Repubblica 24.3.18
Bruxelles e Ankara
Se la Ue paga le armi della Turchia
di Marco Ansaldo
Sì
all’erogazione alla Turchia della seconda tranche di fondi — altri 3
miliardi di euro — per contenere e aiutare i migranti che premono alla
frontiera d’Europa. Ma con l’obbligo per Ankara, condannata per le
«azioni illegali nel Mediterraneo e nel Mar Egeo», di «rispettare la
legge internazionale e i rapporti di buon vicinato, normalizzare le
relazioni con tutti gli Stati membri inclusa Cipro», invitandola a «una
soluzione veloce e positiva delle questioni attraverso il dialogo».
Insomma, un buffetto sulla guancia per Recep Tayyip Erdogan quello dato
dal Consiglio europeo appena concluso a Bruxelles. Un gesto fatto di
parole anche ferme, comunque respinte da Ankara che strilla di «critiche
inaccettabili», ma recepito in realtà dai turchi come lieve rispetto
all’entità della somma che sta per arrivare nelle loro casse.
Nessuno
ha dubbi che da quando l’intesa è entrata in vigore nel 2016 il
fenomeno migratorio sia stato, a ragione o no, fermato. E che per molto
tempo la Turchia sia stata lasciata sola a gestire una massa di
profughi, in maggior parte siriani, che di anno in anno si sono
riversati sul suo territorio raggiungendo ora la ragguardevole cifra di
3,8 milioni.
In un Paese di nemmeno 80 milioni quei rifugiati
significano addirittura il 5 per cento in più degli abitanti. Nessuno
Stato ha mai sopportato un peso simile.
Le perplessità riguardano
piuttosto la certezza sulla gestione di questo enorme flusso di danaro
sborsato dai singoli Stati europei. L’Italia, ad esempio, è chiamata a
versare 225 milioni di euro. L’inchiesta de L’Espresso, svolta con un
pool investigativo internazionale, rivela che l’Unione europea ha già
dato alla Turchia quasi 100 milioni di euro per comprare mezzi
corazzati. Lo ha fatto nel pieno controllo delle frontiere, dotandosi
dei fondi anti-profughi, ma Bruxelles non è in grado di sapere se questi
mezzi — a prova di mina e dotati di apparati per stanare i cecchini —
siano stati per caso usati nella presa di Afrin, l’enclave curda in
Siria conquistata dall’esercito turco.
Uno di questi contratti
risulta assegnato alla fabbrica bellica di un parlamentare del partito
conservatore di origine religiosa fondato da Erdogan.
Proprio in
questa area Ankara ha in mente due fasi. Da un lato, far tornare i
profughi siriani, riportandoli nelle zone liberate militarmente, come in
quella appena sgomberata di Afrin e nelle altre città in procinto di
essere attaccate.
Dall’altro, proseguire la guerra contro i gruppi
che considera terroristi (le unità curde) e jihadisti, rafforzando le
milizie siriane ribelli sue alleate.
Una determinazione che la sta
portando a stracciare l’altolà americano sull’intoccabilità dei
combattenti curdi, ritenuti da Washington invece essenziali (vedi
Kobane) nella lotta all’Isis.
Bene allora ha detto al vertice il
premier greco Alexis Tsipras: «Dobbiamo essere molto diretti con la
parte turca sui loro obblighi, specialmente sul rispetto della legge
internazionale». La riunione di Bruxelles si sposta adesso lunedì a
Varna, sul Mar Nero, nella Bulgaria presidente europea di turno, con il
summit diretto fra Ue e Turchia e la definitiva luce verde
all’erogazione della somma pattuita.
Erdogan annuncia la sua
presenza e già batte cassa: «Non continuate a ritardare, dateci i
soldi». Il mantra che risuona ad Ankara è pacta sunt servanda. Giusto.
Però
occorre vincolare il Sultano non con semplici parole, ma con i fatti,
costringendolo a impegni concreti e soprattutto verificabili. Arrivando
magari a usare gli stessi codici comportamentali e un atteggiamento
altrettanto duro. Pena il non rispetto, dalla controparte turca.