Repubblica 24.3.18
L’intervista. Dov’è finita la Sinistra
Arturo Lorenzoni, vicesindaco di Padova
“Che sia un marciapiede o un’idea dobbiamo ripartire dalla bellezza”
di Concita De Gregorio
Quando
non è in giacca e cravatta, nella sua tenuta da prof, Arturo Lorenzoni
sembra subito di nuovo l’apertura delle giovanili del Petrarca: polo e
palla ovale sottobraccio, sorriso solidale, a chi bisogna dare sostegno
oggi, dai ragazzi, c’è un compagno da mandare in meta. Solo più
stempiato, certo: 50 anni. «Ho imparato tutto lì. Quello che non so dai
libri l’ho imparato sul campo dei gesuiti, il Tre Pini. Che oggi non c’è
più, ma io quando devo ragionare torno a sedermi qui, su questa panca».
In meta l’anno scorso è andato lui. Nuovo alla politica, ha preso il 22,8 per cento dei voti.
Lista:
Coalizione civica. Oggi fa il vicesindaco di Sergio Giordani, Pd, che
in campagna elettorale ha avuto un ictus e ha vinto (non solo, ma anche)
grazie all’onda emotiva di sostegno popolare. A Padova.
Un ictus. In campagna elettorale. Non c’è stato chi non abbia pensato a Berlinguer.
Lorenzoni
è di sinistra, ma non viene dal Pci. «Ho votato sempre a sinistra, sì,
anche radicale qualche volta, ma sempre una sinistra cattolica».
È ingegnere, insegna Economia dell’energia all’Università di Padova. Due bisnonni in politica. Padre liberale.
Consulente
di Confindustria, Enel, Cariplo. Per il rettore: delegato ai rapporti
con la Cina. Per la Diocesi: nel comitato scientifico della Fondazione
Lanza. La moglie Anna lavora in uno studio di commercialisti. Un uomo di
sistema, votato in massa dai giovani dei centri sociali (a Padova c’è
il Pedro, più antico del Leoncavallo. C’è radio Sherwood), dal mondo
cattolico della finanza e del volontariato, dalla borghesia delle
professioni.
È come se l’avessero votata, in una sola famiglia, il
padre avvocato democristiano, la madre preside comunista, il figlio
ribelle antagonista e lo zio prete.
«Effettivamente», ride.
Come ha fatto?
«Abbiamo
allargato molto l’area del consenso concentrandoci su alcuni contenuti.
Le priorità di programma erano: innovazione, inclusione sociale,
sostenibilità ambientale e bellezza».
Bellezza, ha scritto nel suo programma politico?
«Certo.
Aspirazione alla bellezza come cura del bene comune. Si è belli solo
insieme. Dentro la bellezza che sta fuori. Tutta la storia d’Italia è
costruita sulla bellezza. Se lasciamo quella priorità perdiamo la nostra
identità. Da un marciapiede a un’idea urbanistica. Ma anche la bellezza
di un edificio che non consuma energia, neutrale. La bellezza dà
lavoro. Investire in bellezza impegna competenza, innovazione».
Mi racconta dei suoi bisnonni?
«Quello
materno, Pasquale Colpi, veniva da una famiglia di Asiago, erano
imprenditori del formaggio. È stato due volte sindaco di Padova, per la
destra.
L’altro, quello paterno, amministrava terreni. Fu deputato
nel primo parlamento dell’Italia Unita. Lorenzo Lorenzoni. Anche mio
padre Luigi ha fatto politica negli anni Settanta, da liberale: era un
gruppo di professionisti, avvocati e giornalisti da cui poi, negli anni
’90, è uscito Giancarlo Galan».
Un liberale negli anni Settanta a Padova… Se li ricorda quegli anni? Era molto giovane.
«Ero
alle medie. Ricordo i miei fratelli più grandi che dicevano “andiamo a
vedere la guerra in centro”, mia madre disperata metteva il divieto di
uscire.
Gambizzavano i professori amici di famiglia. Io sono
arrivato al liceo dopo il delitto Moro. Era già cambiato tutto. Ma la
ferita di quegli anni in città è ancora aperta. Periodicamente qualcuno
va a imbrattare le lapidi. Qui la contrapposizione fra destra e sinistra
è ancora molto forte».
Eppure lei ha tenuto insieme una
coalizione che va dai centri sociali a Forza Italia, ed è stato votato
soprattutto da chi ha meno di quarant’anni. Ha assorbito anche i voti
Cinquestelle.
«Forza Italia nella sua frangia liberale, quella che non poteva più convivere con la Lega.
Padova
ha sofferto molto la guida leghista che lavorava sul conflitto. Si
erano tanto inaspriti i rapporti. Da li è maturata l’idea che qualcuno
di mondi ancora non coinvolti nella gestione politica di governo dovesse
scendere per dare contributo».
È maturata in chi? Dove?
L’ex sindaco Zanonato e il Pd sostenevano Giordani.
«Amici
diversi. Del rugby, dell’università. Ci si trovava la sera al pub
Berlino, intorno a una botte. A Bologna era nata Coalizione civica. La
giunta leghista qui intanto era stata sfiduciata. Il limite della
sinistra tradizionale è sempre stata questa corsa all’esclusione: se ce
lui in lista non ci sono io. Come succedeva da ragazzi negli inviti alle
feste: prima dimmi chi c’è.
Una sinistra che continua a rompersi
in mille rivoli che la rendono irrilevante. C’è sempre un trascorso, una
storia passata che condiziona. Allora a un certo punto bisogna dire
fuori tutti.
Bisogna mettere su carta le priorità condivise:
quattro idee, un programma. Va bene anche uno che non è nessuno. Va bene
anche Lorenzoni».
Torniamo ai centri sociali.
Hanno votato Coalizione civica.
«È verosimile. Alcuni, non tutti.
Molti giovani comunque, sì.
Abbiamo
fatto un grande lavoro assembleare, ancora lo facciamo. Scrivere un
programma insieme, identificare le esigenze. Anche i ragazzi che hanno
un po’ di allergia alle regole si sono sentiti parte di un processo.
Sono comunque fuori dal governo, non partecipano, ma c’è dialogo.
Ciascuno ha i suoi mal di pancia, figuriamoci. D’altra parte cosa
avevamo sul tavolo?
Complessivamente c’è stata molta
determinazione: bisogna accendere i cuori, bisogna entusiasmare. Avere a
cuore quello che la gente chiede».
E ha convinto anche la borghesia.
«Qui
c’è una grande tradizione di impegno nel sociale, che è anche la mia
storia. E di didattica, di studio. Per esempio: avevamo in lista con noi
due o tre presidi di scuole superiori che gestiscono le scuole con
intelligenza, conosciuti e apprezzati dalle famiglie. Contano sempre le
persone di cui ti fidi, alla fine».
Cosa ha portato il Pd nazionale a un cosi misero risultato?
«Il
Pd ha fatto prevalere criterio di appartenenza a quello di
progettualità. Non ha trovato tre punti forti su cui entusiasmare».
Renzi sembrava aver entusiamato, al principio.
«Anche
a me Renzi all’inizio piaceva molto, ma ha un ego troppo grande e non
ha saputo moderarsi. Quando si governa l’interesse generale deve sempre
prevalere sul proprio interesse: non esiste trucco per evitare che la
gente si accorga che stai pensando più a te che a loro.
Però
bisogna stare attenti: il Partito democratico rimane un attore
imprescindibile. Uno dei problemi della sinistra è la costante rivalsa
nel confronti del Pd. Il bisogno di segnalarsi come diversi. In questo
la legge elettorale ha dato un colpo terribile: le modalità in cui
vengono individuate le liste, era così visibile la lotta di potere».
Come legge il voto nazionale?
«A
Nord ha lavorato la paura, a Sud il reddito di cittadinanza ha fatto la
differenza. Hanno detto caspita, fantastico. Nessuno aveva un progetto
che entusiasmasse. Ha prevalso la ricerca della sicurezza: economica,
personale».
Comprensibile, dove c’è incertezza economica.
«C’è
una parte della società, a Padova come in tutta Italia, molto
conservatrice. Ogni cosa nuova spaventa. Cominciare un po’ a ragionare
per rifondare il mondo democratico di questo paese è essenziale.
Ragionare: cioè analizzare, studiare, comprendere. Mettere a frutto la
conoscenza, generarne di nuova. Non servono persone abili e scaltre,
servono persone dedite e competenti. Bisogna rigenerare la fiducia».
Come?
«Non
lo so in assoluto. So come ho fatto io: ascolto, condivisione, cura.
Bisogna ritrovare l’entusiasmo di un progetto. Ne dico uno: la
sostenibilità (ambientale, economica) può diventare una guida per la
crescita, l’inclusione. Può dare lavoro e costruire bellezza».