni. I patti, chiarissimi fin da subito: questo è il problema che abbassa notevolmente la qualità della vita e questo è il tempo nel quale il problema sarà risolto, sei mesi, una seduta a settimana. Ovviamente niente lettino: scrivania, praticamente un colloquio. Dall’interpretazione si passa alla fenomenologia, da Freud si torna a Locke e con qualcosa di Hume ( Spinoza come sempre è scomunicato). L’inconscio non è previsto, scompaiono anche Edipo, Totem, Tabù per non parlare di sogni e atti mancati. Tutto scorre.
Gli eventi di una vita prendono ordinatamente posto in una linea temporale inedita. È sorprendente di quanti episodi significativi dimentichiamo la data esatta, figurarsi di quelli non significativi. A mano a mano che la linea si ricompone, clamorosamente, tutto sembra funzionare. In sei mesi svaniscono i sintomi e si torna in carreggiata. Tuttavia.
Perché non basta? Che cosa manca a una diagnosi di oggettiva ( stavolta si è incoraggiati a usare la parola) guarigione? La frase lapidaria fu: “ Guarire? È come smettere di fumare. Ti mancherà”. Ma in realtà un’altra cosa mancava: la linea verticale. Funziona tutto in orizzontale, non ci sono ostruzioni, la via è libera. E non sono permesse deviazioni di natura simbolica, irrazionali e, sì, “ metafisiche”.
C’è chi sostiene che gli psicoterapeuti siano come dei bravi idraulici: sbloccano le tubature, fanno ripartire le caldaie, cambiano le guarnizioni. Se è così, da un freudiano anche mediocre si può ottenere un ottimo libretto di manutenzione con la seccatura di un tagliando periodico piuttosto invadente e da un buon cognitivista un Idraulico Liquido o un qualche congegno ben funzionante che l’ultima tecnologia ha messo a disposizione su larga scala. Ma l’acqua? Da dove viene l’acqua?
Forse non è questione di scuole o di indirizzi, e forse poco importa che l’ultimo, almeno per ora, sia junghiano e che dal lettino e la scrivania si sia passati alla poltrona. Forse il vero terapeuta non dev’essere un idraulico ma un rabdomante. Che cerca insieme a noi l’acqua senza nessun accordo, limite o compromesso. Nella pioggia che cade o nelle pozzanghere, nei fiumi o nelle rogge, nel mare o negli stagni o più spesso in certe falde sotterranee e canali carsici che prima o poi arriveranno in superficie. Basta che sia acqua. Che Talete, all’alba della filosofia, aveva posto a principio di tutte le cose.

Repubblica Robinson 25.3.18
Dr. Sigmund & Mr. Shakespeare
Lo scrittore che ha portato Freud a teatro lo rilegge, adesso, con gli occhi del Bardo. Profetici?
di Stefano Massini

Vietate il teatro ai minorenni, perché è roba da adulti. E vietatelo però anche ai maggiorenni, perché nasce dai bambini. Sembra un paradosso, ma non lo è affatto. Perché è vero che in termini freudiani niente è più destabilizzante che un palcoscenico, autentico limbo in cui la realtà si sfuma in finzione, camuffando la denuncia sotto l’alibi della metafora. Per cui sì, in effetti il teatro — quello vero, intendiamoci — è in teoria prerogativa pura dei bambini, e al tempo stesso (proprio per questo) un sacrificio cruento da vietarsi ad anime suggestionabili. Sarà che i piccoli apprendisti della vita sono gli esseri più che mai in rapporto con la verità, da loro osservata senza filtri: è ciò che rende splendido e spietato il loro giocare. Ma anche i sogni non procedono in fondo allo stesso modo? Con innocenza infantile, inscenano verità insostenibili.
Ed eccoci alla ragione per cui Sigmund Freud ne sapeva di teatro né più né meno di un Eschilo o di un Kean. Si narra che le opere di Shakespeare occupassero uno scaffale bene in vista dietro la sua scrivania: quasi un monumento. E d’altra parte aveva solo otto anni quando per la prima volta il Bardo entrò nella sua mente di bambino, trovando in lui un lettore appassionato e ingordo. Cosa che negli anni a venire lascerà un bel segno, eccome. Tanto per chiarirci: c’è ben di più di quel — pur celebre — passaggio de L’interpretazione dei sogni in cui Freud si serve di Edipo e di Amleto come due modelli opposti del desiderio infantile, laddove il re di Tebe tradusse l’impulso in fatto, mentre il principe di Elsinore — incapace di ardire tanto — rappresentava la psicosi di chi rimane vittima del proprio segreto inespresso.
Il punto è che tutto il lavoro di Freud sembra davvero un grande omaggio al teatro, alla sua antica funzione di rito caustico, inaudito, preposto alla narrazione spudorata degli abissi umani. Proviamo a prescindere da Edipo e da Amleto, su cui già molto è stato detto e scritto: è un caso che la conferma delle teorie freudiane si trovi sempre in qualche pagina shakespeariana? Pare davvero che ci fosse una salda intesa fra Vienna e Stratford- upon- Avon. Prendete La Tempesta: sembra scritta su dettatura di Freud, con quella triade Calibano- Ariel-Prospero che rispecchia l’Es-Io-SuperIo. Calibano è lo spirito della terra, godurioso, violento, privo di contegno morale, ovvero quello che Freud definiva il nostro Es, istinto bestiale votato solo al conseguimento del piacere; opposto a Calibano è invece l’ordinamento sociale, il SuperIo tirannico da cui discendono schemi e censure, qui impersonato dal mago Prospero che non per nulla tiene l’altro alla catena. Fra i due è infine Ariel, ancora sottoposto a Prospero ma privo delle bassezze di Calibano, rappresentando l’Io mediatore e pratico, fonte di decisioni e azioni, cosicché in tutta l’opera è proprio Ariel a tessere gli eventi.
Oppure pensiamo a Romeo e Giulietta, in cui l’amore fra i due ragazzi veronesi si traduce in un sabba di morte: sembra di leggere le pagine in cui Freud ascrive fra le frecce oniriche proprio la rappresentazione per opposti. E dunque Romeo e Giulietta, così bramosi di offrirsi reciprocamente l’esistenza, non riescono a sognare se di darsi morte a vicenda, peraltro su consiglio dello stesso frate che ne ha celebrato le nozze: costrutto tipicamente onirico. È insomma un equilibrio delicato, quello dei sogni, un capovolgimento di prospettiva in cui il potente si riscopre debole, la belva è un agnello, e perfino Riccardo III, il gobbo sovrano che ha fatto versare sangue a fiotti, si trova a fare i conti con un incubo ribaltato, dove sono le sue vittime a dargli la caccia. Terrorizzato, Riccardo si sveglia di soprassalto chiedendosi perché mai la propria mente gli si stia ammutinando contro. Freud dimostrerà che in fondo il sogno è proprio questo: un ammutinamento nel nome della verità, un’insurrezione contro la coscienza, seppure sotto forma di mascherata. Niente più della foresta fatata del Sogno di una notte di mezza estate, fra le cui fronde tutto assume una parvenza diversa: ci si innamora di chi si odiava, si fugge chi si cercava e magari ci si trova perfino con un muso da somaro attaccato sul collo. Dopodiché al risveglio, nell’ultimo atto, tutto si conclude — guarda caso — in un teatro, unico luogo dove il sogno e la realtà procedono per mano, e chi se ne importa se a recitare sono degli artigiani senza alcun talento.
Freud e Shakespeare sembrano ripeterci insieme che il sogno sta alla vita degli uomini esattamente come il teatro sta alla società. Si tratta di visioni solo in apparenza vacue, marchiate come poco credibili in nome di un austero veto razionale, mentre invece non c’è esistenza che possa resistere senza quel formidabile altrove. Per dirla con Macbeth: l’uomo è un attore, che si pavoneggia sulla scena del mondo. Aggiungerà Freud tre secoli dopo: l’uomo sarà anche un attore, ma il più grande teatro è quello che va in scena ogni notte nel suo cranio. Sipario.

e il «disturbo bipolare» sempre oggi sul Corriere...
Corriere Salute 25.3.18 
Una vita fra altissimi e bassissimi
Il 30 marzo, compleanno di Vincent Van Gogh, è la giornata dedicata al «disturbo bipolare», la sindrome, (di cui il pittore soffriva) in cui si alternano periodi di euforia e depressione. Oggi esistono terapie che aiutano a controllarla, ma chi è più esposto può ridurne il rischio modificando le proprie abitudini


Corriere Salute 25.3.18
C’è un «bipolarismo » che non piace a nessuno
La sindrome maniaco-depressiva ha sempre meno segreti. Recenti studi hanno iniziato a individuare alterazioni nella struttura e nelle funzioni cerebrali di chi ne soffre. E ora si sa anche che ridurre le sostanze d’abuso e la perdita di ore di sonno può abbassare il rischio di svilupparlo se si è predisposti
di Danilo di Diodoro


Tutti sperimentano sbalzi dell’umore, più allegro in certi giorni, più cupo in altri, ma per alcune persone queste variazioni sono talmente ampie da diventare un vero disturbo psichico, il cosiddetto Disturbo bipolare , al quale è dedicata la giornata mondiale del 30 marzo, compleanno di Vincent Van Gogh, il geniale pittore olandese che ne soffriva.
È caratterizzato da periodi di eccitazione (fase maniacale ) e periodi di depressione (fase depressiva ). Ne esistono due tipi: il tipo 1, nel quale si alternano fasi maniacali (o ipomaniacali , ossia di eccitazione moderata) e fasi depressive; il tipo 2, nel quale si alternano fasi ipomaniacali e depressive senza che si presentino fasi maniacali vere e proprie. Recenti studi realizzati con Risonanza Magnetica funzionale hanno mostrato alterazioni nella struttura e nelle funzioni cerebrali di chi ne soffre. In particolare è emersa una riduzione delle normali connessioni tra l’area prefrontale della corteccia cerebrale e strutture profonde del sistema limbico, come l’amigdala. L’area prefrontale tiene sotto controllo le emozioni e gli impulsi elaborati dal sistema limbico, così che, quando tale controllo non funziona, si genererebbero i tipici sbalzi di umore. Questa riduzione delle connessioni è forse conseguenza di un errore nello sviluppo del cervello, in particolare della cosiddetta migrazione neuronale, che porta i neuroni a collocarsi proprio là dove devono essere. Ma non è tutto qui. «Anni di ricerche hanno permesso di comprendere il complesso rapporto tra fattori biologici, personologici e ambientali che contribuiscono all’insorgenza e alla progressione del disturbo» spiega Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di neuroscienze degli ospedali Fatebenefratelli-Sacco di Milano. «Per quanto attiene a quelli biologici, è stato osservato come questo disturbo abbia un andamento familiare, ripresentandosi nel corso delle generazioni nella stessa famiglia, anche se non si eredita la malattia, bensì una predisposizione ad ammalare che però necessita di “fattori di attivazione” ambientali o psicologici. Quindi avere un genitore con questo disturbo non significa per forza svilupparlo. L’esposizione a sostanze d’abuso, cattive abitudini di vita, soprattutto relativamente al sonno, contribuiscono in misura determinante allo sviluppo e alla progressione della malattia».
Chi soffre di un disturbo bipolare non ha vita facile, dato che gli episodi di mania o depressione tendono a ripetersi. Secondo quanto riportato in un recente studio pubblicato sul Journal of Affective Disorders da Michael Gitlin e David Miklowitz del Department of Psychiatry della Geffen School of Medicine at Ucla di Los Angeles, nonostante l’utilizzo di farmaci stabilizzatori dell’umore, dopo 4 anni da un episodio il rischio di averne un altro è di circa il 50%, e a 5 anni fino al 60-80%.
«Il Disturbo bipolare interferisce con la vita» riprende Mencacci. «Spesso l’insorgenza è precoce, anche in adolescenza. Se non curato, l’alternarsi di fasi depressive e maniacali produce una continua interruzione nel percorso vitale, impedendo il raggiungimento di obiettivi formativi, lavorativi e relazionali. Si interrompono studi, carriere e relazioni affettive. L’individuo alterna periodi di euforia e iperprogettualità a fasi di solitudine e disperazione. Se la prima condizione mette a dura prova il sistema di affetti e relazioni per i comportamenti disinibiti, rischiosi o aggressivi, la seconda presenta spesso sentimenti di colpa, rovina ed elevato rischio suicidario. Tra tutte le patologie psichiche è quella che si associa alla probabilità più elevata di suicidio. Il sonno diventa un elemento guida nella cura. Ridotto marcatamente nelle fasi che precedono l’euforia con una sensazione soggettiva di benessere, è alterato e insoddisfacente nelle fasi depressive».
Il trattamento del disturbo bipolare, specie delle fasi maniacali, è reso difficile dalla scarsa collaborazione di chi ne soffre e dal rischio di mancata aderenza alle prescrizioni. Si basa sull’impiego di farmaci, ma anche di alcune forme di psicoterapia, come quella psicoeducazionale , soprattutto nella fase di mantenimento, quando si cerca di evitare una ricaduta. «I farmaci puntano alla stabilizzazione dell’umore e al miglioramento del ciclo del sonno, mentre gli interventi sugli stili di vita e di tipo educativo mirano a permettere a paziente e familiari il riconoscimento precoce dei segnali di una prossima ricaduta maniacale o depressiva» conclude Mencacci. «L’obiettivo è stabilizzare il tono dell’umore, fondamentale per la ripresa di un’esistenza progettuale. Il trattamento d’elezione è ancora basato sui sali di litio, anche se da alcuni anni sono disponibili antipsicotici di seconda generazione, più efficaci del litio in certe forme. Alcune di queste molecole hanno sicurezza e tollerabilità superiore. Quando è presente il rischio di suicidio, il litio resta però l’unica molecola di dimostrata efficacia».

Corriere Salute 25.3.18
Euforici, spericolati, logorroici Con un’esagerata fiducia in se stessi
di D. d. D.


L’episodio maniacale è la manifestazione più eclatante del disturbo bipolare, quella che lo caratterizza in maniera inconfondibile. Chi ne soffre manifesta umore euforico, accompagnato da disinibizione e da una peculiare apertura verso gli altri, alla ricerca di continui stimoli e attività sociali. Spesso presenta comportamenti di spesa irragionevole, di infedeltà coniugale , di ricerca di amicizie o amori passati. Le persone coinvolte prima sono frastornate, ma poi si rendono conto di essere di fronte a comportamenti strani o bizzarri che facilmente sfociano in modalità offensive. Ma chi è in stato maniacale sembra non rendersene conto, si sente pieno di energia e si comporta in maniera spericolata, essendo sorretto da una spropositata fiducia in se stesso. Si lancia in avventure imprenditoriali incontrollate, non è mai stanco, dorme pochissime ore per notte e sembra non avere mai bisogno di sonno, tanto da poter restare sveglio per giorni e giorni. Il suo pensiero corre veloce, i discorsi si soffermano su dettagli che per gli altri sono insignificanti.
Frequente il passaggio improvviso da un argomento all’altro, in una sorta di flusso continuo nel quale si inseriscono battute di spirito, barzellette e storielle. L’interlocutore è sopraffatto e sconcertato. Questa gioiosa e spregiudicata fiducia in se stessi è anche il motivo per cui è difficile convincere chi si trova in fase maniacale ad assumere i farmaci necessari per riportarlo con i piedi per terra.

Corriere Salute 25.3.18
Anche bambini e adolescenti sono colpiti dal disturbo bipolare
Nei ragazzi è più facile sbagliare diagnosi
di D.d.D.


Anche bambini e adolescenti sono colpiti dal disturbo bipolare, con possibili effetti su sviluppo e funzionamento psicosociale. Ne soffrono circa il 2 per cento dei ragazzi, sia nella forma 1 sia nella forma 2 del disturbo.
«Nell’adulto il tempo medio per arrivare a una diagnosi è di due anni, ma nei ragazzi si dilata, producendo effetti deleteri» dice il professor Claudio Mencacci. «Le manifestazioni sono lievemente diverse rispetto alla forma adulta, con prevalenza di irritabilità rispetto alla classica euforia, e con meno pause libere tra gli episodi. Il frequente abuso di alcol e sostanze, a cui sono più esposti gli adolescenti, diventa un ulteriore fenomeno confondente. A volte i sintomi della fase maniacale si accompagnano a disturbi del pensiero o della percezione spingendo a formulare diagnosi di tipo schizofrenico, che ritardano l’inizio di trattamenti appropriati. In altre occasioni le fasi depressive sono trascurate o trattate con antidepressivi non adeguatamente monitorati, con un peggioramento delle condizioni cliniche».
Se è vero che gli episodi di disturbo bipolare giovanile tendono, come quelli dell’adulto, a risolversi, le crisi possono ripresentarsi. Boris Birmaher del Department of Psychiatry dell’University of Pittsburgh Medical Center, ha condotto uno studio pubblicato sull’ American Journal of Psychiatry , dopo aver seguito ragazzi bipolari per oltre cinque anni. Lo studio ha mostrato che il 25 per cento di loro è rimasto con un normale tono dell’umore per la quasi totalità del tempo di osservazione, mentre il 35 per cento non ha avuto sbalzi per quasi la metà del tempo di osservazione; infine, il 19 per cento ha avuto un umore normale per il 43 per cento del tempo di osservazione e il 22 per cento ha mostrato la situazione peggiore, con solo il 12 per cento del tempo di osservazione durante il quale il tono dell’umore era normale.
Altri studi, come quello condotto da Barbara Geller, del Department of Psychiatry della Washington University di Saint Louis, e pubblicato sugli Archives of General Psychiatry , indicano che tra ragazzi che avevano sofferto di disturbo bipolare già attorno agli 11 anni, una volta giunti ai 18 o poco oltre, la percentuale di chi aveva sofferto di altri episodi era del 44 per cento, e quella di chi aveva fatto uso di sostanze del 35 per cento.
La cura del disturbo bipolare in età pediatrica e giovanile si avvale degli stessi strumenti a disposizione per l’adulto. Ci sono maggiori difficoltà nel far accettare modifiche degli stili di vita necessarie alla stabilizzazione clinica. Ad esempio è difficile motivare un adolescente, abituato a frequentare le discoteche, a mantenere un buon ciclo sonno-veglia con almeno otto ore di sonno per notte. Ancor più importante, rispetto all’adulto, sono il sostegno, volto ad aiutare il ragazzo ad accettare la presenza della patologia nella propria storia e a tollerare la regolare assunzione dei farmaci, oltre a interventi informativo-educativi sui familiari. Il disturbo insorto in adolescenza o in età pediatrica mantiene le caratteristiche nel corso del tempo. Il ragazzo deve restare sotto osservazione specialistica per lungo tempo al fine di ottenere una stabilizzazione clinica prolungata, prima di sperimentare una riduzione e poi sospensione dei trattamenti. Lo psichiatra deve valutare attentamente gli effetti indesiderati associati alle varie molecole, prima di operare una scelta. Perciò l’utilizzo di antipsicotici atipici di seconda generazione, con limitati effetti sedativi e sul peso, sono una valida alternativa ai trattamenti con sali di litio»

Corriere Salute 25.3.18
Nei ragazzi è più facile sbagliare diagnosi
di D.d.D.


Anche bambini e adolescenti sono colpiti dal disturbo bipolare, con possibili effetti su sviluppo e funzionamento psicosociale. Ne soffrono circa il 2 per cento dei ragazzi, sia nella forma 1 sia nella forma 2 del disturbo.
«Nell’adulto il tempo medio per arrivare a una diagnosi è di due anni, ma nei ragazzi si dilata, producendo effetti deleteri» dice il professor Claudio Mencacci. «Le manifestazioni sono lievemente diverse rispetto alla forma adulta, con prevalenza di irritabilità rispetto alla classica euforia, e con meno pause libere tra gli episodi. Il frequente abuso di alcol e sostanze, a cui sono più esposti gli adolescenti, diventa un ulteriore fenomeno confondente. A volte i sintomi della fase maniacale si accompagnano a disturbi del pensiero o della percezione spingendo a formulare diagnosi di tipo schizofrenico, che ritardano l’inizio di trattamenti appropriati. In altre occasioni le fasi depressive sono trascurate o trattate con antidepressivi non adeguatamente monitorati, con un peggioramento delle condizioni cliniche».
Se è vero che gli episodi di disturbo bipolare giovanile tendono, come quelli dell’adulto, a risolversi, le crisi possono ripresentarsi. Boris Birmaher del Department of Psychiatry dell’University of Pittsburgh Medical Center, ha condotto uno studio pubblicato sull’ American Journal of Psychiatry , dopo aver seguito ragazzi bipolari per oltre cinque anni. Lo studio ha mostrato che il 25 per cento di loro è rimasto con un normale tono dell’umore per la quasi totalità del tempo di osservazione, mentre il 35 per cento non ha avuto sbalzi per quasi la metà del tempo di osservazione; infine, il 19 per cento ha avuto un umore normale per il 43 per cento del tempo di osservazione e il 22 per cento ha mostrato la situazione peggiore, con solo il 12 per cento del tempo di osservazione durante il quale il tono dell’umore era normale.
Altri studi, come quello condotto da Barbara Geller, del Department of Psychiatry della Washington University di Saint Louis, e pubblicato sugli Archives of General Psychiatry , indicano che tra ragazzi che avevano sofferto di disturbo bipolare già attorno agli 11 anni, una volta giunti ai 18 o poco oltre, la percentuale di chi aveva sofferto di altri episodi era del 44 per cento, e quella di chi aveva fatto uso di sostanze del 35 per cento.
La cura del disturbo bipolare in età pediatrica e giovanile si avvale degli stessi strumenti a disposizione per l’adulto. Ci sono maggiori difficoltà nel far accettare modifiche degli stili di vita necessarie alla stabilizzazione clinica. Ad esempio è difficile motivare un adolescente, abituato a frequentare le discoteche, a mantenere un buon ciclo sonno-veglia con almeno otto ore di sonno per notte. Ancor più importante, rispetto all’adulto, sono il sostegno, volto ad aiutare il ragazzo ad accettare la presenza della patologia nella propria storia e a tollerare la regolare assunzione dei farmaci, oltre a interventi informativo-educativi sui familiari. Il disturbo insorto in adolescenza o in età pediatrica mantiene le caratteristiche nel corso del tempo. Il ragazzo deve restare sotto osservazione specialistica per lungo tempo al fine di ottenere una stabilizzazione clinica prolungata, prima di sperimentare una riduzione e poi sospensione dei trattamenti. Lo psichiatra deve valutare attentamente gli effetti indesiderati associati alle varie molecole, prima di operare una scelta. Perciò l’utilizzo di antipsicotici atipici di seconda generazione, con limitati effetti sedativi e sul peso, sono una valida alternativa ai trattamenti con sali di litio»

Corriere Salute 25.3.18
Farmaci
La lunga vita del litio, utilizzato da settant’anni


Utilizzato già dalla metà del XIX secolo come sonnifero e anticonvulsivante e per gli stati di nervosismo generale, dal 1871 il litio, grazie a William Hammond, professore di Diseases of the Mind and Nervous System al Bellevue Hospital Medical College di New York, iniziò a essere impiegato per il trattamento degli stati maniacali. Più o meno nello stesso periodo lo psichiatra danese Frederik Lange provò a usarlo per la profilassi della depressione, ma poi nella prima metà del XX secolo il litio fu dimenticato. L’uso recente per il trattamento della mania risale al 1949, dunque sono ormai quasi settant’anni che è sulla breccia. La sua approvazione da parte della Food and Drug Administration (FDA) americana è del 1970, e da allora è stato prescritto a migliaia e migliaia di persone affette da disturbo bipolare. Tuttavia negli ultimi anni sono diventati disponibili altri trattamenti farmacologici, come il valproato e la carbamazepina.

Corriere La Lettura 25.3.18
Filosofi? Solo nel weekend
Il rapporto dialettico tra servo e signore, evocato da Hegel e analizzato da Kojève, chiama gli intellettuali all’impegno fuori dai loro circoli chiusi
Ma forse i pensieri più originali sono invece frutto dell’ozio, dei momenti in cui ci si distacca dalle preoccupazioni mondane
di Mario Bonazzi

«È stato terribile. Alla conferenza si sono presentati più di 300 giovani, si è dovuto cambiare sala, e ciò nonostante la gente era seduta per terra. Se si pensa che una cosa del genere capita solo per le conferenze di Sartre!». Gli inizi erano stati ben diversi. «E sì che quando ho iniziato a parlare all’École (l’École Pratique des Hautes Études, una delle grandi istituzioni francesi, ndr ) erano presenti a malapena una dozzina di persone!». Ma che dozzina: in quell’auletta si confondevano, tra occhiali rotondi, odore di lacca e colletti inamidati, con tutto il loro bagaglio di piccole perfidie e grandi idee, Jacques Lacan e Hannah Arendt, Raymond Queneau e Raymond Aron, Maurice Merleau-Ponty ed Eric Weil, George Bataille e Roger Caillois, e forse anche André Breton e Leo Strauss. Figure eccentriche, in quel momento, quasi tutti giovani, in fuga da qualcosa o da sé stessi, ma destinati a ben altro futuro. Le lezioni erano estenuanti — «il corso mi ha sfinito, annientato, ucciso dieci volte», scriveva Bataille — un commento pressoché infinito di alcune pagine di uno dei testi in assoluto più difficili mai scritti, la Fenomenologia dello Spirito di Hegel.
A officiare, in un rito che si sarebbe rinnovato ogni settimana per sei anni (dal 1933 al 1939), era Alexandre Kojève, un giovane emigrato russo nato nel 1902, esule in fuga dalla rivoluzione bolscevica, ma forse una spia dei servizi segreti sovietici, nipote di Vasilij Kandinskij, seduttore implacabile — di lui si è detto tutto e il contrario di tutto —, senza dubbio il signore assoluto della scena filosofica parigina.
A questo gruppo, davvero inimitabile, è dedicato il bel saggio di Massimo Palma, appena pubblicato da Castelvecchi, Foto di gruppo con servo e signore .
Più precisamente, tutto girava intorno a poche pagine. Pagine oscure, astruse, a volte incomprensibili; ridicole e tragiche allo stesso tempo: così come ridicola e tragica allo stesso tempo è la vita degli esseri umani, che era poi il tema di fondo di quelle lezioni e di quel libro. Si raccontava il viaggio della coscienza (che poi saremmo noi) in cerca del significato della propria esistenza, di un posto nell’universo, e del bisogno di essere riconosciuti: perché in un mondo senza più Dio, senza più un Dio che ci osserva, è solo così, vale a dire nel riconoscimento reciproco, che potremo dire di essere vissuti realmente.
Diversamente è la natura che si ripete eternamente identica a sé stessa, bellissima ma silenziosa, indifferente, estranea: «Senza alcun dubbio la singola mosca muore, ma queste mosche qui sono le stesse dell’anno passato. Quelle dell’anno passato sono forse morte? Può essere, ma nulla è scomparso. Le mosche restano uguali a sé stesse come le onde del mare» (Bataille). Non basta, non può bastare. La storia nasce come negazione di questa unità indistinta della natura, quando questi esseri inquieti che sono gli uomini iniziano la loro battaglia contro l’angoscia del nulla, alla ricerca di sé stessi, per dimostrare che non siamo qui per caso, come mosche o foglie.
Per questo cerchiamo gli altri, ne abbiamo bisogno, come di uno specchio che rifletta e ci riveli nella nostra inimitabile specificità, nel nostro valore. «La realtà umana è sempre sociale», scrive Kojève, l’uomo è l’animale politico: solo gli dèi e le bestie vivono da soli; «l’uomo reale e vero è il risultato della sua interazione con altri». Il problema, però, è che questo desiderio di riconoscimento è sempre foriero di conflitti e tensioni: la mia affermazione, il riconoscimento della mia importanza, passa per la negazione dell’altro. È la dialettica tra servo e padrone, il cuore della Fenomenologia : solo chi osa, chi è pronto a mettere tutto in discussione, potrà affermarsi. «Conflitto è padre di tutte le cose, e alcuni li fa liberi altri schiavi»: persino l’oscuro Eraclito diventava chiaro grazie a Hegel e Kojève. Con una sorpresa finale, un’inversione paradossale dei ruoli: il padrone, affidando tutto al suo sottoposto, finisce per dipendere da lui, che in questo modo scoprirà la sua forza, prendendo il sopravvento. E via di seguito, di rovesciamento in rovesciamento: così procede la storia, quando i vinti rialzano la testa.
Teorie astruse? Forse, ma non prive di una loro attualità. Perché in fondo trasmettevano un insegnamento molto semplice: che non esistono anime belle, che quello che siamo dipende dal rapporto che costruiremo con gli altri, dalla determinazione con cui affronteremo le sfide della vita. Solo agendo, esponendosi al rischio dell’insuccesso (della morte, scriveva Hegel), si può sperare di realizzare qualcosa.
Era anche una critica sferzante agli intellettuali, chiusi nei loro giardini e nelle loro parrocchie, sempre intenti a discutere tra loro: schiavi dunque dei loro pregiudizi così come la tanto vituperata folla dei non iniziati lo è dei propri; e per questo incapaci di comprendere la realtà che li circonda; destinati a essere superati dal corso degli eventi. Niente male come lezione, mentre le truppe naziste si apprestavano a marciare su Parigi.
Poi tutto era cambiato. Sempre funambolico, ma in fondo coerente con le sue idee, dopo la guerra Kojève aveva repentinamente abbandonato il mondo accademico, entrando nell’amministrazione, al ministero degli Affari economici, dove divenne in breve tempo un’eminenza grigia della politica commerciale francese, invincibile nelle negoziazioni internazionali («quando le altre delegazioni vedevano arrivare Kojève, e in special modo se lo vedevano arrivare solo, era il panico», ricordò dopo la sua morte un funzionario che gli era stato collega per anni). Sembrava il Talete di cui aveva parlato Platone, quello che cade nel pozzo perché assorto nella contemplazione del cielo. Si era rivelato come il Talete di Aristotele, che, grazie alla conoscenza del cielo e dei fenomeni atmosferici, aveva preso il controllo di tutti i frantoi, «dimostrando che per i filosofi avere successo è veramente facile — se solo lo vogliono». Per la filosofia non restava ormai che il fine settimana: e «filosofo della domenica» Kojève sarebbe diventato per tutti, secondo la folgorante definizione di Raymond Queneau.
Del resto — e questo è l’ultimo paradosso di un pensatore che viveva di paradossi — è in fondo proprio la domenica il giorno decisivo, quando finalmente ci si ferma e la cosa più importante forse si rivela. La saggezza, la serenità raggiunta. L’avevano inseguita tutti, la trovò forse il solo Queneau, tra tutti l’allievo più imprevedibile, lo scrittore capace di esprimere la filosofia del maestro in forma di romanzi (ed è a lui che si deve tra l’altro la trascrizione e pubblicazione dei corsi all’École Pratique — e dunque la creazione del mito di Kojève). E se tutto questo affannarsi nelle azioni e questo correre dietro alle parole non portasse da nessuna parte? E se la saggezza non fosse altro che la capacità di sorridere dello spettacolo d’arte varia (questo è Paolo Conte) e strampalata che sono gli uomini e le loro vite? Né servi né padroni, senza bisogno di essere riconosciuti o di riconoscere?
Lo aveva ammesso persino il grande Hegel, in un momento di rara lucidità: «In questa sfrenatezza priva di preoccupazioni è implicito il momento ideale: è la domenica della vita, che tutto uguaglia e che allontana ogni cattiveria; persone che sono così cordialmente di buon umore non possono essere del tutto cattive o basse». Anche Kojève alla fine gli aveva dato ragione: «Queneau ha riassunto la Fenomenologia dello Spirito scrivendo Zazie nel metro . Zazie era venuta a Parigi per vedere la metropolitana. Ma la sola volta in cui ci andò, s’addormentò e non vide nulla. Ecco il romanzo della saggezza». Se fosse proprio così, e tutto qui? I pensieri più impertinenti vengono quando si ozia — di domenica, insomma — e forse sono i migliori.
O forse non è così, e neppure questa soddisfazione — una «negatività senza impiego», diceva Bataille — riuscirà a placare l’ansia tutta umana di agire, combattere, costruire? La mosca non smette di ronzare, disturbando il pensiero; la storia continua…

Corriere La Lettura 25.3.18
La rivoluzione fuma l’oppio

Se si guarda in faccia la crisi del pensiero rivoluzionario senza cercare scuse consolatorie, l’unica alternativa alla rassegnazione è la riscoperta della dimensione religiosa. Semplificando al massimo, si può riassumere così la densa riflessione che Romano Màdera, filosofo e psicoanalista, ha premesso alla riedizione del suo saggio Identità e feticismo del 1977, riposto ora con altri scritti dalle edizioni Mimesis con il titolo Sconfitta e utopia (pp. 236, e 20). La prospettiva millenaristica indicata da Karl Marx, nota Màdera, non discende affatto dalla sua pur lucida descrizione del capitalismo. Può quindi ritrovare un senso solo se reinnestata nel solco della tradizione giudaico-cristiana e indirizzata verso una «riforma della spiritualità mondiale». Che rivincita, per l’«oppio del popolo».

Corriere La Lettura 25.3.18
Intellettuali
La militanza radicale nuoce all’antropologia
Sulla scorta di autori come Toni Negri e Agamben ha preso piede una visione per cui lo Stato è sempre diabolico
di Stefano Allovio e Adriano Favole

Un evento certo non trascurabile nella storia dell’umanità è quello che Hakim Bey, nel libro T.A.Z. Zone Temporaneamente Autonome (SheKe), definisce la «chiusura della mappa»: da più di un secolo, piaccia o no, gli esseri umani sono (in un certo senso) tutti inseriti all’interno di istituzioni statali o lottano per o contro qualche Stato. Nessun angolo di mondo è ormai fuori da qualche forma di Stato. Chi fugge senza avere il diritto di entrare in un altro Stato vive in un limbo pericoloso: lo sanno bene i 27 migranti che nel maggio del 2007 restarono in bilico sulle passerelle di una gabbia per la pesca dei tonni nelle acque del Mediterraneo.
Se gli umani non possono più scegliere se appartenere o meno a qualche Stato, gli scienziati sociali possono ancora scegliere a quale immagine dello Stato affidarsi. È qui che irrompe una forte dicotomia: lo Stato come istituzione cattiva, repressiva, violenta, produttrice di disuguaglianze e sopraffazione (lo Stato diavolo) oppure lo Stato come buon padre di famiglia, garante del bene comune e dei diritti individuali (lo Stato divino). A ben vedere, entrambe le immagini sono univoche e ideologiche. Nonostante ciò, se gli antropologi culturali hanno da tempo smascherato la caricatura santificante (lo Stato buono) che le autorappresentazioni istituzionali spesso producono, non si può dire che essi abbiano con ugual forza e convinzione smascherato la caricatura demonizzante (lo Stato cattivo). Eppure, in virtù del loro tipo di sguardo, spetterebbe agli antropologi un’analisi attenta alla complessità, al contesto storico e sociale.
Questo e molto altro denuncia Fabio Dei, con lucidità e un’accesa vis polemica, in un saggio incluso in una recente raccolta da lui curata con Caterina Di Pasquale, Stato, violenza e libertà (Donzelli). Il motivo per cui molti antropologi (ma anche altri studiosi, dai sociologi ai politologi) sono caduti nella trappola che consiste nell’idea che lo Stato sia la fonte di tutti i mali — una visione alquanto essenzialista e monolitica, in effetti — è l’irrompere di un codice espressivo che si pretende engagé e politicamente radicale. È un simulacro di filosofia che Barbara Carnevali ha definito Theory ( Contro la Theory , leparoleelecose.it), una sorta di scolastica che annovera, in un mix caotico, frammenti di Marx, letture «pop» di Michel Foucault, Jacques Derrida e Gilles Deleuze, citazioni di Giorgio Agamben, Gayatri Spivak, Toni Negri e altri cantori del sospetto radicale: per quanto concerne in specifico l’antropologia, la Theory è riconducibile ai post-colonial studies e soprattutto alla critical anthropology . Gli autori che si riconoscono in tali prospettive amano identificare le norme statali solo con il loro ruolo repressivo e liquidare la «cultura» (il cui studio rappresenta la storica ragion d’essere dell’antropologia culturale!) come «puro rivestimento ideologico degli interessi di potere». Lo Stato diviene così l’Impero del Male che contamina ogni simbolismo, ogni possibilità di condivisione, ogni contesto di vita vissuta. Lo Stato repressivo e i suoi camuffamenti, tra cui la democrazia progressista e i diritti umani, divengono un’essenza e, paradossalmente, una sorta di condizione «naturale» dell’umanità, priva di vie di fuga.
Il cardine dell’antropologia critica — scrive Dei — è l’impegno militante al fianco dei dannati della terra (colonizzati, migranti, proletari, donne, neri, persone omosessuali o transessuali). Ne consegue che tutta l’antropologia diventa antropologia politica e orienta — aggiungiamo noi — i suoi interessi esclusivamente verso la sofferenza, e la violenza, facendo calare una coltre tematica e interpretativa monocolore. Una dark anthropology per dirla con Sherry Ortner.
Attenzione, spiega Dei, è fuor di dubbio che le discriminazioni e le disuguaglianze verso i soggetti subalterni sono uno dei grandi problemi del tardo capitalismo, ma la Theory e il suo braccio antropologico (la critical anthropology ) usano toni totalizzanti, non ammettono ambivalenze e sfumature, non tracciano vie di uscita. L’Impero si annida tanto nelle democrazie quanto nei totalitarismi, nelle agenzie umanitarie come nei sistemi repressivi, tutto è manifestazione del sistema «neoliberista» che deve essere svelato e denunciato con forza.
L’impressione è che si vada, lancia in resta, a lottare al fianco degli ultimi. In realtà il radicalismo attuale non è così ingenuo da avanzare linee di azione, «gli basta fornire gli strumenti della distinzione intellettuale e sociale dei suoi proponenti». Tale postura produce «l’odierna marginalizzazione dalla sfera pubblica delle discipline egemonizzate dalla Theory . Non perché troppo eversive e temute dal Potere, come a molti piace pensare, ma perché autoreferenziali e grandiosamente distaccate dal buon senso». Si preferisce un gergo esoterico («forclusione», «nuda vita», «stati di eccezione») alla mediazione con il linguaggio comune; si rinuncia in realtà a instaurare ogni rapporto gramscianamente «organico» con i gruppi che si vorrebbe difendere. L’esito pare essere una deriva piuttosto preoccupante, già presente nelle riflessioni di fine millennio degli antropologi-guru della svolta critica. Fabio Dei guarda all’antropologia medica e porta l’esempio di Nancy Scheper-Hughes. L’antropologa americana riduce la malattia a una implicita contestazione del sistema di potere e gli interventi terapeutici ad azioni controrivoluzionarie che, facendo evaporare gli «spiriti della resistenza», inculcano gli «spiriti del capitalismo»; insomma, osserva satiricamente Dei, «è bene che i poveri tagliatori di canna brasiliani non si facciano curare perché gli accademici radicali nordamericani possano parlare di rivoluzione».
Occorre ribadire che Dei non è certo un negazionista rispetto ai crimini del colonialismo, né un sostenitore del fatto che viviamo epoche di genuina decolonizzazione. Si tratta anzi di uno dei più attenti studiosi della violenza, dei suoi contesti e delle sue trasformazioni e mascheramenti storici. E qui sta il punto. Il problema è che la Theory non ci permette affatto di capire le nuove forme del colonialismo. Perché, come abbiamo detto, naturalizza lo Stato diabolico. A differenza delle prospettive interpretative e riflessive, la Theory prende congedo dai contesti di significato e soprattutto nega il ruolo delle culture, intese in senso antropologico, come snodi di poteri e simboli condivisi. Con il rischio che, liquidata la cultura, liquidata ogni reale possibilità di riformare le istituzioni, non rimanga che un simulacro di homo oeconomicus a definire l’essere umano, producendo così un’imbarazzante convergenza tra la Theory e la sua ossessione neoliberista. Di che riflettere oggi, e ben aldilà dei recinti accademici.

Il Fatto 25.3.18
Legionari di Cristo. “Ecco 15 mila euro se neghi gli abusi”
Nel Novarese - Il rettore del seminario è accusato da tre minori, l’istituto religioso propone una transazione a una delle vittime
di Ferruccio Sansa

“Giorgio dichiara di non ricordare e di escludere di essere stato destinatario o partecipe di comportamenti, atteggiamenti o attività aventi motivo o sfondo sessuale in presenza di padre Vladimir Reséndiz Gutierrez… neppure qualificabili come atti che potevano indurre a comportamenti sessualmente rilevanti o incidenti sulla propria sfera sessuale”. È scritto così nel documento. Lo ha presentato alla Procura di Novara la famiglia di un ragazzo oggi 22enne che sostiene di essere stato vittima, a 13 anni, di molestie sessuali nel seminario dei Legionari di Cristo a Gozzano (Novara).
Nei giorni scorsi l’ex rettore del seminario, appunto padre Reséndiz (oggi in Messico), è stato rinviato a giudizio per violenza sessuale a carico di tre seminaristi all’epoca minorenni.
Ma il punto oggi pare un altro: quei due documenti – di cui il Fatto ha copia – con cui i Legionari di Cristo avrebbero voluto chiudere la questione, firmando una transazione con un ragazzo che accusa il sacerdote. Due distinte proposte. La prima, a pagina 3, indica quello che il ragazzo avrebbe dovuto dichiarare “liberamente e spontaneamente con pieno e profondo convincimento”.
Ma andiamo con ordine. È l’inizio del 2013 quando un sacerdote che svolge un servizio di psicologo a Milano si trova davanti un giovane seminarista dei Legionari di Cristo. Giorgio – il nome è di fantasia – viene da una famiglia profondamente cattolica. Ha preso con entusiasmo, giovanissimo, la strada del seminario. Poi all’improvviso la crisi. Addirittura manifesta il desiderio di farla finita. Il sacerdote psicologo della diocesi lo ascolta e alla fine riesce a farlo parlare. Il contenuto di quei colloqui è riportato in una denuncia presentata dallo stesso prete milanese: “Nell’ambito di una serie di colloqui con il giovane Giorgio mi riferiva di essere stato ripetutamente molestato e abusato sessualmente da un prete messicano, padre Reséndiz Gutierrez”.
Comincia subito un’inchiesta per le violenze svolta dalla Procura di Milano e poi passata per competenza a quella di Novara. Ma intanto tra i Legionari e la famiglia di Giorgio cominciano dei contatti. La Congregazione presenta una prima proposta per chiudere la questione. E la famiglia di Giorgio salta sulla sedia leggendone i punti: Giorgio dovrebbe dichiarare “di aver avuto contatti con il Reséndiz nella sua qualità di Prefetto di Disciplina del seminario ed averlo frequentato esclusivamente in occasione di attività di seminario”. Non basta. La Congregazione dei Legionari “al solo fine di incoraggiare e sostenere Giorgio e i suoi genitori nella formazione ed educazione offrono loro una somma complessiva di 15 mila euro”. Ma ci sono delle condizioni: “I genitori e Giorgio rinunciano a qualsiasi azione”, anche alla costituzione di parte civile in caso di procedimento avviato d’ufficio. Il patto è sottoposto a vincolo di riservatezza. In caso di violazione Giorgio e i suoi familiari dovranno “versare alla congregazione una somma doppia di quella riconosciuta” con la transazione.
La famiglia di Giorgio non firma e si rivolge all’avvocato milanese Daniela Cristina Cultrera. Dopo qualche mese arriva un’altra bozza di scrittura privata. Molto più soft. Giorgio deve dichiarare che “la congregazione e tutti i suoi sacerdoti sono sempre rimasti totalmente estranei agli abusi lamentati”. Ancora: “Detti abusi sarebbero stati commessi unicamente ed esclusivamente dal Gutierrez”.
Giorgio e i suoi familiari portano i documenti in Procura. Ne nasce un fascicolo per tentata estorsione per cui i pm di Novara recentemente hanno chiesto l’archiviazione. Ma Giorgio e la sua famiglia non ci stanno. Si oppongono.
Il cronista si è messo in contatto con ambienti dei Legionari che sottolineano: “Padre Reséndiz è stato ridotto allo stato laicale per molestie a carico di altri due ragazzi. Ma nega le accuse di Giorgio. Comunque nessun altro sacerdote del seminario è stato mai indagato o accusato di molestie”. Ma le clausole contenute nei tentativi di accordo secondo cui Giorgio doveva dire di non aver avuto rapporti con il sacerdote accusato di molestie? “Erano soltanto proposte. Volevamo sostenerli nelle difficoltà”.
I legali di Giorgio hanno depositato anche altri documenti. C’è una scheda personale di padre Reséndiz che risalirebbe ai tempi in cui frequentava il Noviziato dei Legionari di Cristo a Salamanca in Spagna (l’atto, in possesso del Fatto, è del 9 gennaio 1994). È scritto: “Si tratta di un ragazzo con fortissimi impulsi sessuali e con bassissima capacità di controllarli”. Eppure, accusa la Rete L’Abuso che difende le vittime di pedofilia, vent’anni dopo guidava il seminario novarese.

Il Fatto 25.3.18
G8, Zucca parlante e mele zitte: ora basta con lo “Stato mostro”
Polemica sul pm di Genova - Il “cesto” delle istituzioni, per non essere “marcio”, dovrebbe pretendere la verità più di ogni altra cosa
di Alessandro Bergonzoni

ucca parlante. Mele sempre in silenzio. Non solo quelle marce, poche per fortuna. Ma anche le altre quelle buone. Che c’entri anche la cassetta o l’albero, il coltivatore o addirittura la terra? Da tempo mi chiedevo in molti incontri, come sperare da un paese come l’Egitto (e ad altri Stati non ultimo la Libia) di aver conto o chiarezza rispetto ai diritti e alla tortura diretta o indiretta. Sarebbe insensato paragonare la democrazia del nostro Stato a quelle di certi Paesi dove si tratta di tabula rasa su ogni fronte. Ma non per questo ci si può astenere, anzi, si deve proprio per questo trasalire e reagire veementemente: il nostro Stato in certi casi è stato il “mostro Stato”.
E non solo non basta arrivare ad ammetterlo stentatamente e contro voglia, ma necessita e urge una piena e forte ammissione di colpa e di connivenze, comunque e senza timore di offendere il corpo della Polizia, dei Carabinieri, degli Assistenti carcerari che anche attraverso questi semisilenzi o incerte ammissioni è offeso da se stesso, ha come martoriato il corpo altrui e quindi il suo, e alla fine il nostro. Possiamo riuscire a difendere proprio tutti questi corpi, contemporaneamente, indissolubilmente, indifferentemente? Sarebbe un capolavoro, artistico antropologico, di democrazia e di politica che nessun distorto antico e illegale senso di corporativismo dovrebbe impedire, una volta per tutte. Non possono più chiederlo solo le famose donne e famiglie dei tanti noti casi (e tutte le storie sepolte e sconosciute…) in cui mele newtoniane sono cadute pesantemente sulla testa di rei e non, comunque sotto la tutela di un corpo di stato, democratico, libero e giusto. Prima ancora che Strasburgo e la sua corte, prima ancora che si capisca se è lecito, umano o morale che un Pm del G8 si esprima in questa o quella maniera, prima ancora che il capo di una polizia decida o sappia cosa è davvero infamante. Cosa c’entrano in questo discorso i tanti eroi delle forze dell’ordine caduti per noi sul campo tutti i giorni, se quelli che hanno violato o ferito sul campo cittadini spesso inermi, sono considerati ancora facenti parte di quel corpo, di quel frutto, di quell’albero e della nostra terra? Ditelo voi allora integerrimi e veri rappresentati dello Stato, che non fate parte di quella raccolta. E se davvero non di dittatura in Italia si tratta, non di ingiustizia, non di inciviltà, dovrebbe esserci un piacere, un dovere quasi in natura per la verità d’ogni corpo in causa. Non dovrebbe ogni rappresentante delle Istituzioni togliersi la rabbia, la paura, l’orgoglio che contageranno l’idea che si farà l’opinione pubblica di tutto questo? Cosa fa più terrore? Ammettere e mai più ripetere o mischiare un po’ di carte per poter permettere ai bari di continuare a invischiare e suicidare? Se fosse arrivato il momento di scoprire e non di coprire il grande incarico universale, di certe forze, non solo dell’ordine ma d’animo? Lo chiede un nuovo apparato ultra statale, esistenziale: il CTAU (Corpo di Tutti Anima Unica). Entraci anche tu!

il manifesto 25.3.18
Rivalutata la volontà popolare a partire dalla Carta
di Carlo Freccero

Fico ha fatto alla Camera un discorso bellissimo e insieme di grande restaurazione. Ha esordito con l’omaggio al presidente della Repubblica, ha proseguito con la centralità del parlamento come luogo in cui trova espressione la volontà popolare.
Ma proprio per il suo voler rivalutare la Costituzione, il suo discorso è stato contemporaneamente innovativo e rivoluzionario. Il primo riferimento che è stato fatto è alla Resistenza come premessa per la creazione della Carta Costituzionale. Ma c’era un secondo fronte a cui faceva tacitamente riferimento: il fronte per il No al referendum renziano. Questo fronte rappresenta la nuova linea di resistenza che ha saputo opporsi all’abrogazione dello spirito di una costituzione che J.P. Morgan ha definito “socialista”. Come può un partito sedicente di sinistra chiedere l’abrogazione proprio di quanto la nostra Costituzione conserva di solidale, a favore di efficienza e globalizzazione?
Il discorso di Fico prende le distanze da gli ultimi governi che hanno pensato di poter ignorare la volontà dei cittadini per esprimere riforme fortemente volute dalle élites internazionali. Lo spirito della Costituzione è stato alterato, conferendo di fatto all’esecutivo, poteri che sono dei cittadini e quindi delle Camere. Negli ultimi anni lo strumento del decreto legge, della legislazione d’urgenza, è stato applicato senza che esistessero quei presupposti che ne giustificano l’uso. Non solo. Il parlamento si è trovato ad approvare leggi frutto non del dibattito parlamentare, ma di pressioni esterne di lobby o organizzazioni internazionali. Emerge, tra le righe, anche il fantasma dell’Europa sempre soggetta più a leggi e normative economiche non espressione del volere popolare. Ed emerge il paradosso per cui, non può esserci democrazia senza comunità di cittadini. Una sorta di sovranismo che però non esclude l’idea di Europa, purché l’Europa sappia ricostruirsi dal basso come comunità. Il discorso di Fico dice che ora la parola deve tornare ai cittadini. E il luogo di espressione della volontà popolare è rappresentato dal Parlamento. Quindi non ammetterà pressioni esterne, leggi poco chiare, scorciatoie verso l’abolizione del dibattito parlamentare. I cittadini devono poter pensare che il parlamento agisca per il bene comune. Si tocca così con mano il concetto di democrazia rappresentativa che vuol esprimere. Non un mandato privo di verifiche, ma un rapporto costante e continuo tra delegante e delegato. Non potendo applicare su scala nazionale il mito della democrazia diretta, la rappresentanza viene nuovamente vista come un rapporto diretto, a briglia corta, tra elettore ed eletto. Sul modello americano nel recente passato abbiamo introiettato un tipo di democrazia che si avvicina più ad una oligarchia o, nella migliore delle ipotesi, ad una aristocrazia.
Pensiamo al dibattito scaturito poco tempo fa intorno a Scalfari, che affermava con certezza che le democrazie moderne sono espressione di élite che agiscono per il bene di un popolo inconsapevole. Il discorso di Fico invece rivaluta la volontà popolare a partire dalla nostra Costituzione. E, devo ammetterlo, apre alla speranza e alla solidarietà. Vigileremo.

La Stampa 25.3.18
Roberto Fico
L’ex ragazzo dei centri sociali, un discorso che seduce la sinistra
Il richiamo ai valori della Costituzione “nata contro il nazifascismo”
di Fabio Martini

Non appena Roberto Fico varca l’uscio e compare nell’aula di Montecitorio, dai loro scranni i deputati dei Cinque Stelle scattano tutti in piedi. Con frenesia insistita e inusuale anche per un’aula incline a spettacolarizzare le emozioni, i peones applaudono a lungo, qualcuno urla. Battimani e pathos che trasmettono il messaggio: finalmente abbiamo conquistato il Palazzo. Un’accoglienza commovente anche per il neopresidente della Camera che infatti, appena ricevuta la parola per il discorso di saluto, esita - forse per l’emozione - prima di cominciare: sette lunghissimi secondi ad armeggiare davanti al microfono. E nell’incipit c’è già una novità nella forma e nel rituale: «Signore deputate, signori deputati...». Solo una piccola innovazione semantica rispetto alle sorprese, più di sostanza, che stanno per arrivare.
Ecco la prima: «Onorerò il mio impegno con la massima imparzialità e il massimo rigore. Desidero rivolgere il saluto mio e di quest’Aula al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella...». E qui scatta l’applauso di tutta l’aula al primo di una serie di passaggi rispettosi verso quelle istituzioni che, soltanto pochi anni fa, si volevano «aprire come una scatoletta». E la seconda sorpresa segue di pochi attimi: Fico parla dei valori che, per essere affermati nella Costituzione, «hanno richiesto il sacrificio di tanti uomini e tante donne nella lotta contro il nazifascismo. Vogliamo ricordare quel sacrificio con particolare commozione proprio oggi, nell’anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine».
E questo punto scatta l’applauso corale, al quale si associano tutti gli onorevoli del Pd e di LeU. Applaudono tutti, convintamente. E dieci minuti più tardi, quando Fico avrà terminato il suo discorso, diversi deputati del Pd - Matteo Orfini, Barbara Pollastrini - continueranno a battere le mani anche ad intervento finito. E fuori dall’aula Nicola Fratoianni, leader di Sinistra italiana, abbraccerà Fico. E allora eccola la sorpresa: l’ex ragazzo dei centri sociali napoletani - che votò il primo Bassolino e la prima Rifondazione comunista - ha fatto un discorso di «sinistra», che ha costretto i deputati della sinistra ad applaudirlo. Il preannuncio di un Movimento che si prepara a prosciugare quel che resta dei partiti della sinistra italiana?
Quarantaquattro anni, campano come Di Maio, Roberto Fico ha una biografia diversa da quella del capo dei Cinque Stelle. Figlio di un dipendente del Banco di Napoli, una laurea in Scienza delle Comunicazione, una giovinezza di lavoretti (impiegato in un call center, responsabile della comunicazione per un ristorante, importatore di tessuti dal Marocco) ma anche di impieghi a tempo indeterminato, Fico politicamente si è fatto le ossa nell’estrema sinistra. Nel 2005 ha aperto il meetup di Napoli «Amici di Beppe Grillo», uno dei primi dieci in Italia. Da presidente della Commissione di vigilanza Rai, ha sempre cercato di mantenere un aplomb istituzionale, restando fedele a quel ruolo di «sinistra» che in lui è sincero, ma che a suo tempo gli fu «assegnato» da Casaleggio senior, che lo apprezzava e che gli consegnò quel ruolo.
Eletto con 422 voti, nel suo completo grigio Fico si è presentato con un discorso scritto. Citando spesso, ma mai in modo partigiano, l’espressione «cittadini», Fico ha implicitamente sfidato l’ortodossia grillina rilanciando una tematica storica della sinistra italiana («Il Parlamento ritrovi la sua centralità»); ha invocato «un taglio dei costi della politica», ma senza citare i vitalizi; ha fatto un esplicito accenno all’uso eccessivo della decretazione d’urgenza da parte dei governi («C’è un abuso di strumenti che dovrebbero essere residuali»), caldeggiando un «lavoro indipendente» del Parlamento, che esprima anche «una visione», ponendo fine ad una legiferazione «confusa e fatta di aggiustamenti continui». Qualche giorno fa Beppe Grillo ha rispolverato un suo antico pensiero: «Roberto? Interpreta la vera anima del Movimento».

Repubblica 25.3.18
Il presidente della Camera
Dai movimenti a Montecitorio
Fico, grillino di sinistra in vetta con la Lega nemica
Guida degli “ortodossi”, contestò Di Maio come capo politico e disse “ Dio ci scampi da Salvini”. Grillo lo esalta: persona civile, un supereroe
di Annalisa Cuzzocrea

ROMA Chissà se lo aveva anche ieri, Roberto Fico, l’immancabile corno rosso nel taschino.
Quando il conteggio sull’iPad dell’amico Luigi Gallo ha gridato 315, e tutti son saltati in piedi ad applaudire mentre lui, nella sala in cui attendono i futuri presidenti, baciava la compagna Yvonne e dava il cinque ad Alessandro Di Battista. Il Movimento 5 stelle - quello che doveva aprire il Parlamento come una scatoletta - ha conquistato la Camera dei deputati. E non è un caso che ieri abbia festeggiato all’hotel Forum fino a tarda notte con Beppe Grillo e Davide Casaleggio. La presa del primo “palazzo” cambia tutto. Aiuta uno spirito unitario messo in crisi più volte, negli ultimi mesi.
Soprattutto perché Luigi Di Maio ha consegnato le chiavi di Montecitorio all’altra anima del Movimento: quella ortodossa che tante volte è sembrata sbarrargli la strada. «Un nuovo supereroe nazionale — scrive Grillo su Facebook — persona integra, civile: un cittadino, Roberto».
Napoletano di Posillipo («il più bel mare del mondo»), tifoso fino alla scaramanzia («Certo che vince la Juve»), ultima vacanza nei Balcani, in macchina per portare anche il cane, Fico è nato nel 1974, ha fatto il liceo Classico al Vomero, si è laureato in Scienze delle Comunicazioni a Trieste, è partito in Erasmus per Helsinki e frequentato un «master in Knowledge Management» organizzato dal politecnico di Milano. Dopo la laurea, progetta reti intranet per un tour operator, lavora in una società di formazione professionale, poi in un call center e in una società di ristorazione a Fuorigrotta.
Insegue Lucio Dalla in giro per concerti fino a diventarne amico e andare con lui a mangiare la pizza quando il cantante è in città. Si diletta con tastiere e fisarmonica con un amico, ora avvocato, che racconta: «Meglio per lui che abbiamo smesso». Gira in autobus, pur essendo considerato un figlio della “Napoli bene”. Ma soprattutto, fa politica.
Volantinaggio per il “rinascimento” di Antonio Bassolino, considerato una speranza tradita. Poi i banchetti con i movimenti dei “beni comuni”, le lotte contro le discariche e gli inceneritori. Nel 2005 fonda a Napoli uno dei primi meet up Amici di Beppe Grillo. Nel 2009, quando nasce il Movimento, è già lì. Si candida a tutto: presidente di Regione, sindaco di Napoli. Prende poco più dell’1 per cento, ma resta l’uomo forte dei 5 stelle in città. Poco amato dai dissidenti: ne fa espellere oltre trenta. È, su tantissime cose, l’esatto opposto di Luigi Di Maio. Il cuore è a sinistra da sempre (ha votato anche Rifondazione); lo stile del tutto antitetico (niente completi di taglio perfetto, ma collanine indigene e braccialetti); i valori spesso differenti. Durante le cariche con gli idranti contro i migranti a piazza Indipendenza a Roma, il capo politico M5S si schierava con il prefetto e Virginia Raggi, mentre Fico diceva: «Uno Stato del genere non mi rappresenta». Quando il suo partito decideva di astenersi sullo Ius soli, lui dichiarava di essere a favore («Per me chi nasce in Italia è napoletano»). Quando Luigi Di Maio in veste leghista tuonava contro le ong taxi del mare, l’altro condivideva video di Erri De Luca e invitava a distinguere. La grande frattura - con colui che nel 2013 alla Camera presentava come un novellino e che sarebbe diventato il capo politico M5S - si è consumata sulla crisi della giunta Raggi a Roma. Sotto i colpi delle indagini su Paola Muraro, Raffaele Marra e Salvatore Romeo, Fico considerava irredimibile quel che Di Maio difendeva. Ci furono scontri, non detti e bugie. I due ruppero per mesi, arrivando a ignorarsi alla festa 5 stelle a Palermo. Di Maio dà interviste sentimentali su Vanity Fair, Fico invita a stare attenti al “vippismo”. Ma il problema è soprattutto politico. Nel gennaio 2017, prima ancora dell’ennesimo scontro sulle regole per la scelta del candidato premier, l’allora presidente della Vigilanza Rai dice in un colloquio con Repubblica: «Mai con la Lega o con Trump, Dio ce ne scampi». Dichiarazione che segue un’intervista che guarda a destra di Grillo al Journal de dimanche e che gli costa un avvertimento di scomunica sul blog. Ancora ieri, nel discorso alla Camera che tanto è piaciuto a Nicola Fratoianni di Leu, il primo valore che cita è quello su cui è fondata la Repubblica, «la lotta al nazifascismo». Assicura «imparzialità e rigore», parla di una comunità da ricostruire dimostrando «ascolto ai cittadini» e assicurando che nessuna illegalità e nessuna ingiustizia sarà trascurata. Ma è eletto, proprio lui, grazie ai voti di Matteo Salvini, Giorgia Meloni e dei forzisti di Silvio Berlusconi. Un modo, per Di Maio, di salvare l’anima nel momento in cui si prepara a nuovi patti. Ma anche una resa a una realpolitik di cui Fico, fino a questo momento, era sembrato il più strenuo oppositore. A meno che non avessero ragione Di Maio e Di Battista, quando su un treno, di ritorno da Milano, nell’aprile 2016, dicevano: «Ortodosso? Roberto è il più pragmatico di tutti noi».

Corriere 25.3.18
Roberto Fico
Il duro 5 Stelle gradito ai rivali «Ora con noi cambia tutto»
di Alessandro Trocino

ROMA «Ora si cambia davvero, grazie ai 5 Stelle. Ma io sarò un presidente di garanzia per tutti, anche per i cittadini». Un Roberto Fico insolitamente incravattato ed emozionatissimo riceve i capigruppo per le congratulazioni di rito. Una scrivania imbandita di pasticcini e bollicine per brindare. Fino all’ultimo ha temuto che saltasse tutto e il discorso, già pronto da giorni, è stato limato in tempo reale. Alla conta assiste negli uffici del gruppo. Il momento in cui diventa matematica l’elezione è immortalato da un video subito diffuso su Instagram, nel quale ci sono l’entusiasmo di Alessandro Di Battista, l’abbraccio con Luigi Di Maio e il bacio con l’amata fidanzata Yvonne De Rosa, anche lei militante 5 Stelle.
L’orientamento a sinistra e una capacità politica non comune tra i 5 Stelle hanno fatto di Fico il punto di riferimento degli «ortodossi», custodi di una linea «democratica», senza deragliamenti a destra . Poi il patto di ferro con Di Maio e l’elezione a presidente della Camera. Una garanzia anche per il Movimento, per depotenziare eventuali riserve sulla Lega (a gennaio disse: «Mai con loro, sono geneticamente diversi»). C’è un Fico pre 5 Stelle: tour operator, impiegato in un call center, responsabile comunicazione di un ristorante, importatore di tessuti dal Marocco. Un Fico 5 Stelle, minoranza cauta e responsabile. E il nuovo Fico istituzionale, che toglie subito ogni riferimento M5S dal profilo Twitter. E riceve elogi dai suoi (per Grillo è «un supereroe», per Di Battista è «l’etica in persona»), ma anche dagli avversari. Come Nicola Fratoianni, di LeU: «Riconosco le sue qualità. E poi mi sta simpatico». Maurizio Lupi, uscendo dal suo ufficio, racconta: «Gli ho detto che ora la sua sfida sarà di passare dalla democrazia diretta a quella parlamentare». Anche se Fico accompagna la «centralità del Parlamento» all’importanza di valorizzare la democrazia diretta, dando «tempi certi» per le leggi di iniziativa popolare. Fico crede davvero nel cambiamento. E del resto, chiosa la sua bio con una frase di Giovanni Falcone: «Possiamo sempre fare qualcosa».

La Stampa 25.3.18
“Se Di Maio farà un governo con Lega finirà linciato sulla pubblica piazza”
Travaglio: finita la collaborazione istituzionale guardi al Pd
di Andrea Carugati

Subito dopo l’elezione della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, sul web sono diventati virali i video dei suoi scontri tv con Marco Travaglio sui processi di Berlusconi. «Lei annunciò che mi avrebbe querelato, ma non è mai arrivato nulla, come nel caso della Boschi», ricorda il direttore del Fatto Quotidiano. Che tuttavia non demonizza la scelta fatta dal M5S: «Per me è ragionevole che il partito e la coalizione che hanno vinto si dividano le presidenze delle Camere. Nel momento in cui il Senato è toccato a Forza Italia, il minimo che poteva capitare era un avvocato che difende l’indifendibile. Rischiavamo di trovarci uno come Giggino ’a purpetta, del resto il personale politico di Berlusconi è questa roba qui. E Casellati almeno non ha condanne. Era molto meglio la Bernini, ma l’ex Cavaliere, pur assai malconcio, non poteva farsi scegliere il presidente da Salvini e Di Maio».
M5S ha fatto un inciucio?
«No, perché non è un accordo sottobanco e non ci sono contropartite inconfessabili. Il Pd nel 2013 si prese tutto e fu molto peggio».
Avremo un governo M5S-Lega con il terzo incomodo Berlusconi?
«Conviene sia a Salvini che a Di Maio chiudere qui questa collaborazione istituzionale. Se facessero un governo insieme, i 5 stelle sarebbero linciati sulla pubblica piazza. Luigi Di Maio diventerebbe l’uomo più scortato d’Italia. E poi hanno due programmi costosi e incompatibili: non si può pensare di realizzare contemporaneamente la flat tax e il reddito di cittadinanza».
Accordo indigeribile anche se non ci fosse il Cavaliere?
«Certamente. Il M5S ha una gran parte di elettori fuggiti dal Pd, che vedono Salvini come fumo negli occhi. Il M5S rischierebbe di perdere non solo voti, ma anche parlamentari eletti al Sud».
Di Maio non ha risposto al telefono a Berlusconi.
«Ha dimostrato di non essere stupido. Chi si siede al tavolo con lui sparisce dalla scena politica. È successo a tutti i leader del Pd, con l’eccezione di Prodi».
Il voto alla Casellati in Senato danneggerà il Movimento?
«Se si ferma qui no, gli elettori di Grillo, che sono visceralmente anti-berlusconiani, sanno distinguere una divisione di cariche istituzionali da un eventuale accordo di governo. Non oso neppure immaginare Di Maio discutere di programma e ministri con la Lega».
Crede ancora in un’intesa tra Pd e grillini?
«Se Renzi mantiene il controllo del Pd finirà per sostenere un governo di centrodestra. Se spuntasse fuori qualcuno in grado di capire le ragioni della sconfitta potrebbe invece mettere a punto un programma di riforma sociali da approvare col M5S».

Repubblica 25.3.18
Il futuro della sinistra
Il Pd a rischio estinzione
di Claudio Tito

Quando una forza politica subisce una sconfitta cocente, ha bisogno di tempo per riordinare le idee. Per uscire dal rimbombo della disfatta. Ma quello del Partito democratico non è un semplice smacco elettorale. È qualcosa di più. Tocca il concetto stesso della sua esistenza.
Come è capitato in quasi tutti i Paesi europei, la sinistra è caduta in una crisi profondissima. Ma a differenza di tutti gli altri grandi Paesi del nostro Continente, solo in Italia — lo dimostrano le elezioni dei presidenti di Camera e Senato — ha vinto il fronte populista nel suo insieme. La singolarità di questo dato mette in discussione appunto la natura stessa di questo partito. Il Pd sta correndo sul filo dell’estinzione senza accorgersene. La dinamica con cui si è arrivati alla scelta delle due principali cariche parlamentari è solo parzialmente giustificabile con il peso elettorale conquistato alle elezioni. Sul centrosinistra incombe una vacuità politica che sterilizza ogni prospettiva e riduce tutto a mera tattica. Il voto del 4 marzo ha di fatto disegnato un nuovo sistema dei partiti, e i Democratici appaiono preoccupati soprattutto di tutelare la ridotta in cui sono precipitati. Imbalsamati, bloccati dai veti interni, paralizzati dalla semplice interdizione e dalla “fraterna” delegittimazione. Una palude in cui spiccano il potere di veto esercitato dall’ex segretario Renzi e la paura di tutti gli altri.
Nel 1994 il Ppi di Martinazzoli, erede della Dc, passò dal 29 per cento, ottenuto due anni prima, all’11 per cento. Venne travolto dalla novità berlusconiana. Non capì cosa fosse accaduto e quale evoluzione stesse segnando la politica e la società. Rimase fermo per troppo tempo a contemplare la fine di una stagione, non mise in campo rapidamente una reazione e di fatto morì.
Il Pd si trova in una situazione analoga. Non ha la possibilità di leccarsi le ferite come fece nel 2001 e nel 2008. La sua esistenza è legata ai tempi della risposta. Ha bisogno di trovare rapidamente una nuova prospettiva e un rinnovamento. Certo, la sua classe dirigente dovrebbe dimostrarsi in grado di riflettere su cosa significhi essere di sinistra nel 2018. Perché quei valori senza un nuovo codice interpretativo risultano perdenti e incompresi. Dovrebbe assegnarsi un orizzonte evitando di concentrarsi solo sulla necessità di lucrare sulle posizioni di un potere ormai perso. Il gruppo di comando di un partito che punta a governare il Paese avrebbe l’obbligo di capire le ragioni della débâcle e studiare come tornare a essere rappresentativo anche delle fasce di popolazione più debole e non solo di quelle più avvertite. Il suo compito sarebbe quello di elaborare un’agenda politica che non si riveli supina al pensiero dominante: reimparare a essere una forza popolare e non populista. Il punto è proprio questo: la destra sa cos’è e quali pulsioni sollecitare. La sinistra sa cosa è stata ma non sa cosa sarà.
Le esigenze di questa fase impongono tempi serrati. Immaginare di rinviare le scelte e aspettare tempi migliori per il Congresso equivale a una rinuncia. Il Pd deve scegliersi un nuovo profilo e un nuovo leader. Ne sarà in grado? L’incomunicabilità interna è un indizio contrario. La prospettiva di una ennesima scissione è ormai il vero oggetto di discussione in quel partito. Come lo è, specularmente, dentro Forza Italia. La crisi berlusconiana produrrà fisiologicamente la divisione tra chi seguirà il centrodestra di Salvini (sarà l’M5S a porla come condizione per conservare l’asse con il centrodestra a trazione leghista) e chi inseguirà un fantomatico partito unico antipopulista immaginato sul modello Macron anche da molti esponenti dem che fanno riferimento a Renzi. E questa è l’attestazione più chiara che — al di là dei giudizi su questa eventuale operazione — il vuoto in politica prima o poi viene colmato. E se non sarà il Pd a riempirlo, lo faranno altri.

Repubblica 25.3.18
Renzi esulta per il Pd immobile Zanda: “Rischiamo la liquidazione”
L’ex segretario rivendica la strategia dell’Aventino e insiste sui capigruppo: vuole Guerini e Marcucci Martina lo punge: caminetti? Si chiama collegialità
di Giovanna Casadio

Roma Il Pd non ha toccato palla nella partita per i presidenti delle Camere. E Matteo Renzi rivendica la strategia dem di tenersi fuori da tutto come un suo successo. « Ha vinto lo schema del “ tocca a loro”. Era l’unico schema possibile, perché rispettoso della volontà popolare. Immaginate cosa sarebbe successo se avessimo fatto l’accordo con il centrodestra o con i 5Stelle, privando uno dei due della presidenza di una Camera...» ripete l’ex segretario dem.
Ma i malumori e i dissensi rischiano di dilaniare un partito già dimezzato in consensi e parlamentari. Non solo per la minoranza di Andrea Orlando e Gianni Cuperlo ma per lo stesso Dario Franceschini e per Paolo Gentiloni restare completamente fuori dal gioco politico, in un Aventino, destina il Pd a un’insopportabile marginalità.
In mezzo a capannelli di fedelissimi e di cronisti a Palazzo Madama, sempre tra una battuta e l’altra («Questo Palazzo era dei Medici, sapete? » ), con qualche riferimento al passato prossimo («A me proprio non possono dire che sono casta, perché il Senato volevo abolirlo»), Renzi si mostra, se non soddisfatto («Lo sarei davvero se avessi vinto le elezioni»), comunque sicuro della linea dettata prima delle sue dimissioni, che il reggente Maurizio Martina ha solo cercato timidamente di correggere.
Neppure è troppo piaciuta a Renzi l’idea delle due candidature di bandiera che, dopo una riunione mattutina dei parlamentari del Pd ( alla quale non ha partecipato), sono state gettate nella mischia, ovvero Valeria Fedeli al Senato e Roberto Giachetti alla Camera. Votati disciplinatamente da tutti o quasi i dem: 54 schede per Fedeli ( oltre a una per Luigi Zanda e una per Roberta Pinotti) e 102 per Giachetti.
Però nel partito tutto diventa occasione di scontro e di divisione. Zanda - ex capogruppo indicato a un certo punto dai grillini come uno dei candidati presidenti che avrebbero potuto votare - teme che la mancata unità conduca il Pd in una ridotta: «Così come Forza Italia è un partito in liquidazione, stiamo attenti a ritrovare l’unità dem » . Lo aveva già detto, Zanda, chiedendo che i prossimi due capigruppo non siano entrambi renziani. Ma Renzi ha intenzione di spuntarla anche su questo e ha scelto Lorenzo Guerini a Montecitorio e Andrea Marucci a Palazzo Madama: si va al voto martedì alle 15.30. L’ex segretario critica inoltre i caminetti. Subito dopo rettifica, sostenendo che non si riferiva a quelli inaugurati dal Pd, ma ai metodi di grillini e leghisti. Martina stavolta ribatte: « Caminetti? Si chiama collegialità » . È Cuperlo a lanciare l’allarme: « Questa è una irrilevanza politica che si proietta sul dopo».
Smentiscono sia Cuperlo che Orlando che ci sia un accordo sulle vicepresidenze delle due Camere: vicepresidenze che andrebbero a due esponenti della sinistra dem, Anna Rossomando e Barbara Pollastrini. Sospettano che Renzi voglia metterci Teresa Bellanova e Ettore Rosato.

Repubblica 25.3.18
Operazione Frankenstein
di Massimo Giannini

Con l’elezione dei presidenti di Camera e Senato è nato il Frankenstein grillo- leghista, frutto del bacio sacrilego tra Di Maio e Salvini. Difficile dire con quanto anticipo sia stato concepito. Sta di fatto che la strana creatura con due mosse spregiudicate ha marchiato a fuoco la nuova legislatura. Per farne che cosa, si vedrà. Intanto 5 Stelle e Lega, pur avendo “non vinto” le elezioni, si muovono come i padroni incontrastati del campo. Sono al primo stadio di una convergenza non più tanto parallela: condividono la scelta della seconda e terza carica dello Stato, in attesa di capire se potranno condividere anche un governo provvisorio e poi magari un duello elettorale con altre regole.
La svolta è dirompente. Per dirla col linguaggio ruvido di Napolitano: le formazioni politiche di « vera e propria rottura rispetto al passato» hanno travolto quelle «radicate da tempo nell’assetto istituzionale e di governo del Paese » . Il 4 marzo lo avevano fatto nelle urne. Ieri lo hanno fatto anche in Parlamento. Con geometrica potenza, ma anche con cinica impudenza.
Di Maio ha compiuto la definitiva metamorfosi del Movimento. M5S è ormai a tutti gli effetti un “partito di sistema” che pensa e agisce con le logiche del “sistema”. Ciò è un bene per la democrazia. A patto che il capo politico, i suoi dirigenti e i suoi elettori lo riconoscano e la smettano di usare come una clava la propria presunta diversità, bollando come “casta corrotta” tutto ciò che non origina dalle sacre ma oscure sorgenti della Casaleggio Associati.
Per portare a casa il risultato finale (salvare il patto con Salvini) Di Maio ha accettato un compromesso al ribasso. È vero che si è rifiutato di legittimare nella trattativa l’odiato “ psiconano” dileggiato da Grillo. È vero che ha costretto Berlusconi ad ammainare la bandiera di Romani, condannato per peculato e dunque “invotabile”. Ma è altrettanto vero che ora la seconda carica dello Stato è Elisabetta Alberti Casellati. Né olgettina né velina, ma pur sempre zarina del berlusconismo da combattimento. Dal 2001, con Ghedini, ha scritto le peggiori leggi ad personam, nel 2005 ha assunto la figlia come capo della sua segreteria al ministero, nel 2011 ha spergiurato su Ruby nipote di Mubarak e nel 2014 ha urlato «golpe» davanti al tribunale di Milano. Era quasi meglio Romani. Ma è la realpolitik, bellezza a 5 Stelle, e non puoi farci niente.
La stessa realpolitik che spinge Salvini a non recidere il filo azzurro che lo unisce al Cavaliere. Il parricidio ci sarà, sarà inevitabile, ma deve consumarsi lentamente, perché con Berlusconi e Meloni il capo leghista è leader di una coalizione del 37%, da solo guida un partito del 17, che tra le braccia del moloch pentastellato finirebbe soffocato. Salvini sta facendo un investimento: la sua Opa sull’elettorato forzista funziona solo se non è ostile, il suo già forte radicamento territoriale si compie solo se rinuncia alla presidenza del Senato per quella del Friuli Venezia Giulia. Verrà il giorno dell’assalto al cielo. Ma non è oggi.
Adesso il Frankenstein grillo- leghista muove verso il Quirinale e prepara il secondo stadio della convergenza. Un governo di transizione, per cambiare l’orribile Rosatellum e tornare in fretta alle urne. La campagna è già impostata, come si evince dal discorso di insediamento di Fico alla Camera: subito il taglio di vitalizi e privilegi dei parlamentari. Non un programma politico da realizzare in cinque anni, ma un feticcio elettorale da agitare tra cinque mesi. Salvini cercherà di incassare il lascito berlusconiano a destra e Di Maio proverà a occupare lo spazio politico a sinistra, che un Pd mestamente scomparso dalla scena non sa più presidiare. E allora sarà il definitivo cambio di fase. Passeremo dal bipolarismo al “bi-populismo”. È la « involuzione » profetizzata dal comico genovese sul Sacro Blog: la specie che sopravvive non è la più forte, ma quella che si adatta meglio. Il Frankenstein grillo-leghista nasce per questo. Servirebbe una nuova forza progressista per provare a sconfiggerlo. Ma purtroppo si è eclissata, tra un Aventino e un campo da tennis.

Repubblica 25.3.18
Strada in salita per un governo “a scadenza”
di Stefano Folli

Ora che il destino ha cambiato cavallo, si capisce meglio quanto il 4 marzo sia destinato a incidere sulla storia politica dei nostri giorni. E certo Longanesi non era un veggente, però conosceva l’Italia.
Sapeva, ad esempio, che agli albori del regime la fusione fra il partito fascista di Mussolini e il partito nazionalista, determinante nelle vicende di inizio secolo, si era risolta in un’annessione: nel giro di poco tempo tutti i quadri nazionalisti trovarono ospitalità nei ranghi del Pnf, rinunciando a ogni autonomia. Al loro capo, Luigi Federzoni — figura complessa di anti-tedesco contrario alle leggi razziali — fu riservata la presidenza del Senato del Regno, carica in verità più simbolica che reale.
Senza voler spingere l’analogia oltre il lecito, e quindi senza suggerire paragoni impropri, abbiamo assistito nelle ultime ore a una sorta di annessione virtuale di Forza Italia da parte della Lega di Salvini. È una delle conseguenze delle elezioni e della vittoria leghista che nel Nord ha operato di fatto una fusione con i candidati berlusconiani eletti grazie al peso preponderante dei “neo sovranisti”. Lo strappo di venerdì, preludio alla sostanziale resa di Berlusconi, è stato ricucito confermando la presidenza del Senato a Forza Italia. Un premio di consolazione di rango, si potrebbe dire. Se a suo tempo non fosse stato escluso da Palazzo Madama, su quella poltrona si sarebbe seduto lo stesso Berlusconi, come era accaduto quasi novant’anni fa a Federzoni. Viceversa è stata eletta la senatrice Elisabetta Casellati, perfetta sintesi nordista di lealtà verso il mondo berlusconiano al tramonto e buoni rapporti con il potere leghista emergente.
Ora ci si domanda quale sarà il prossimo passo, in vista delle trattative per il governo. I dati da considerare sono soprattutto due: primo, il rapporto stretto politico e personale fra Salvini e Di Maio; secondo, il fatto che Salvini agirà sul palcoscenico del Quirinale a nome di tutto il centrodestra. Ma non è detto che le due circostanze accelerino la nascita di un esecutivo con una maggioranza Salvini-Di Maio-Berlusconi-Meloni. Al contrario, i nodi politici si aggrovigliano.
In primo luogo, nonostante la sconfitta e la perdita di ruolo, a Berlusconi rimane un considerevole potere di attrito. Vale a dire che può mettere parecchia sabbia nell’ingranaggio dell’intesa Salvini-Di Maio. Che è pur sempre un’intesa provvisoria fra due politici uniti da reciproca convenienza. O meglio, da un patto di potere: tenere la scena quanto è necessario (magari con Giorgetti a Palazzo Chigi) senza perdere nemmeno un grammo della loro popolarità per poi tornare abbastanza in fretta alle urne in vista di consolidare la nuova egemonia bipolare e sconfiggere in modo definitivo le forze tradizionali.
Un piano che si risolverebbe nella spaccatura territoriale del Paese fra un Nord leghista e un Sud a Cinque Stelle.
Ma non sarà facile compiere l’impresa.
Il patto di potere è un po’ troppo scoperto e contiene in sé, implicito, il virus del “governo a tempo”: un’idea che Mattarella ha sempre rigettato perché la considera, a ragione, incostituzionale.
In ogni caso Salvini ha ancora bisogno dei voti di quel che resta di Berlusconi: senza di essi, l’eventuale governo con Di Maio non potrebbe navigare, se non fra continui rischi di naufragio. Dopo le due presidenze, siamo appena all’inizio della vera partita, mentre affiorano i primi veti. L’esito non è scontato, così come non è scontato che il Paese, fra due o tre mesi, trovi una maggioranza politica.

Repubblica 25.3.18
Paolo Virzì, regista
Dov’è finita la Sinistra
“Ci servono passioni radicali E godiamoci l’opposizione”
di Concita De Gregorio

«Renzi da una parte ha tutto il diritto di defilarsi, dall’altra ha il dovere di esser generoso e di dare una mano a una nuova stagione. Se lui si mette di traverso quel che resta del Pd si rompe tutto». Con Paolo Virzì, sul set del suo prossimo film, a parlare di politica. Una passione che come tutte procura gioie e sofferenze.
«Per esempio la campagna elettorale è stata una grande sofferenza».
La campagna? La vigilia del voto?
«Sì. Solo messaggi di propaganda, dai più subdoli ai più sfacciati. Non c’è stata una proposta politica che trasmettesse sicurezza, empatia, che accendesse passioni. Non era un compito facile, va bene: si trattava di dire cose complicate. Prendi il tema dell’immigrazione: da una parte fuori i negri, portano la malaria e subito la giravolta opportunista, da pura azienda di marketing elettorale, dagli attacchi di Di Maio alle Ong in nome di una legalità che più sordida e ottusa non si può».
La Lega, i Cinquestelle. E a sinistra?
«Si balbettava. Nessuno, non il Pd ma nemmeno le formazioni più radicali, son riuscite a usare parole all’altezza della tragedia in corso. L’Olocausto di un continente. Calcolo elettorale, ma anche mancanza di conoscenza: come se fosse una questione che sta a cuore a pochissimi. Parlare di immigrazione non vuol dire essere caritatevoli ma guardare in faccia con realismo le grandi questioni del futuro: sostenibilità, lavoro, risorse del territorio, diritti umani, equilibri demografici, sicurezza, futuro dei nostri figli. Tutto. Non stiamo parlando soltanto del destino insopportabile di una spaventosa moltitudine di persone: lo preciso per chi ritiene che avere a cuore i diritti umani sia un lusso per un’ipocrita élite di virtuosi. Non è solo quello. È la Politica, la Civiltà».
Dimmi del Pd. Di Renzi.
«Quando ho visto il video del suo discorso al Terminal Crociere di Livorno ho avuto la rappresentazione plastica della sconfitta che si stava annunciando. Sembrava che le regole drammaturgiche del suo format da stand up comedian gli impedissero di vedere la platea.
Si rivolgeva a pensionati, pochi operai, molti disoccupati con le stesse parole che avrebbe usato davanti a una platea di imprenditori, magari le eccellenze italiane che ama motivare, quelli “che non devono aver paura del futuro”.
Quindi, tra un filmato con Totò e un meme, giù con la crescita del Pil e dell’export. A un certo punto è sceso, microfono in pugno, le maniche rimboccate, a cercare il contatto fisico con il pubblico come i grandi showman. In quel momento finalmente la camera ha inquadrato i volti di quella gente, non poca, che era venuta ad ascoltarlo. Impassibili, afflitti da una profonda mestizia.
Qualcuno guardava per terra, qualcuno - sentendosi guardato dal Segretario - accennava un sorriso».
Li hai riconosciuti, quei livornesi?
«Mi pareva, qualcuno. Li vedevo, li sentivo, c’era in quei sorrisi anche qualcosa di languido, Lucio Battisti direbbe un dolce dispiacere. Renzi non ha menzionato nessuna delle questioni che li riguardavano.
Sembrava non aver dato neanche uno sguardo al “dossier Livorno” che magari qualcuno, solerte, gli avrà pure preparato. Una volta si faceva così. C’era uno bravino, in Federazione, incaricato di preparare i dossier della città al Segretario. Quella fabbrica che chiude, la situazione dell’Ospedale, le scuole».
Però tu ci hai creduto a Renzi. Quando hai smesso, se hai smesso, e perché?
«Arrivava il giovane sindaco di una città governata con pragmatismo, che dialogava con i Mille, con Scalfarotto, con Civati, quindi con un ribollire anche generazionale, uno che aveva il fegato di sfidare il gruppo di dirigenti che negli ultimi trent’anni avevano passato il tempo a farsi le scarpe l’un l’altro. Non si poteva non guardare con favore.
Anche se la parola rottamazione mi è sempre sembrata inutilmente violenta.
Comunque, su Renzi: mi sembra che ormai si sia detto molto. Le sue luci - la sua energia, la voglia di fare - e le sue ombre - la divisività, il circondarsi di fedelissimi, non aver spalancato le porte del partito nei territori. Mi ha colpito molto anche la gestione confusa, contraddittoria, sciatta dell’Unità. Immagino abbia colpito anche te».
Molto, sì. Il successo dei Cinquestelle d’altra parte era annunciato dalla vicenda di Roma. So che hai visto il docufilm di Francesco Cordio, “Roma golpe capitale”. C’è la fila fuori dal cinema ogni volta che lo proiettano. Mi dicevi che ti ha intristito.
Perché?
«Mi ha fatto ripercorrere quei giorni da un punto di vista che avevo trascurato. A un certo punto di Marino ho pensato anch’io: basta, se ne vada. Poi rielaborando i fatti: gli scontrini di poche decine di euro, la Panda rossa, la battuta estorta a Papa Francesco, adesso mi sembra evidente che si sia consumato un rito torbido, l’ennesima congiura fratricida.
Quel documentario mi ha fatto male perché mi ha fatto sentire stupido, una delle tante vittime di una narrazione deformata».
Dei Cinquestelle hai detto spesso che senti che ci sia dietro qualcosa di pericoloso.
«Qualcosa per me di indigeribile in quello stile di reclutamento, di propaganda. Non mi spiego come facciano tanti amici, persone che ritengo intelligenti, le stesse che magari nel dicembre del 2016 sono state in pena per l’assalto alla Costituzione, a considerare una questione trascurabile l’assetto proprietario, il management privato, l’ncontendibilità dei vertici dell’attuale primo partito italiano. Chi è, cos’è dietro a Casaleggio».
Poi però se volti le spalle a Casaleggio e a Di Maio, se guardi gli elettori del Movimento vedi anche una domanda disperata di partecipazione che non trova casa altrove. Tanti sindaci sono arrivati ai Cinquestelle perché chiusi fuori dalla sinistra. Carbonia, Carrara, Alcamo. Tanti.
«È così. Vedo che li racconti nel tuo viaggio in Italia. Ci sono città come Livorno o Roma dove non si riesce a percepire il sindaco come una figura autonoma dalla Casaleggio Associati. Altre come Torino, Augusta, come in fondo Parma, con un sindaco post-post-grillino che adesso è il critico più severo del Movimento stesso, dove il grillismo ha dato voce, spazio, rappresentanza a tanti che non l’avevano. Specie lì dove il Pd non riesce ad essere altro che un impenetrabile club di notabili.
Peggio ancora, con le parole di un ministro: “Un comitato d’affari”».
Se poi fai la commissione Barca sul Pd romano e lo fai commissariare da esponenti del Pd romano. Se vinci le primarie e perdi le elezioni, perché la corrente sconfitta sistematicamente non vota il candidato che le ha vinte.
«Le primarie declinate in Italia, a sinistra, diventano un rituale di maschi alfa che lottano per il ruolo di capo branco lasciandosi alle spalle ferite insanabili. Ma soprattutto: hai perso i tuoi temi. Pensa all’Ubi, universal basic income, che è al centro del dibattito delle sinistre europee.
Regalato ai 5stelle, che ci hanno costruito intorno la mitopoietica del reddito di cittadinanza. Ma quello, insieme agli ammortizzatori sociali, è un patrimonio dei partiti della sinistra. Insomma: non basta il buon governo delle cose in un mondo che sta collassando.
Abbiamo perso i treni precedenti. La stagione della terza via Blair-Clinton. Renzi ha fatto l’agenda Schroeder quindici anni dopo. Curioso come i temi bollenti che animano il dibattito nei paesi del nord Europa (climate change, green economy, sostenibilità ambientali) da noi arrivino come pallido maquillage. Sento un gran burlarsi di Corbyn, ma non mi stupirei se vincesse le prossime elezioni con un programma radicale».
Un programma radicale.
Che dici della sinistra di LeU?
«Con tutto il rispetto e la simpatia: Fratoianni e compagnia mi sembrano la riedizione di una sinistra identitaria alla Bertinotti, votata al ruolo marginale di portabandiera. Ora è lampante come il minuscolo progetto di D’Alema e di Bersani sia stato figlio di una pura pulsione di vendetta, dannosa per tutti a partire da loro».
Da dove ripartiresti?
«C’è un terreno fertile, ci sarebbe addirittura un popolo da mobilitare. Da accendere con passioni anche radicali.
L’immigrazione è un fenomeno esplosivo, è il grande tema del mondo contemporaneo. Ha bisogno di risposte di sinistra.
L’Europa si limita a spendere miliardi di euro con Frontex: stiamo trasferendo la frontiera giù fino al deserto, stiamo finanziando campi di concentramento».
È cosi, finanziamo campi di concentramento.
«Tanti quattrini veri che potrebbero essere destinati a politiche lungimiranti».
Dunque: ora all’opposizione?
«Ma sì, godiamoci l’opposizione, un posto dove la sinistra è sempre stata comoda. Bisogna ricostruire un’agenda sui temi del mondo, che deve essere ambiziosissima perché deve mobilitare: le povertà, il lavoro di domani, il futuro del Pianeta, cose altisonanti. Non può bastare un’agenda di buongoverno. Il riformismo del XXI secolo deve aver dentro un po’ di radicalità, dev’essere anche rivoluzionario. Sogni, futuro, investimenti in educazione, cultura, progetti per tutte quelle aree del Paese che si stanno spopolando, i nostri borghi rurali, e che andando ad incrociarsi con una stagione di movimenti migratori potrebbero essere il nostro petrolio. E niente nostalgia del passato per favore. Il passato non era meglio del presente, era solo diverso».
Parli del Pci?
«Non è che fosse un partito accogliente nemmeno il Pci.
Diciamolo. Quando da liceali, ingenuamente, andavamo a chiedere una saletta alla sezione “Stalin”, quella del quartiere Sorgenti a Livorno, per le riunioni movimento studentesco, venivamo messi alla porta senza tanti complimenti. Bisognava insistere. Bisogna insistere».

La Stampa 25.3.18
Umberto Bossi
«Se rompeva con Forza Italia faceva la fine del suo amico Mussolini»

«Salvini ieri ha parlato prima di pensare e ha messo a rischio il governo di Lombardia e Veneto: se faceva saltare la coalizione, rischiava di finire a testa in giù come il suo amico Mussolini a piazzale Loreto», così Umberto Bossi - il fondatore della Lega, oggi assai critico con la nuova leadership - si è espresso ieri all’esterno del Senato. «Va bene Casellati, però la Lega non può fare un governo coi 5 Stelle: l’esperimento della Cassa del Mezzogiorno ha già fallito», conclude il Senatur. «Quello è già fallito ai tempi della Democrazia cristiana... Vogliono fare la Cassa per il Mezzogiorno, per l’assistenzialismo fallito una volta. Devono fare le fabbriche, non l’assistenzialismo».

Corriere 25.3.18
Ora si profila un ritorno alla centralità del Parlamento
di Massimo Franco

L a prima impressione è che, nonostante una pesante ombra di precarietà sulla legislatura, il Parlamento possa diventare strategico; e che il Movimento 5 Stelle voglia essere un inedito protettore delle istituzioni. Il presidente neoeletto alla Camera, Roberto Fico, ha subito tolto i riferimenti al M5S dal profilo su twitter, chiedendo che il potere legislativo «torni centrale». Pesa l’orgoglio di essere la prima forza; e di sapere che potrà esercitarla più alla Camera e, in misura minore, al Senato, che dentro il governo.
Avere la terza carica dello Stato e avere contribuito all’elezione della seconda segnano una piena legittimazione. Le trattative per formare l’esecutivo, però, difficilmente ricalcheranno il metodo utilizzato per le Camere: sebbene la nuova presidente del Senato, la berlusconiana Elisabetta Alberti Casellati, consideri quanto è avvenuto ieri un precedente da non sciupare. «È una cosa gradevolissima l’apertura del M5S», ha detto. «Può essere un elemento di pacificazione e un presupposto anche per la formazione del nuovo governo».
Significherebbe una maggioranza atipica centrodestra-M5S: soluzione da spiegare in primo luogo ai propri elettori. Passerebbe per un’intesa difficile su chi debba essere il premier: se Luigi Di Maio, Matteo Salvini o una terza persona accettata da forze molto diverse. In più, sulla soluzione influisce la diffidenza vistosa di Berlusconi verso il leader leghista. Nessuno crede che la frattura nel centrodestra si sia ricomposta davvero. E non è chiaro come potranno evolversi i rapporti con un M5S che finora si è rifiutato di parlare con «il condannato Berlusconi».
Eppure, a meno di un’intesa tra Di Maio e Salvini, una partecipazione di FI sarebbe inevitabile. Per come si è mosso finora, a essere tagliato fuori dai giochi rimarrebbe il solo Pd, oscillante tra un atteggiamento impermalito che lo inchioda all’opposizione, e la voglia di avere un ruolo nei nuovi rapporti di potere. C’è una vistosa distanza tra i dem che puntano a dialogare con Di Maio, e quanti additano un patto «Grillusconi», crasi polemica del patto tra Beppe Grillo e Berlusconi. Dovrebbe far dimenticare il «Renzusconi» del segretario dimissionario Matteo Renzi, mediato da Denis Verdini.
Nell’incertezza, il Parlamento è destinato dunque a diventare il motore di leggi contraddittorie tra loro, sulle quali Lega e M5S hanno però calamitato milioni di elettori. Si vedrà quanto peserà l’inesperienza di molti eletti; e che dialettica stabilirà con un governo che dovrà considerare non solo il risultato del 4 marzo, ma l’esigenza di rassicurare un’Europa inquieta: nelle cancellerie ci si chiede quale sarà l’impatto dei «populisti» italiani sul Parlamento europeo, da rinnovare a maggio del 2019.

il manifesto 25.3.18
«Salvare le persone in mare non è un reato». Solidarietà ad Open Arms

ROMA «Quello che sta accadendo è assurdo, ridicolo e tragico al tempo stesso, ma questa manifestazione che è nata in maniera spontanea in tante città in Italia e Spagna ci fa sentire meno soli perché c’è molta gente che dice no a quanto sta succedendo», dice Riccardo Gatti. Quello a cui il portavoce in Italia dei Proactiva Open Arms si riferisce è il sequestro della nave della ong spagnola e l’incriminazione da parte della procura di Catania del comandante e della capomissione per associazione per delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina. Tutto per essersi rifiutati di consegnare 218 migranti a una motovedetta libica che, in acque internazionali e armi alla mano, pretendeva di riprendersi e riportare indietro uomini, donne a bambini che proprio dalla Libia erano fuggiti.
Ieri a Madrid, Barcellona, Palma de Maiorca, Roma e Pozzallo centinaia di persone hanno espresso solidarietà alla ong spagnola e allo stesso tempo detto – come recita lo slogan delle manifestazioni – che «Salvare le persone non è un reato/Sea rescue is not a crime». Nella capitale italiana l’appuntamento è in piazza Madonna di Loreto, di lato a piazza Venezia. «La criminalizzazione delle Ong è cominciata la scorsa estate – ricorda l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, presente anche lei all’iniziativa – quando queste ong sono state accusate di essere dei semplici taxi del mare. Il fatto che adesso non ce ne siano più significa che il nostro Mediterraneo è sempre più insicuro».
Alla manifestazione hanno aderito anche Arci, Leu e Radicali italiani. Proprio sulle recenti vicissitudini giudiziarie della Open Arms il segretario di Radicali italiani Riccardo Magi insieme a Emma Bonino – rispettivamente deputato e senatrice di + Europa – hanno presentato un’interpellanza parlamentare nella quale tra l’altro si chiede se è vero che i soccorritori della Ong siano stati «esplicitamente sollecitati da Roma a trasferire i profughi già salvati sulla motovedetta libica per il successivo approdo in Libia».
Solidale con Proactiva è anche la sindaca di Barcellona Ada Colau che ha annunciato l’intenzione della città catalana di supportare le spese legali della ong. Ma dalla Spagna all’Italia è chiara a tutti la necessità di non assistere in silenzio alla messa sotto accusa delle ong. «L’Italia non è e non può diventare il paese dell’egoismo e della meschinità» afferma Nicola Fratoianni, di Leu. E anche il presidente del Pd Matteo Orfini su Facebook definisce «curioso» che alla ong venga contestato di non aver rispettato, neanche fosse un reato, il codice d condotta imposto dal suo collega di partito ed ex ministro degli Interni Marco Minniti.

Il Fatto 25.3.18
Camusso: “Mai difeso la riforma Fornero, abolirla è possibile”

“Non abbiamo mai difeso la Legge Fornero e da questo punto di vista la sua abolizione non sarebbe un problema”. Lo ha spiegato ieri la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso che, al Forum Confcommercio di Cernobbio, ha fatto il punto sulle principali questioni che dovrà affrontare il nuovo Governo dopo un voto che “non è eversivo” e che indica che “siamo arrivati a un punto di rottura tra la politica e il Paese”. Quanto alla Legge Fornero, la cui proposta di abolizione è stata una delle ragioni che ha portato al successo elettorale della Lega, la sindacalista ha spiegato che “da lungo tempo abbiamo una piattaforma sindacale sul cambiamento del sistema previdenziale” e che “il tema che però vorremmo sottoporre è cosa si pensa di fare, a partire dal fatto che per noi al centro della piattaforma devono esserci garanzie per i giovani”. Camusso ha parlato poi di reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle, spiegando che è una risposta “di breve termine e priva di prospettiva”. La proposta “sposta il tema sul welfare” senza affrontare questioni come “quale lavoro proporre e come distribuirlo”. E sul Jobs Act: “Sta all’origine della rottura che si è determinata dopo il voto. Va abolito”.

Corriere 25.3.18
Camusso e il populismo della spesa
di Dario Di Vico

Non vi illudete che il ciclo populista possa terminare a breve e che il risentimento degli elettori possa essere riassorbito altrettanto in fretta. Parlando con la consueta franchezza la leader della Cgil Susanna Camusso ha voluto attirare l’attenzione della platea del forum Confcommercio di Cernobbio e, a modo suo, è intervenuta nel dibattito sulle conseguenze che il voto del 4 marzo, e l’avanzata delle forze che si rivolgono direttamente al «popolo», avranno sui corpi intermedi. Applicando il motto repetita iuvant Camusso subito dopo ha ammonito la rappresentanza dei commercianti a non coltivare l’idea di poter affrontare quest’emergenza con un piccolo lobbismo «separato» e teso a influenzare la distribuzione delle risorse. È necessario, invece, elaborare idee che superino la contingenza e muoversi con un’ottica comune delle parti sociali. Se non si opera questo salto di qualità è inevitabile che la domanda sociale, alimentata dalle crescenti disuguaglianze, finisca per essere egemonizzata dalle sirene della spesa pubblica e in particolare del reddito di cittadinanza.
Il richiamo di Camusso alla progettazione sociale e la messa in mora della cultura del deficit spending non possono che essere apprezzati, più complessa appare però l’opera di reductio ad unum delle proposte e delle visioni. La Cgil continua a considerare il Jobs act e la legge Fornero come «l’origine della rottura sociale», mentre la stragrande maggioranza delle organizzazioni di rappresentanza le considera riforme da cui non si deve derogare. Allora per evitare di riprodurre in fotocopia le divisioni del recente passato forse l’unica strada è quella di partire dall’economia reale e costruire un’analisi condivisa dei cambiamenti del Paese e degli smottamenti della società. Studiare male non fa.

La Stampa 25.3.18
La figlia assunta al ministero
«Devo pagare per sempre?»
di Andrea Zambenedetti

«Mi chiedo se dovrò pagare per tutta la vita per quella vicenda». Ludovica Casellati, figlia della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti, ieri si è trovata di nuovo sotto il fuoco incrociato per una storia che risale al 2004 quando la madre, sottosegretario alla Salute nel dicastero guidato da Girolamo Sirchia, la volle a capo della sua segreteria. Oggi Ludovica, laureata in giurisprudenza, fa la giornalista ed è editore di una rivista di viaggi in bicicletta. Anche ieri era impegnata nel suo lavoro accompagnando alcuni reporter lungo le strade di Montalcino. «Oggi questa vicenda è tornata fuori. Cosa vuole che le dica. In quel periodo mia mamma non si fidava di nessuno e decise di nominare me. Ma non è stata un’assunzione. Per questa ragione non vedo perché oggi se ne parli ancora. Per noi è come se il diritto all’oblio non esistesse».
Forse uno dei motivi per cui la vicenda è tornata attuale è che l’elezione è arrivata dopo un’intesa con il M5S che sul tema non ha mai ammesso sconti?
«Non lo so, ma non ho avuto nessuna assunzione senza concorso. Ho solo ricoperto il ruolo per un breve periodo. Tanto che ora mi occupo di altro».
In un post su Facebook ha scritto che «per affrontare le salite più dure mi hanno insegnato che ci vuole preparazione, strategia, costanza e gambe! Ti sto festeggiando così, grande mammina!». Dopo l’elezione ha avuto modo di parlarle?
«Si per pochissimi istanti. Era felice».
Per la figlia qual è stato momento più emozionante, la prima elezione in parlamento nel 1994 o la nomina a presidente del Senato?
«Sicuramente oggi è il giorno più emozionante».
Dall’inizio della legislatura sua mamma le aveva confidato ambizioni o aspettative?
«Era serena, sapeva che erano decisioni che venivano prese a più alto livello».

il manifesto 25.3.18
«Stop aborto», le donne in piazza contro Kaczynski
Polonia. Il governo, pressato dalle gerarchie ecclesiastiche, prende tempo di fronte alla mobilitazione delle donne (e degli uomini) contro la legge che vuole limitare l'interruzione di gravidanza solo ai casi di stupro e di pericolo per la vita della madre
di Giuseppe Sedia

VARSAVIA Il governo polacco prende tempo mentre le manifestanti affilano gli artigli. Varsavia e le altre città del paese protestano contro un provvedimento che mira a mettere fuori legge le interruzioni volontarie di gravidanza anche in caso di malformazioni del feto. La legge ora sarà esaminata dalla commissione per la famiglia e gli affari sociali nella seconda settimana di aprile.
Un comunicato della chiesa polacca del 14 marzo scorso aveva spinto i deputati del Sejm, la camera bassa, a rimboccarsi le maniche per far approvare alla chetichella una discussa legge di iniziativa popolare presentata dal think thank pro-life «Zycie i Rodzina Kai Godek».
È stata una sorta di tregua pasquale dopo una settimana di manifestazioni culminate nel «venerdì nero»: secondo gli organizzatori almeno 90mila cittadini sono scesi in piazza nella sola Varsavia per dire «nie» alla legge. Ma il governo non sembra disposto a fare marcia indietro su una misura che sta molto a cuore allo stesso Jaroslaw Kaczynski, leader del partito della destra populista Diritto e giustizia (PiS). «Il nostro partito non è disposto a rinunciare in nessun caso al divieto di aborto in caso di ’malattie del bambino’», ha ribadito.
Difficile dire se il rinvio sia il risultato delle mobilitazioni della settimana appena trascorsa. Eppure risulta impossibile credere che il governo non avverta la pressione della piazza anche alla luce di quanto accaduto due anni fa: allora alcune migliaia di ombrelli neri aperti durante il «Black Monday» avevano spinto il PiS ad accantonare l’introduzione del divieto totale di aborto.
Domenica scorsa sono arrivate le prime proteste che hanno portato i manifestanti di fronte alle diocesi e alle arcidiocesi di tutto il paese. Nella serata di martedì invece la commissione alla giustizia del Sejm, pungolata dall’Episcopato polacco e dalla dirigenza del PiS, aveva dato il suo via libera al provvedimento.
Durante la settimana la manifestazione si è estesa ad altri ambienti. Gli studenti dell’Uniwersytet Warszawski si sono dichiarati pronti ad occupare l’ateneo se il testo venisse approvato alle camere.
«È importante sapere che gli attacchi ai diritti delle donne uniti all’atteggiamento xenofobo, razzista, antisemita e anti-immigratorio del governo siano stati in grado di mobilitare anche le polacche più giovani», ci spiega Natalia Pancewicz della sigla Osk (Ogolnopolski Strajk Kobiet). L’Osk continua a svolgere un ruolo chiave nell’organizzazione delle manifestazioni anche nei centri più piccoli della Polonia.
Si è fatta sentire anche la partecipazione maschile nei cortei di venerdì, anche se molti padri sono rimasti a casa a occuparsi dei figli per consentire alle madri di scendere in piazza.
Lo scenario più fosco prevede che l’aborto sarà ancora legale in Polonia soltanto quando la gravidanza mette a rischio la vita della madre e in caso di stupro. Due casi che rappresentano insieme non più del 10% del numero totale di interruzioni volontarie di gravidanza eseguite legalmente ogni anno in Polonia.

il manifesto 25.3.18
«Ora è troppo», contro le armi le piazze Usa si riempiono
Stati uniti. Centinaia di migliaia di persone marciano contro la Nra, in testa i ragazzi sopravvissuti al mass shooting di Parkland. «Oggi marcio, ma a novembre voto», è il messaggio degli adolescenti alla politica
di Marina Catucci

La più imponente manifestazione per il controllo delle armi ha richiamato a Washington centinaia di migliaia di persone e altre hanno protestato praticamente ovunque negli Stati uniti, non solo nelle grandi città delle due coste, ma anche nei piccoli centri. Per dire enough is enough, ora è troppo, una regolamentazione è necessaria ed è necessaria ora.
A organizzare tutto ciò, a dare il via a questo movimento così partecipato e potente, sono stati i ragazzi della scuola superiore di Parkland in Florida dove il 15 febbraio 17 ragazzi hanno perso la vita in un mass shooting. In poco più di un mese l’onda si è alzata e non accenna a scendere, a differenza di tutte le altre volte in cui un massacro simile si è consumato.
Per la prima volta i sopravvissuti e i parenti delle vittime non hanno solo accettato abbracci e preghiere, ma hanno dato vita a una protesta su scala nazionale mandando un messaggio ben preciso: oggi marcio, ma a novembre voto.
Su molti cartelli presenti in tutte le manifestazioni di March For Our Lives si legge questo concetto: a novembre ci saranno otto milioni di nuovi elettori, nel 2020 saranno ancora di più, e non voteranno nessuno che abbia legami con la lobby della armi, la Nra.
Sul palco di Washington, alla fine del cortei, si sono susseguiti i contributi di studenti, insegnanti, genitori e sopravvissuti ai mass shooting; per la maggior parte sono ragazzi, diremmo ragazzini, dai 15 ai 18 anni, che affrontano un palco con di fronte centinaia di migliaia di persone e tutti i network nazionali, con un cipiglio che viene interrotto dall’emozione, dal dolore, per poi riprendersi e ricominciare a parlare.
Una delle studentesse della Florida si deve interrompere per vomitare per poi riprendere l’appello: dovete lasciarci vivere, le armi sono meno importanti di noi. I racconti più forti arrivano dai ragazzi sopravvissuti ai massacri avvenuti nelle scuole americane, come gli adolescenti che erano bambini nella scuola elementare di Sandy Hook in Connecticut e che descrivono quel giorno, quando un ventenne disturbato entrò nella loro scuola uccidendo 20 bambini e sette adulti. Tutti i messaggi finiscono dicendo «Non faremo vincere la vostra agenda dettata dalla Nra, non vi voteremo, noi vi sconfiggeremo».
Sul palco arrivano anche la nipote di Martin Luther King e artisti che cantano per loro, Ariana Grande, Jennifer Hudson, cori gospel, ma i veri protagonisti sono loro, gli adolescenti americani feriti e consapevoli, che affrontano il comizio con cipiglio da leoni spezzato dalle lacrime, come accade a Emma Gonzalez che insieme a David Hogg è uno dei volti più noti di questo movimento.
Gonzalez sale sul palco e chiede di restare in silenzio per i sei minuti e mezzo che è durata la sparatoria in Florida. In quei sei minuti le lacrime rigano i volti di chi è sul palco come tra la folla. La maggior parte dei presenti sono giovanissimi, ma si vedono anche i baby boomer e i rappresentanti della generazione X, nonni e genitori di questi ragazzi che sono andati alla manifestazione accompagnati.
«Vengo da Stantfort in Connecticut – dice Isa, 15 anni – Sono venuta con mio padre, è da quando sono nata che sento queste storie alla tv e alla radio, sento che ci sono veglie di preghiera, poi mentre il giorno dopo vado a scuola mi chiedo se magari non capiterà anche a me. Prima o poi arriva il momento di dire ’ora basta’. A scuola studiamo che queste cose non si fermano da sole, il compito di cambiare è della mia generazione».
Le manifestazioni delle altre città sono state altrettanto emozionanti e partecipate. Negli Stati più attivi e con le leggi più restrittive riguardo le armi i governatori, i sindaci, i senatori sono scesi in piazza, ma sempre un passo indietro rispetto ai ragazzi. «Io sono un ragazzo delle superiori e sono anche nero – dice Sam, 17 anni, al corteo di New York – Sai quante probabilità ho di venire ucciso da armi fuoco? Pensaci, ho nemici ovunque. Non mi vengano a parlare di secondo emendamento per una mitragliatrice semi automatica, per favore».

La Stampa 25.3.18
L’America degli studenti in piazza contro le armi
Più di ottocento le manifestazioni negli Usa e nel mondo Per la prima volta protagonisti i giovani. Vip e star alla marcia
di Francesco Semprini

#Neveragain #Enoughisenough #Orange. Sono le parole d’ordine che hanno scandito le centinaia di marce contro il far west delle armi da fuoco organizzate ieri in tutti gli Stati Uniti. «March for Our Lives», questo il senso della manifestazione globale che ha visto protagonisti i giovani, centinaia di migliaia. C’erano i sopravvissuti della strage di San Valentino a Parkland in Florida, dove per mano di un ex studente 19 enne sono morte 17 persone e altre 16 sono rimaste ferite. Come Cameron Kesky che dal palco di Washington dice: «Questo è il giorno in cui comincia un nuovo lucente futuro per gli americani». Sono state oltre 800 le marce per la vita organizzate in ogni Stato Usa, e in ogni continente del Pianeta, mobilitazioni che hanno riguardato anche Roma, Milano e Firenze, oltre a Parigi, Madrid, Tokyo, Londra, Sidney.
A New York i manifestanti hanno sfilato in arancione - il colore ufficiale delle associazioni che si battono per il controllo delle armi da fuoco - facendo rotta verso Central Park. A Parkland gli studenti si sono ritrovati a poco più di un chilometro dal luogo della strage del 14 febbraio, urlando «Enough is enough!», «quando è troppo è troppo». È la capitale D.C. che ha ospitato la manifestazione più imponente, 500 mila persone attese, che hanno marciato al grido «Never again», «Mai più». Un grido rivolto ai politici «ostaggi» del loro immobilismo e delle lobby di settore come la Nra. Tante le celebrità che si sono unite alla marcia. George Clooney ha donato agli organizzatori 500 mila dollari (cifra promessa anche da Oprah Winfrey e Steven Spielberg) ed ha sfilato a Washington con la moglie Amal. «Il fatto che nessun adulto parla sul palco a DC è un potente messaggio inviato al mondo - dice la star di Hollywood -, se noi non facciamo qualcosa contro la violenza delle armi da fuoco allora lo farete voi».
Ci sono anche Miley Cyrus e Jennifer Hudson, mentre l’ex Beatle Paul McCartney è New York: «Uno dei miei migliori amici è stato ucciso da un’arma proprio qui vicino», spiega ricordando John Lennon, assassinato nel 1980 a Manhattan, proprio davanti Central Park. Ai ragazzi in corteo si rivolge Barack Obama sul suo profilo Twitter: «Michelle e io siamo molto ispirati da tutti i giovani che hanno fatto le marce di oggi. Continuate così. Siete la nostra guida».
Sono 187 mila - secondo le statistiche - i giovani sottoposti a violenze con pistole e fucile dalla tragedia di Columbine, nel 1999. «Questo non è un momento, questo è un movimento», dice una studentessa a Boston. Jaclyn Corin, 17 anni è tra le organizzatrici della scuola della strage in Florida: «Non abbiamo nulla da perdere, non abbiamo un’elezione da vincere, abbiamo solo le nostre vite da proteggere». Sempre a Parkland, Sari Kaufman, avverte: «Pensano che siano solo parole, ora passiamo all’azione, benvenuti alla rivoluzione». Si pensa già al dopo, con alcuni attivisti che hanno indicato nel 20 aprile la data della prossima mobilitazione nazionale in coincidenza con il 19 esimo anniversario di Columbine. Marciare per non morire, ma anche per mettere in guardia i politici che, se non si daranno una mossa, il prossimo voto sarà un referendum sulle armi più che un’elezione. Molti dei giovani in marcia ieri voteranno già al Midterm di novembre, tra parte sono contro le armi.
Un messaggio rivolto all’amministrazione di Donald Trump e al Congresso maggioranza repubblicana. Dalla Casa Bianca solo una nota: «Applaudiamo il coraggio di tanti giovani americani che esercitano i diritti previsti dal primo emendamento». Diritti esercitato anche da si appella al diritto previsto il secondo emendamento, quello all’autodifesa. Quel popolo delle armi che sempre ieri ha sfilato tra Salt Lake City, Greenville ed Helena, stringendo in una mano i loro bambini e nell’altra la loro pistola.

Repubblica 25.3.18
Dopo Parkland
La giovane America invade Washington per fermare le armi
Emma commuove gli Usa con 6 minuti e 20 secondi di silenzio, la durata della strage cui è sopravvissuta. Ecco un milione di “ basta”
di Anna Lombardi

WASHINGTON «Sei minuti e 20 secondi: tanto è durata la strage di Parkland. Tanto è bastato a uccidere diciassette amici. Carmen, che non si lamenterà più con me delle lezioni di piano. Erin, che non chiamerà più Kia “ la mia little Miss Sunshine”…. » . Diciassette morti: ogni nome un mai più.
Il mondo salvato dai ragazzini? Non hanno l’età per comprare una birra. Figuriamoci per votare. Ma quando alle due e trenta del pomeriggio Emma Gonzalez sale sul palco di Pennsylvania Avenue sistemato proprio di fronte al Campidoglio è subito chiaro che quello che ha in mente è una rivoluzione. Pochi minuti prima la sua compagna di classe Samantha Fuentes ha trasformato Happy Birthday in un inno di lotta: spingendo la folla a cantare per Nicholas Dworet, caduto a Parkland, che oggi avrebbe compiuto 18 anni. E Yolanda Renee King, la bisnipote del reverendo Martin assassinato 50 anni fa in questi giorni, dice di avere anche lei un sogno: « Un mondo senza dalle pistole » . Ma quando Emma ricorda quei diciassette compagni che non ci sono più, il milione e passa di ragazzi che fin dal mattino hanno riempito le strade di Washington esplode in un boato: « Mai più». E piangono assieme alla coraggiosa diciottenne che all’indomani della strage nella sua scuola ha dato il via alla protesta: conquistando, con i suoi compagni, perfino la copertina di Time di questa settimana. Per sei minuti e venti secondi Emma Gonzalez costringe l’America a guardarla negli occhi: restando in silenzio a testa alta con i lacrimoni che vengono giù.
«Questi ragazzi faranno la differenza » , dice a Repubblica Cathy Myers, insegnante d’inglese a Janesville, Winsconsin, ma anche la candidata democratica che alle elezioni di mid- term si prepara a sfidare lo speaker della camera Paul Ryan: « Da sempre in questo paese i grandi cambiamenti arrivano quando i giovani scelgono di unirsi». Per partecipare a una manifestazione che ha riempito all’inverosimile le strade della capitale tanto che alla fine si marcia sul posto, sono arrivati da tutta l’America. E pazienza se Donald Trump, il presidente che ora vorrebbe armare gli insegnanti, non è in Casa. Quella Bianca, s’intende; in ritiro a Mar-a-Lago con Melania infuriata per la storiaccia delle pornostar. Poco più tardi twitterà la sua solidarietà con la Francia: dimenticando che cosa accade qui. Sono arrivati coi gli insegnanti, i genitori. E perfino nonne come Mary di Buffalo, 82 anni, 8 figli e 35 nipoti: molti dei quali la circondano. « Voglio godermeli, non piangere ai loro funerali ». Sommersa dalla folla Rachel, 16 anni di Cleveland, Ohio, tiene alto un cartello sulla testa: « Non negozierete sulla mia vita » . Andrew, 9 anni, arrivato da Miami con i genitori stringe serio il suo striscione: « Sono un bambino, non un target » . E Luke, 14 anni di Washington, fa un ragionamento che non fa una piega: « Se usi il Kalshnikov per cacciare un cervo, pratichi il tuo hobby in maniera sbagliata». Ci sono anche Troy e Terry, gemelli afroamericani di Albany, Georgia. «Siamo qui per ribadire che tutte le vite contano».
A guardarsi intorno sembra una gigantesca gita scolastica, con i ragazzi che ballano al ritmo della musica di Ariana Grande e compagnia sparata dai venti maxischermi lungo il percorso: ma a riportarti alla realtà è la spoon river sui cartelloni. I nomi dei ragazzi morti a Columbine, 1999. Alla scuola elementare di Sandy Hook, 2012. A Virginia Tech, 2007. « Quanti dovranno morire ancora? » , dice Lindsey White, 19 anni che si asciuga le lacrime con un gesto stizzito. « Sono di Parklad anch’io. È la prima marcia della mia vita: ho capito che siamo noi a dover cambiare le cose». Dal palco Cameron Kasky, un altro dei giovani leader di Parkland glielo promette. «Vi costringeremo a creare un mondo migliore per le generazioni a venire».

Corriere 25.3.18
Il poker d’assi dell’Europa
Esce martedì l’«Atlante delle crisi mondiali» (Rizzoli). Una visione realista che non risparmia critiche agli Usa
Sergio Romano indica quattro opportunità preziose per rilanciare il progetto dell’Unione
di Danilo Taino

Isaiah Berlin avrebbe classificato Sergio Romano nella categoria delle Volpi. Quegli animali che sanno molte cose, le meditano e decidono, senza seguire «un principio morale o estetico». Contrapposti ai Ricci, che sanno una cosa grande, ma una sola e inseguono «un principio ispiratore, unico e universale». Per sostenere un’analisi e una teoria realista delle relazioni internazionali, infatti, è necessario sapere tante cose. È obbligatorio possedere profondità di argomenti e avere il controllo dei dettagli per poi metterli assieme. E Romano è un grande realista nella lettura degli eventi e degli scacchieri del mondo. È l’espressione precisa di questo approccio, di un modo di studiare per poi capire la realtà; niente di ideologico, nessun idealismo da riccio.
Il nuovo libro di Romano che sarà nelle librerie il 27 marzo — Atlante delle crisi mondiali , Rizzoli — è l’opera più globale nel suo voluminoso lavoro teso a capire e a dare un senso, o un non-senso, ai rapporti tra le Nazioni nell’epoca del disordine. Ed è probabilmente la più ambiziosa: può essere messa al fianco di quella ormai famosa del maestro americano della diplomazia e dell’analisi delle relazioni estere, Ordine mondiale di Henry Kissinger (2014). La lente dell’analista e dello storico rende visibili fatti a occhio nudo piccoli, ma decisivi per capire i rapporti di forza internazionali, le contraddizioni delle politiche dei protagonisti, i rischi insiti nella ricerca odierna di un nuovo bilanciamento di poteri in tutte le aree del pianeta. La differenza con Kissinger è che questi prende un punto di vista americano nel leggere il mondo; Romano con l’America è durissimo, non le perdona nulla nemmeno in questo libro (anche se di Kissinger mostra di apprezzare non poco l’apertura alla Cina di inizio anni Settanta, un passo di realismo in politica estera come pochi nella storia moderna degli Stati Uniti). L’approccio analitico è comunque lo stesso. Il risultato è un testo sorprendente e affascinante per lucidità e ampiezza del racconto.
Storia e analisi dell’attualità si intrecciano nelle spiegazioni del Medio Oriente in pieno caos, dell’Asia nel cono d’ombra della Cina, delle Americhe sottosopra, dell’Europa anelata e della Russia molto amata. L’ambasciatore Romano non cita aneddoti per il piacere dello stravagante: porta in primo piano fatti e circostanze che il discorso politico prevalente ha spesso dimenticato. Approfitta ad esempio di un viaggio sull’autostrada da Gerusalemme a Hebron, tra i due muri alzati da Israele, per ricordare il massacro del 25 febbraio 1994, quando un fondamentalista di origine americana, Baruch Goldstein, vendicò una strage del 1929 e massacrò 29 arabi e ne ferì 125 con una mitragliatrice nella moschea della Tomba dei patriarchi, luogo, questo, in cui «ebrei e musulmani hanno la stessa eredità» religiosa: lo fa per sostenere che «niente è tanto difficile quanto la spartizione dell’eredità fra due popoli che sono per molti aspetti religiosamente vicini».
Stesso metodo parlando della Corea del Nord. Romano sostiene che i calcoli di Kim Jong-un in fondo non sono diversi da quelli di Charles de Gaulle quando volle l’atomica, la force de frappe , e da quelli di Israele allorché si dotò dell’arma nucleare: «Il generale Pierre Marie Gallois, gollista della prima ora, scrisse che l’arma nucleare, nelle mani di una media potenza, era garanzia d’indipendenza e il migliore degli scudi possibili». Anche questo, Romano non lo sottolinea per puro gusto. Ma per criticare Washington, che di fatto avrebbe accelerato la strategia atomica di Pyongyang quando, agli inizi di quest secolo, mise nell’asse del male tre Paesi — Iran, Iraq, Corea del Nord — ma poi attaccò e invase l’Iraq, che armi e programmi nucleari non ne aveva (la stessa reazione renderebbe in parte comprensibile il presunto desiderio di Teheran di possedere una deterrenza nucleare in un’area in cui già l’hanno l’India, il Pakistan, la Russia, Israele e gli Usa).
Sergio Romano è un europeista senza titubanze. Nelle crisi che in questi tempi attraversano il continente vede un’opportunità: «Raramente le circostanze sono state altrettanto favorevoli a coloro che vogliono vivere in una Europa federale», scrive. Le ragioni? Sono quattro: il Regno Unito lascia l’Unione; l’America ha eletto Donald Trump e dunque «la Ue ha l’obbligo e l’interesse di pensare a se stessa, soprattutto in materia di difesa»; dopo la Brexit, i movimenti euroscettici sono confusi; si parla ormai di Ue a cerchi concentrici. La sua è un’Europa lontana dall’America, che dovrebbe procedere verso il «disgelo» con la Russia.
Un libro di analisi e di conclusioni forti. Ambizioso. Si può dissentire con lo storico e con l’ambasciatore: ma il suo ragionare è quello della volpe, non vale chiudersi a riccio.

Il Fatto 25.3.18
Il Paese che uccide ma non esiste: la Libia
di Furio Colombo

Continuano a farci credere che la Libia, vasta regione sconnessa fra le due barriere del deserto e del mare, sia tuttora uno Stato, con un governo, un Parlamento, un esercito, una marina e un sistema giudiziario. Non è vero. Esiste un governo di Tripoli di un tale Al Serraj, senza ministri che si conoscano, senza parlamento, che estende la sua autorità al solo quartiere del porto di Tripoli. Lui sta su una nave. Esiste un esercito con un suo capo (il generale Haftar) in un’altra regione, ostile al “governo” di Al Serraj, dove c’è anche un parlamento locale che non riconosce Tripoli.
Bengasi è divisa da Misurata che non risponde ad alcuna delle altre autorità più o meno legittime, salvo gli accordi per l’attività petrolifera (dal pompaggio alla distribuzione internazionale del grezzo) che funziona bene e ha sempre funzionato bene, a cura di aziende italiane, al prezzo giusto e non si sa con quali criteri di distribuzione dei ricavi immensi. Oltre al petrolio, c’è una efficiente istituzione che resta attiva e affollata in varie parti di ciò che un tempo era la Repubblica Libica detta Jamaria. Sono i luoghi di detenzione, in parte vasti edifici che il passato regime usava come prigioni, in condizioni di criminale crudeltà note nel mondo, in parte lager costruiti alla svelta da bande locali perchè rendono molto (pagano gli italiani) se catturi e mantieni esseri umani senza garanzie e senza limiti coloro che tentano di attraversare la ex Libia verso il mare. Dunque “la Guardia Costiera libica” non è libica, perchè non c’è uno Stato con questo nome, c’è solo una piccola area (meno di San Marino) a cui inutilmente l’Italia ha tentato di fare grandi onori. È un vuoto riconosciuto dalle Nazioni Unite su richiesta di imprese europee del ramo energetico, che rimane un vuoto e che, infatti, tutte le altre parti della ex repubblica libica ignorano, e con cui non vogliono avere alcun legame politico o giuridico. Se questo è lo stato delle cose (ed è difficile negarlo) chi erano i miliziani armati che si sono dichiarati “Guardia costiera libica” e hanno minacciato di sparare su personale volontario (membri dell’equipaggio della nave Ong “Open Arm”) intento al salvataggio di fuggiaschi che non volevano lasciarsi catturare dai miliziani? In termini di storia e di tradizione marinara, la risposta è inequivocabile. Se non esiste uno Stato Libico, e non può esistere una guardia costiera di uno Stato che non c’è, uomini armati in mare, pronti a sparare pur di impossessarsi di profughi da trasformare in prigionieri, in cambio di un certo compenso, possono essere soltanto pirati. Io penso che debba essere questo l’impianto della inchiesta sulla nave di soccorso volontario (Ong) sequestrata in Sicilia. Quella nave non può essere stata sequestrata per aver resistito ai pirati, che evidentemente non agiscono più al largo delle coste somale, ma hanno trovato un mercato sicuro di fronte alle coste della ex Libia. L’equivoco è evidente, come quando si arresta un omonimo del criminale cercato. Qui l’equivoco è: quale delle due parti risulta fuori legge? La doverosa inchiesta giudiziaria dovrà accertare prima di tutto chi sono e chi paga questi uomini armati che affermano di essere soldati di un ente statuale che non esiste, e pretendono di agire con l’autorità di uno Stato che non c’è e di un governo di cui non si vede o si sente né volto né voce. Dovrebbe essere prestata attenzione anche alla vistosa differenza di intenti delle due parti. I pirati hanno agito con l’evidente intenzione di destinare tutti coloro che fossero riusciti a catturare nelle spaventose prigioni note ormai nel mondo, dove, come è accaduto a un giovane liberato troppo tardi e deceduto in Italia appena libero, si muore letteralmente di fame, come a Dachau. La nave Ong ha dimostrato e realizzato l’intenzione di salvare la vita di 218 persone in mare. Si tratta di un soccorso giunto appena in tempo e a rischio della vita per tutta la durata dell’operazione. Occorreva impedire la cattura e la detenzione di persone innocenti (fra cui una giovane madre incinta in condizioni gravi) in un caso pericoloso, anche come precedente, di pirateria in mare.
La nave Ong ha osservato la Carta dei Diritti dell’Uomo, i trattati umanitari di cui l’Italia è firmataria e partecipe, ed è riuscita a sottrarre 218 esseri umani dalla cattura di un potere che non riconosce diritti e, per questa sola ragione, espone i propri detenuti alla pena di morte, che la legge italiana non consente. Ben venga l’inchiesta, per sapere chi voleva catturare famiglie in fuga, nel mezzo del Mediterraneo, a 70 miglia dalla ex Libia, dunque fuori da acque territoriali libiche (se ci fosse uno Stato libico) minacciando chi voleva soccorrere e chi cercava soccorso, con le armi puntate sulle vittime designate, colpevoli di nulla. Ci dica l’inchiesta se è accettabile per l’Italia l’umiliazione di subire un’azione di guerra che assomiglia davvero alla pirateria, nel centro del Mediterraneo, e davanti alle coste italiane.

Repubblica 25.3.18
Intervista a Ada Colau
“Chi criminalizza la Ong spagnola dei migranti mette sotto accusa Barcellona”
di Omero Ciai Vladimiro Polchi

La sindaca Ada Colau, 44 anni, è sindaca di Barcellona dal 2015. Si è schierata al fianco di Proactiva Open Arms, l’ong spagnola che soccorre i migranti nel Mediterraneo
Assurdo prendersela con volontari che rischiano la vita senza guadagnare nulla per fare quello che dovrebbero fare gli Stati europei Critico la Spagna più dell’Italia. Voi avete accolto moltissime persone. E non potete essere l’unico Paese ad assumersi questa responsabilità

ROMA «Open Arms è la nostra flotta, deve essere chiaro che qualsiasi accusa contro di loro è anche un’accusa contro di me e contro i cittadini di Barcellona che rappresento», dice Ada Colau, sindaca della capitale catalana, in visita in Italia per difendere la Ong indagata dalla procura di Catania per associazione a delinquere. E sulla crisi politica in Catalogna aggiunge: «Il governo di Rajoy si nasconde dietro i giudici ma le crisi politiche non si risolvono nei tribunali, i leader indipendentisti in carcere devono essere liberati al più presto».
Sindaca Colau, che tipo di sostegno, anche finanziario, offre il comune di Barcellona alla Ong Proactiva Open Arms?
«Tutto è cominciato con Aylan, vi ricordate? Con l’immagine del bambino siriano morto sulla spiaggia in Turchia che commosse tutta l’Europa. E allora che abbiamo detto che era una vergogna e non poteva continuare così. A Barcellona ci fu una reazione emotiva molto forte e noi eravamo arrivati da poco al Comune e abbiamo pensato che dovevamo fare qualcosa. Prima abbiamo iniziato a denunciare l’inerzia dello Stato spagnolo, poi a vedere cosa potevamo fare noi come comune. E abbiamo deciso di aiutare quelli che aiutano. Per noi Open Arms fa quello che dovrebbero fare gli Stati e quindi abbiamo avviato con loro una collaborazione istituzionale. Dico sempre che se noi avessimo una flotta dovrebbe fare quello che fa Open Arms. La cosa più importante del mondo: salvare delle vite umane».
Se loro hanno commesso un reato lo ha commesso anche Barcellona?
«Esatto. Siamo pronti ad autodenunciarci e dare tutto il sostegno legale a Open Arms».
L’accusa della procura di Catania è di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Open Arms non ha commesso nessun errore?
«L’accusa mi sembra veramente assurda. So cosa fanno queste persone. Sono volontari che rischiano la vita senza guadagnare nulla per fare quello che dovrebbero fare gli Stati europei. Dovremmo essere riconoscenti. Invece l’Europa in modo vergognoso non solo non sostiene le navi di soccorso delle Ong ma ha iniziato una campagna di criminalizzazione».
Si riferisce anche all’Italia?
«A tutti, anche alla Spagna con cui sono molto critica. Più critica con la Spagna perché l’Italia per la verità ha accolto moltissimi migranti. E sono d’accordo che l’Italia non può essere l’unico Paese ad assumersi la responsabilità delle migliaia di persone che arrivano sulle spiagge e nei porti italiani. Però c’è qualcosa che per me è fuori discussione ed è che ci sono persone che stanno morendo affogate nel nostro mare, lo stesso mare dove noi andiamo in vacanza. E questo è inaccettabile in termini democratici. Oggi sono loro ma domani potremmo essere noi. Se ci fosse una guerra nei nostri Paesi e fossimo costretti ad andare sull’altra riva del Mediterraneo? Soccorrerli è un nostro dovere».
Parlando di solidarietà, non crede che l’Italia sia stata lasciata sola? Sa che dei 12mila migranti ricollocati dall’Italia in altri paesi Ue la Germania ne ha accolti 5mila e la Spagna soltanto 234?
«L’atteggiamento spagnolo non è tollerabile. Ma voi dovete sapere che in Spagna ci sono tante città — non solo Barcellona ma anche Madrid, Valenzia, Saragozza — che hanno detto di essere pronte ad aiutare nella ricollocazione. E la Spagna ha l’obbligo di fare questa ricollocazione perché ha firmato un accordo con l’Europa.
L’anno scorso dovevano arrivare più di 17mila migranti ma il governo del mio Paese ha disatteso gli impegni presi».
Perché non ha aperto il porto di Barcellona?
«Ma io lo farei subito. Purtroppo il porto lo controlla lo Stato non il comune. Per soccorrere persone che rischiano la vita lo aprirei oggi. Per me l’impotenza e la sofferenza è non poterlo fare».
Questa assenza di Europa sulla crisi dei rifugiati ma anche assenza di una sinistra europea che su questi temi abbia detto qualcosa di forte, questa gestione confusa, non è anche alla base della forza dei movimenti populisti di estrema destra?
«L’errore è cedere alle posizioni della destra secondo la quale uno Stato forte è quello che impone soluzioni con la forza, che blocca i confini, che alza fili spinati. E una donna malata che muore per aiutare il bambino che porta in grembo e raggiungere la sorella in Francia ma viene respinta alla frontiera lascia senza parole.
Questa è un’Europa fallita.
L’Europa è nata proprio per rispondere a questo, è nata per dire mai più alla guerra, mai più alle violazioni dei diritti umani. E se l’Europa fallisce nelle idee che l’hanno fondata, fallisce anche come progetto. L’Europa annega nel Mediterraneo quando muoiono delle persone e noi non siamo capaci di salvarle».
Tornando alla Catalogna, il giudice del Tribunale supremo ha appena firmato il rinvio a giudizio per ribellione di tredici leader indipendentisti catalani. Cosa ne pensa?
«Penso che è un disastro. Io non sono indipendentista ma c’è un problema di democrazia. Come sulla questione dei rifugiati, in Spagna abbiamo al potere un governo di irresponsabili che non governa. Ad un problema politico, com’è la questione dell’indipendenza catalana, bisogna dare una risposta politica. Invece loro mettono in galera leader indipendentisti per le loro idee. Abbiamo un governo che prima si è nascosto dietro gli agenti che ha mandato a reprimere il referendum del primo ottobre e adesso dietro i tribunali. In Spagna c’è un problema di democrazia a bassa intensità».

La Stampa 25.3.18
Israeliani e palestinesi
Immaginare la pace sotto il cielo di Gerusalemme
di Nathan Englander

Esattamente il giorno dopo l’uscita del mio nuovo libro, Dinner at the Center of the Earth, mi sono trovato faccia a faccia con una donna che mi diceva che uno dei ragazzi assassinati nella storia era suo cugino. Avevo appena passato anni dentro la mia zucca, addentrandomi nel campo minato del conflitto israelo-palestinese, e adesso ero lì, abbagliato dalla luce del sole, e cercavo di fare i conti con l’interpretazione non del libro ma di me.
Insieme avremmo affrontato la questione di dove si trovasse esattamente fosse il mio cuore mentre scrivevo.
Ho fatto un bel respiro profondo, in attesa di capire se si trattava di un momento di intimità condivisa o di una pubblica denuncia.
Il giudizio di un estraneo per me è davvero importante. Non solo perché sono fin troppo sensibile e mi sento venir meno al minimo segno di sgradimento artistico.
che ho sempre considerato la letteratura un atto morale, convinto che l’opera sia ispirata dalla percezione di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato da parte dello scrittore.
Se uno si sforza di costruire qualcosa di reale e vero, questo dovrebbe, come disse John Gardner Said, avere «carattere morale». Dovrebbe essere possibile «esplorarlo liberamente, trarne insegnamento», e inevitabilmente, come per l’esperimento di un chimico in laboratorio - per usare la sua metafora - testarne i valori.
Nel romanzare la mia vita a Gerusalemme durante gli anni del processo di pace, nel fare i conti con la mia disperazione per un’occasione perduta e la mia speranza per un’impossibile nuova opportunità, non volevo altro che attraverso il romanzo la gente partecipasse alla conversazione e riflettesse. Volevo che pensassero al modo in cui vedono le cose.
In precedenza avevo pubblicato un’allegoria sull’occupazione della West Bank, Sister Hills che, con mia sorpresa, funzionava come un test di Rorschach. I lettori spesso vi trovavano quello che volevano vederci e questo mi ha costretto a pensare a come funzionano l’intento e l’interpretazione e ha dato forma alla composizione di Dinner at the Center of the Earth. Quando ho iniziato a lavorarci ero acutamente consapevole di due obblighi personali
Il primo, legato ai mio senso morale, era la consapevolezza, effettivamente bizzarra, che avrei dovuto desiderare, con tutte le mie forze, che il libro uscisse come romanzo storico. Che avrei scoperto di aver perso il momento e di avere tracciato il ritratto di un tempo tramontato. Che bello sarebbe stato svegliarsi il giorno della pubblicazione del libro e scoprire che Jared Kushner aveva posto fine all’antico odio lasciandomi a parlare del nulla alla Npr (radio pubblica-privata di Washington Dc, ndr)?
Il secondo obbligo riguarda il sé dissociato, il pozzo dell’inconscio - da cui - per quanto sciropposo possa sembrare - sgorga la finzione letteraria. Nella misura in cui l’immaginazione può essere guidata e per quanto io possa avere mirato a questo, riconosco che la mia intenzione, come nel paradosso del gatto di Schrödinger, non era quello di presentare le due parti del conflitto israelo-palestinese, ma di scrivere con la consapevolezza delle due diverse realtà che include.
Mi sono trasferito a Gerusalemme nel 1996, entusiasta di far parte del processo di pace, di contribuire a quel giorno nuovo di zecca. Sono tornato a New York nel 2001 al culmine della Seconda Intifada. Insieme al cuore spezzato che ho riportato in America con me, e a un pessimismo ottimista che conserva ancora una sorta di promessa, sono tornato con una comprensione della sfida necessaria per porre fine al conflitto
La pace non veniva negoziata tra due parti con posizioni diverse su un problema. Gli israeliani e i palestinesi erano due popoli che, pur condividendo lo stesso spazio fisico, non stavano nemmeno abitando lo stesso regno.
Come ebreo, ho vissuto cinque anni a Gerusalemme, il cui amato luogo sacro è il Monte del Tempio. I miei vicini palestinesi, camminando per le stesse strade e respirando la stessa aria, vivevano ad al-Quds, il cui grande luogo sacro, che occupa la stessa collina, è Haram al-Sharif. È come imbattersi in un amico sul ponte di Brooklyn, solo per scoprire che lui sta attraversando il Golden Gate.
L’empatia che richiede gettare questo ponte tra i ponti va ben oltre l’accettazione di una diversa opinione o punto di vista. Si tratta di trovare un modo di comprendere dei mondi.
È quell’intuizione che mi ha condotto attraverso la struttura a spirale del mio romanzo, che mi ha portato a costruire un libro con il possibile felice obiettivo di essere imparziale. Ho voluto, come autore, offrire quello che è più significativo per me come lettore: una narrazione che affronta i problemi attraverso il personaggio e la storia, senza essere didascalico o polemico.
Le mie buone intenzioni nello scrivere mi permettono di parlare con il cuore in mano in ogni occasione. Così quando mi viene chiesto, da una parte in causa di questa annosa disputa, di rinunciare al diritto di vivere in Israele secondo la Legge del Ritorno, o, dall’altra, di ridurre in qualche modo il legame di Ariel Sharon con il massacro di Sabra e Shatila, posso affermare che la mia intenzione non era quella di difendere qualcuno, ma di invitare i lettori a valutare i motivi del loro punto di vista.
Per quanto riguarda la conversazione con quella lettrice, legata a una delle vittime innocenti ricordate nel mio romanzo, è un momento che tengo per me. Devo però dire che per un libro che aveva come principale obiettivo quello di esplorare l’empatia, quell’estranea mi ha gentilmente concesso il beneficio del dubbio, riconoscendo la mia umanità, come io ho supposto la sua. In questa realtà e nell’altra, questo è tutto ciò che cercavo, alla fine.
Traduzione di Carla Reschia

La Stampa 25.3.18
La rivincita di Ettore Majorana l’uomo che vide oltre il nostro futuro
Documentario su Sky celebra le sue teorie scientifiche
di Egle Santolini


Dopo ottant’anni di speculazioni e di pettegolezzi, suona l’ora della rivincita per Ettore Majorana. La sua scoperta più vertiginosa, il fermione di Majorana, ha finalmente dispiegato tutte le proprie possibilità, e potrebbe diventare la chiave per lo sviluppo di quel quantum computer che il fisico teorico della Stanford University Shoucheng Zhang definisce come «l’ultima invenzione che forse toccherà all’umanità, perché dopo saranno le macchine a far tutto». Le conclusioni di Zhang e del suo gruppo di lavoro sono recentissime, estate 2017. Ed è dunque venuto il momento di salvare Ettore Majorana dal «giallo» e dal «caso».
Non considerandolo più solo come lo scienziato che fece perdere le proprie tracce su una nave fra Palermo e Roma, il 25 marzo 1938, scatenando miriadi di ipotesi (suicidio? rapimento? fuga in convento? autismo? crisi d’identità sessuale?). Ma come un uomo che si sradicò dal mondo perché parlava un’altra lingua, vedeva molto più lontano dei propri contemporanei e aveva prefigurato un futuro inconcepibile, non tanto per chi viveva negli Anni 30 ma per noi.
È la tesi del documentario L’uomo del futuro, in onda, con la narrazione di Federico Buffa, su Sky Arte Hd lunedì alle 21, 15. Racconta l’autore Francesco Francio Mazza: «Tutto è cominciato con un articolo pubblicato da Science nel 2016. Il professor Zhang si dimostrava affascinato da questo giovane studioso siciliano che, negli Anni 30, era arrivato a una conclusione che polverizzava millenni di pensiero occidentale basato sulla divisione fra bene e male».
Majorana, la mente più brillante del gruppo di via Panisperna, lo scienziato che Enrico Fermi mise sullo stesso piano di Galileo e di Newton, non si accontentò infatti delle conclusioni di Paul Dirac sull’antimateria, cioè sull’esistenza di particelle a antiparticelle, ma andò oltre, prefigurando l’esistenza di una «particella angelo» che conteneva, insieme, sé stessa e il proprio contrario, materia e antimateria. Era andato oltre? Si era affacciato su un abisso? Di sicuro, a un certo punto decise di dileguarsi: perché, come suggerisce Mazza, «il talento può diventare una condanna». Se giochi in una categoria differente da tutti gli altri, se ti senti incompreso e inutile, finisci per isolarti e andartene».
Majorana non morì in mare, ma sparì volontariamente (probabilmente con l’assistenza dei Gesuiti e del Vaticano) per ricomparire negli Anni 50 in Venezuela, sotto il nome di Bini: lo ha concluso un’indagine giudiziaria romana condotta dal sostituto procuratore Pierfilippo Laviani, chiamato a indagare sui possibili risvolti criminosi della sua scomparsa. Molto resta da indagare, perché la figlia Lidia conserva un’agendina che ha promesso a suo padre di non divulgare, e perché è ipotizzabile che Majorana-Bini abbia lasciato scritti di chissà quale portata. Intanto, la sua voce ha ricominciato a risuonare. E guida le scoperte della scienza.

Il Sole Domenica 25.3.18
Christopher Isherwood e Stig Dagerman
L’alfa e l’omega della Germania nazista
Stig Dagerman: Autunno tedesco , traduzione di Massimo Ciaravolo, cura e postfazione di Fulvio Ferrari e nota di Giorgio Fontana. Iperborea. Milano, pagg. 160, € 16
Christopher Isherwood: Addio a Berlino , traduzione di Laura Noulian, Gli Adelphi, Milano, pagg. 252, € 12
di Marta Morazzoni


Letti uno dopo l’altro Addio a Berlino e Autunno tedesco fanno una certa impressione: due autori tra loro molto lontani per stile e cultura, Christopher Isherwood e Stig Dagerman, aprono e chiudono la parentesi della stagione nazista. I loro scritti, l’uno ambientato nei primi anni ’30 e l’altro un reportage condotto nelle città tedesche nel 1946, diventano l’alfa e l’omega di un’epoca che si annuncia inquieta, tra luci da avanspettacolo e ombre, per finire nella tragedia di un dopoguerra tra i più terribili della storia. Dalla fine della repubblica di Weimar alla devastazione della Germania bombardata a tappeto, il percorso di questi anni è un marchio indelebile sull’intera Europa e su cui non si è ancora finito di riflettere. Ma Isherwood da un lato, Dagerman dall’altro fanno parte del tempo che narrano e documentano, il primo con sei racconti in cui i personaggi tornano a comporre un mosaico dai colori che da vividi si fanno cupi; mentre con Autunno tedesco il giovane Dagerman, venuto dalla Svezia come giornalista a percorrere le città desolate della Germania postbellica, traccia un quadro di spaventosa miseria e muove il lettore ad una riflessione su come e dove ricada la colpa della guerra: sui poveri e i diseredati. È nella natura problematica di Dagerman, nella sua acuta e libera osservazione delle cose interrogarsi sulla miseria nera che assedia chi è sopravvissuto alla guerra, ma stenta a viverne il dopo, pagando lo scotto dell’essere stato dalla parte sbagliata. Con quale responsabilità?
È la domanda che tocca quanti per ignavia, per ignoranza, per impotenza, non hanno opposto resistenza al nascere del totalitarismo hitleriano. Questo è un tema che corre lungo i racconti di Isherwood, dapprima con un passo leggero, attraverso figure brillanti come Sally Bowles, che avrebbe ispirato il film Cabaret, poi con personaggi di incerta definizione quali Otto Nowak e la sua famiglia proletaria. Ritratti di individui, incontri, realtà della Berlino tra il ’30 e il ’33, in un crescendo di percezioni angosciose, mascherate dalla normalità, dal quotidiano che non sa misurarsi con i passi pesanti della politica, non ne ha coscienza lucida, eppure ne è parte. La levità di stile in Addio a Berlino funziona bene nel lasciar trasparire un mondo che scivola dentro la tragedia infine percepita dallo scrittore (che in questa raccolta ha fatto di se stesso un attento io narrante) che chiude con il diario dell’inverno 1932/33, quando il clima di attesa e di incertezza si è risolto nella nuova faccia della Germania, del cui cambio di passo di pagina in pagina il lettore è stato messo sull’avviso, tra la relativa coscienza della gente, la sua sommaria adesione al nuovo regime e il rassegnato sgomento di chi non ha forza per opporsi.
La Germania del ’46, quella che scorre tragica sotto gli occhi di Dagerman, è una terra senza consolazione, parlarne è difficile, guardarla in faccia è difficile. Stig Dagerman, svedese di ventitre anni, va a Berlino per incarico del quotidiano Expressen a raccontare cosa è rimasto del paese che la guerra ha annichilito; è uno dei tanti inviati che si muovono tra le macerie delle città bombardate, ma è tra i pochi a interrogarsi sulla condizione di chi è scampato al massacro. La famiglia Nowak di Isherwood, per esempio? La risposta sembra in realtà a portata di mano: hanno perso una guerra che hanno voluto e condotto con i peggiori sistemi, la pena è proporzionale alla colpa. I conti tornano, cioè tornerebbero se fatti sulla massa; ma ci sono gli individui, ci sono le singole sofferenze, la fame e la miseria spaventosa che, osserva Dagerman, non è mai una buona maestra, da lei non si impara nulla, meno che mai a elaborare il senso di colpa.
Lo scrittore viaggia per due mesi attraverso un paese fatto a pezzi nei suoi edifici e nel morale della gente, soprattutto la più povera, la più martoriata. Innocenti? La domanda rimane sospesa, o forse non è più neppure una domanda lecita: di città in città Dagerman vede lo sgomento muto di condizioni di vita non più umane, una sorta di ’occhio per occhio’ che cade sugli aggressori di un tempo, posto che quelli che ora vivono su un vagone ferroviario su un binario morto della stazione di Essen siano mai stati gli aggressori. E quand’anche? Manzoni sosteneva che sono sempre gli stracci che volano in aria, e la sua osservazione torna a proposito della destrezza con cui, osserva Dagerman, chi ha avuto una qualche responsabilità nella vicenda nazista trova ora il modo di uscirne, mentre gli inermi pagano. È una delle note ricorrenti nei tredici pezzi che l’autore svedese scrive per l’«Expressen», l’ultimo dei quali tocca un argomento prossimo allo scrittore: la distanza tra letteratura e sofferenza. È un passo cruciale che riguarda chi da vicino ha osservato il dolore nelle sue forme degradanti e cerca, crede di poterne fare materia d’arte, in una forma di sublimazione forse, o sorreggendo lo sgomento con il piedestallo della bellezza formale. Per Dagerman, la cui lucidità non permette illusioni, tutto questo ha un sapore amaro, e l’arte non è ora la risposta ai drammi che ha visto, per i quali non esiste che la compassione così nuda da parere arida. Il ’bubbolio lontano’ avvertito da Isherwood è diventato per Dagerman un silenzio assordante. Ci vorranno anni perché questo silenzio ridiventi parola.

Il Sole Domenica 25.3.18
Popolo versus élite
Ilvo Diamanti e Marc Lazar, Popolocrazia. La metamorfosi delle nostre democrazie , Laterza, Roma-Bari, pagg.164, € 15
di Valerio Castronovo


Stiamo assistendo pressoché dovunque in Occidente all’avanzata del populismo: dagli Stati Uniti (dove la “pancia” dell’America bianca e xenofoba ha portato Donald Trump alla Casa Bianca) all’Europa (dove è in corso da tempo un’ondata dilagante di movimenti e partiti populisti di varie colorazioni politiche).
Quel che accomuna nel Vecchio Continente il populismo dell’estrema destra e quello della sinistra radicale, al di là delle loro diverse motivazioni, è un irreducibile antagonismo nei confronti delle classi dirigenti quanto un’esaltazione pregiudiziale del popolo, considerato alla stregua di un’entità omogenea e coerente per eccellenza, da contrapporre alle élite ritenute avulse dalle istanze e dalle esigenze della collettività. Al di là delle sue differenti matrici e declinazioni, questo duplice populismo, in quanto ricusa i principi fondamentali della democrazia liberale e rappresentativa, mira perciò all’instaurazione di una democrazia “diretta” o “dal basso”, comunque alternativa rispetto a quella prevalsa finora.
È quindi un compito impegnativo quello che si sono posti Ilvo Diamanti e Marc Lazar nel loro saggio, con l’intento non solo di ricostruire le cause preminenti dell’espansione del populismo ma di individuare anche quale sia il risultato, nei suoi tratti distintivi, della prospettiva di marca populista. Ciò che hanno fatto prendendo in esame due “case study” in contesti nazionali differenti ma, per tanti aspetti, significativi come quello italiano e quello francese.
Quanto alla diagnosi delle circostanze che hanno concorso all’affermazione nel nostro Paese del populismo (tanto più clamorosa dopo l’esito delle recenti elezioni politiche), non c’è dubbio che a spingere al successo il movimento pentastellato abbia agito la forte carica di risentimenti sociali e di pulsioni antipolitiche scaturita nel Mezzogiorno per le profonde conseguenze della devastante crisi economica esplosa nel 2008 a cui si è sovrapposto inoltre un insieme di criticità di ordine strutturale risalenti indietro nel tempo. A sua volta, il fatto che la Lega sia giunta a superare Forza Italia nell’ambito del centro-destra, lo si spiega con quello che è stato il suo principale “cavallo di battaglia”: ossia, l’ostilità nei riguardi dell’immigrazione, denunciata come una grave minaccia alla sicurezza individuale e all’identità nazionale.
Quanto all’analisi delle fortune del populismo in Francia, rappresentato sia da quello ipersovranista e xenofobo del Front National di Marine Le Pen che da quello della “gauche” egualitarista e bolivariana di Jean-Luc Mélenchon, è innegabile l’influenza che hanno esercitato, in primo luogo, la deindustrializzazione di numerose roccaforti operaie d’un tempo e il crescente malessere delle periferie urbane più degradate, nonché l’erosione di precedenti forme di tutela e protezione sociale. A non contare le reazioni suscitate dall’immigrazione e dall’offensiva terroristica dell’Isis. Esistevano pertanto tutti i sintomi di una svolta verso l’estrema destra se non fosse comparso inaspettatamente, in extremis, un nuovo attore politico come Emmanuel Macron che ha saputo avvantaggiarsi del particolare meccanismo elettorale francese per acquisire al ballottaggio una gran massa di consensi sia della destra moderata che dalla sinistra riformista.
Sta di fatto che tanto al di qua che al di là delle Alpi si è manifestato un moto di contestazione e ripulsa nei confronti dei grandi partiti di massa e, insieme, di euroscetticismo, di avversione alle Ue, vista dai populisti come depositaria di un indirizzo d’austerità rigorista e ancillare al sopravvento di un capitalismo finanziario predatorio e globalizzato. Tutto ciò ha finito per dar luogo a quella che Diamanti e Lazar definiscono col termine di “popolocrazia”, risultante di un triplice processo di personalizzazione, presidenzializzazione e medializzazione.
Ma se è venuta così delineandosi una nuova stagione segnata dal ripudio delle culture politiche tradizionali e da derive nazional-populiste, lo si deve anche al fatto che la sinistra nel suo complesso è rimasta una sorta di convitato di pietra, non avendo elaborato un nuovo progetto di società né una visione lungimirante del futuro, di fronte alle sfide cruciali in atto su più versanti, e non sapendo più esercitare una robusta attrattiva fra i giovani.

Il Sole Domenica 25.3.18
Marzio Barbagli
Sulla morte e i suoi luoghi comuni
Alla fine della vita. Morire in Italia e in altri Paesi occidentali, il Mulino, Bologna, pagg. 352, € 20
di Raffaele Liucci


Scardinare il senso comune: è questo l’obiettivo che si è prefisso nei suoi libri Marzio Barbagli, un sociologo dagli spiccati interessi storici, secondo il quale anche nel suo campo per rispondere alle domande suscitate dal presente occorre «risalire indietro nel tempo». Quando si è occupato di famiglia, sessualità, immigrazione, criminalità, suicidio, lo studioso bolognese ha sempre finito per incrinare certezze consolidate, talvolta sforando i limiti del politicamente corretto. Ora il nuovo mito da sfatare è quello della rimozione della morte, prerogativa della società contemporanea, almeno secondo un’opinione trasversalmente abbracciata da fior di storici, filosofi, antropologi, sociologi, psicologi e scrittori.
Ad esempio, il grande sociologo tedesco Norbert Elias – in un intervento vergato quand’era ormai molto anziano e intitolato La solitudine del morente – sosteneva che «mai come oggi i moribondi sono stati trasferiti con tanto zelo igienista dietro le quinte della vita sociale per sottrarli alla vista dei vivi, mai in passato si è agito con tanta discrezione e tempismo per minimizzare il passaggio dal letto di morte alla tomba». Per Elias, l’allontanamento della morte era un aspetto del più generale «processo di civilizzazione», ossia di autocontrollo dei sentimenti, da lui scandagliato in una celeberrima opera. Eppure, secondo Barbagli, argomentazioni di questo tipo sono tanto suggestive quanto smentite dalla ricerca empirica e storica. Il suo vasto affresco multidisciplinare – nel quale attinge pure dalla storia della mentalità e delle idee – è anche un implicito apologo sui rischi connaturati a una visione astorica e nostalgica del passato.
Non è per nulla vero, sostiene infatti Barbagli, che un tempo gli uomini si congedassero quietamente dal mondo. In teoria, la morte «naturale» tipica nei secoli scorsi – nel proprio letto, circondati dal calore della famiglia e con il viatico del prete – sembrerebbe più umana rispetto alla morte «artificiale» cui andiamo incontro oggi: soverchiati dalla burocrazia e intubati in un anonimo letto d’ospedale. Ma in realtà la «cerimonia domestica della morte» è spesso rimasta una chimera (non nelle pagine di Poliziano dedicate all’addio alla vita di Lorenzo de’ Medici, o nel Gianni Schicchi di Puccini). Non solo perché pure allora si poteva morire all’improvviso in strada, ma anche perché guerre, carestie ed epidemie rendevano difficilmente programmabile e gestibile la propria dipartita, soprattutto se non si era ricchi. Per di più, oltre che dolorosissimi, i trapassi erano sovente tutt’altro che sereni: «Per almeno tre secoli, dopo la metà del Trecento, moltissimi hanno esalato l’ultimo respiro in un lazzaretto o su un carro che ve li trascinava con la forza, evitati dai famigliari e dagli amici, fra le urla e i pianti di decine di moribondi».
Se un tempo il contatto coi cadaveri era un’esperienza comune, questo non significa che l’annunciato arrivo della signora con la falce fosse accettata come normale: «Solamente il nominarla agghiaccia il sangue nelle vene – scriveva nel 1586 Stefano Guazzo – spoglia le guance del vermiglio colore, vuota i cuori di vigore e priva di gusto il palato, onde avviene che il ricordar la morte fra le vivande è attribuito a disconvenevolezza e a mala creanza».
Insomma, secondo Barbagli, la società attuale non nasconde e teme la morte in misura maggiore del passato. Nel frattempo, però, è cambiato tutto. La durata media della vita si è allungata, i legami famigliari si sono allentati, l’«eclissi del sacro» ha ridimensionato il ruolo della religione, la batteriologia e la microbiologia hanno rivoluzionato le conoscenze mediche, le grandi epidemie che uccidevano velocemente e in modo indiscriminato hanno lasciato il posto a malattie croniche e degenerative dal decorso anche lunghissimo. Per questo l’«ospedalizzazione della morte», avviatasi alla fine dell’Ottocento, ha preso oggi il sopravvento (ma non ovunque) sui rituali domestici del trapasso, più consoni a una società tradizionale: nella quale il vestirsi a lutto, le processioni dietro le bare e i pellegrinaggi ai cimiteri svolgevano le funzioni di condivisione del dolore ora assolte dalle pagine di Facebook dedicate agli amici scomparsi. D’altra parte, la crescente diffusione degli Hospice, delle cure palliative e dei testamenti biologici dimostra quanto la questione del «fine vita» non sia stata affatto rimossa dal nostro orizzonte, ma semmai ricalibrata in funzione di un’etica incentrata sulla riduzione della sofferenza. Con buona pace di quanti pensano che il controllo del dolore – una delle grandi conquiste della medicina moderna – trasformi l’individuo «in un insensibile spettatore della decadenza del proprio io» (Ivan Illich).
Un altro luogo comune contestato da Barbagli riguarda la consuetudine di celare la verità al malato, una pratica da molti considerata specifica della modernità. È vero invece l’opposto: «Da Ippocrate in poi, la grandissima maggioranza dei medici ha sempre nascosto le cattive condizioni ai pazienti, fornendole solo alle famiglie». Soltanto nella seconda metà del Novecento, prima nei Paesi anglosassoni e poi gradualmente anche in quelli mediterranei, i medici cominceranno a formulare prognosi esplicite, ancorché infauste. Dall’antico modello paternalistico che occultava, esso sì, la morte si è dunque giunti a una disciplina medica che privilegia l’autonomia del paziente e il suo diritto a sapere. Anche se non tutti i malati reagiscono a una prognosi negativa come il serafico Wittgenstein in una lettera di fine novembre ’49 all’allievo Malcolm: «Non sono rimasto affatto sconvolto quando ho saputo di avere il cancro, mentre mi ha sconvolto apprendere che si può curarlo, perché non provavo nessun desiderio di continuare a vivere».
Ovviamente, ciascuna morte resta un evento unico. Lo studioso può cogliere le tendenze generali, attraverso le statistiche demografiche, ma deve arrendersi di fronte alla singolarità di ogni decesso. Per questo l’affascinante narrazione di Barbagli è spesso intercalata da stuzzicanti storie aneddotiche, in grado di aprire uno squarcio sulla psicologia del morituro e dei suoi famigliari, si tratti di un povero contadino siciliano, di Camillo Benso conte di Cavour, di Enrichetta Blondel (moglie di Alessandro Manzoni) o di un procuratore generale della Cassazione. La probabilità di morire fra le proprie mura piuttosto che in un nosocomio dipendevano non solo dal sesso, dall’età, dal ceto e dalla patologia, ma anche dalla residenza. L’Italia, in questo senso, è oggi il regno dell’eterogeneità territoriale, visto che nel 2014 è morto in casa l’11% degli abitanti di Cremona e il 75% di quelli di Enna. Un dato che rivela quanto la mentalità e i costumi incidano tuttora sulla scelta del luogo e del modo in cui spirare.
Marzio Barbagli, Alla fine della vita. Morire in Italia e in altri Paesi occidentali , il Mulino, Bologna, pagg. 352, € 20