Repubblica 24.317
Dietro le quinte
Monaco 1938. Salvate il soldato Chamberlain
È venuta l’ora di mostrarsi più solidali con lui, rivedendo la narrazione churchilliana
Lo
scrittore ricostruisce le fasi che portarono all’accordo sul destino
della Cecoslovacchia. E assolve l’allora premier inglese accusato (ora
anche in libri e film) di essersi piegato alle volontà di Hitler
di Robert Harris
All’interno
del Führerbau, come veniva chiamato il monumentale edificio in pietra
bianca nel centro di Monaco, due scalinate gemelle in marmo rosso
salgono alla galleria del primo piano. Un pesante portone conduce allo
studio del Führer. In fondo alla stanza, ampia e cupa, con le pareti in
boiserie, c’è ancora il camino in mattoni davanti al quale il 29
settembre 1938 Hitler e Mussolini discussero con Neville Chamberlain e
il primo ministro francese Edouard Daladier, del destino della
Cecoslovacchia.
A due chilometri di distanza l’appartamento di
Hitler, al secondo piano di un palazzo elegante, mantiene i pavimenti in
parquet, le porte, gli infissi e le scaffalature originali del 1930. Il
Führerbau oggi è una scuola di musica. Di rado in un luogo ho avvertito
la presenza di tanti fantasmi, era come se i protagonisti della
drammatica conferenza di Monaco fossero appena usciti dalle stanze.
Lo
storico John Lukacs ha intitolato Il Duello il suo eccellente saggio su
Churchill e Hitler nell’estate del 1940, ma i due in realtà non si
incontrarono mai. Il vero duello fu tra Hitler e Chamberlain, che si
incontrarono in tre occasioni e che si detestavano cordialmente. Lo
storico Joachim Fest osservava nel suo diario: «Albert Speer ci raccontò
che, dopo la conferenza di Monaco del 1938, Hitler fu di cattivo umore
per parecchi giorni e, contro ogni sua abitudine, dava sfogo gratuito
alla rabbia.
Ovviamente nessuno osava chiedergliene il motivo e
lui da parte sua taceva… Pian piano emerse che Hitler aveva
l’impressione che l’atteggiamento conciliante delle altre potenze lo
avesse depredato di una reale vittoria. Quindici giorni dopo, in un
consesso ristretto, disse che era stato ingannato e non solo dalla
codardia dei britannici e dei francesi. I tedeschi tergiversando si
erano fatti infinocchiare. “I nostri cari tedeschi!” aggiunse
amareggiato. “E proprio da quel Chamberlain!”».
È difficile ancora
oggi negare il mito consolidato e convincere il pubblico che Hitler
considerava l’accordo di Monaco un raggiro, addirittura uno smacco. Ma
la realtà è evidente. Sorprende che tuttora non venga riconosciuta a
Chamberlain la parte avuta nella vittoria britannica. Lungi dal
corrispondere alla caricatura popolare che lo voleva debole, l’uomo con
l’ombrello, il primo ministro britannico era a suo modo presuntuoso,
cocciuto, dispotico, misterioso e messianico quanto Hitler.
Avvertito
nel 1938 dai vertici dei servizi segreti che una seconda guerra
mondiale avrebbe segnato la fine dell’Impero Britannico, e consapevole
che, se la Germania avesse invaso la Cecoslovacchia, le opportunità di
evitare il conflitto si sarebbero ridotte in modo drastico, scelse la
strategia del faccia a faccia con Hitler.
Chamberlain si recò in
volo a incontrare Hitler per la prima volta il 15 settembre. A Hitler
chiese di esporgli le sue rivendicazioni nei confronti dei cechi e il
Führer ne diede approfondita notifica, ricevendo da Chamberlain la
promessa di tenerne conto e di fare il possibile. Nelle successive due
settimane, Hitler – che puntava alla guerra, non al negoziato – cercò di
liberarsi dall’amo cui aveva abboccato. Alzò la posta imponendo una
scadenza irrealistica. Di fronte a un’assemblea di 15.000 fedelissimi,
il 26 settembre a Berlino si scagliò farneticando contro il perfido
governo di Praga. Ma il divario tra le rivendicazioni avanzate da Hitler
nei confronti dei cechi e le concessioni che questi si dichiararono
disposti a fare su pressione di Chamberlain era minimo, al punto che
persino i falchi come Goebbels ammisero che l’invasione non poteva
essere giustificata. A malincuore il Führer rinviò la mobilitazione e
acconsentì al negoziato. Per dirla con Gerhard L. Weinberg, esimio
studioso di quel periodo, «Hitler si ritrovò in trappola, costretto ad
accontentarsi di ciò che aveva rivendicato, invece di ottenere quello
che realmente voleva».
Chamberlain giunse a Monaco il 29 settembre, accolto come un eroe, in piena Oktoberfest.
Davanti
all’hotel del primo ministro britannico si erano radunate decine di
persone, trattenute da un cordone di camicie brune. Una banda di ottoni
bavarese intonava un motivo popolare britannico The Lambeth Walk. Il New
York Times riferì di «vere e proprie ovazioni da stadio ogni qualvolta
Chamberlain, magro e vestito di nero, usciva sorridente dall’albergo a
passi cauti».
Il fatto che Chamberlain ricevesse più applausi di
Hitler – proprio a Monaco – non fece che peggiorare l’umore del Führer. A
testimonianza del suo sdegno Hitler autorizzò una sola foto ufficiale,
in cui appare imbronciato e a disagio.
La mattina successiva,
prima di partire per Londra, Chamberlain si recò, non invitato,
all’appartamento di Hitler e, inaspettatamente, produsse una
dichiarazione congiunta che aveva redatto la mattina stessa.
Non aveva consultato nessuno.
Stando
allo storico Max Domarus, il testo della dichiarazione si basava in
gran parte sul discorso tenuto da Hitler al comizio di Berlino qualche
giorno prima, in cui il Führer aveva esortato «entrambe le nazioni [a]
scambiarsi solenne promessa di non dichiararsi mai più guerra».
Hitler firmò il documento di Chamberlain.
Davvero
Chamberlain si fidava della parola di Hitler? Quella mattina il primo
ministro britannico disse al suo assistente, nonché futuro premier, Alec
Douglas-Home, che la sua prima intenzione era di mettere in trappola
Hitler. «Se firma e rispetta l’impegno andrà tutto bene, ma se lo
infrange gli americani capiranno di che pasta è fatto. Darò la massima
pubblicità alla dichiarazione».
Appena atterrato all’aerodromo di
Heston, Chamberlain avrebbe dato pubblica lettura del documento. E se si
fosse limitato a questo, la sua reputazione in seguito forse avrebbe
sofferto di meno. Invece, rientrato al numero 10, si affacciò da una
finestra del primo piano e ripeté le parole pronunciate da Disraeli dopo
il Congresso di Berlino: «Cari amici, è la seconda volta nella storia
che dalla Germania a Downing Street torna la pace con onore. Sono
convinto che sia pace per il nostro tempo».
Fu un grave errore. Home riferisce che Chamberlain se ne rese conto.
La settimana dopo alla camera dei Comuni si scusò per le parole usate «sull’onda dell’emozione».
Ma era troppo tardi. La frase «pace per il nostro tempo» da allora ha bollato la sua reputazione.
Chamberlain
morì di cancro due anni dopo, prostrato dalle critiche alla sua
integrità, ma fiducioso che la storia lo avrebbe vendicato.
Così
non è stato. Sembra anzi sempre più consolidata, grazie a libri e film,
la narrazione churchilliana della guerra che sarebbe stato possibile
evitare e della nazione salvatasi solo per forza di volontà nell’estate
del ’40.
Ma non è forse l’ora di mostrarsi più solidali con
Chamberlain? A vent’anni dalla Grande Guerra, in cui persero la vita
750.000 britannici, era convinto che «i cittadini del nostro paese
avrebbero perso comunque la loro fede spirituale» se non avessero visto i
loro leader impegnarsi per evitare un nuovo conflitto. Se all’aeroporto
di Heston Chamberlain avesse dichiarato che non si fidava di Hitler e
che l’accordo di Monaco era stato siglato solo per l’incresciosa
necessità di guadagnare tempo, perché la Gran Bretagna non era
adeguatamente equipaggiata per la guerra, avrebbe minato qualunque
speranza di pace.
Ma era la verità. Come ebbe a osservare
Chamberlain, non si può giocare a poker con un criminale senza avere
carte in mano. Per citare l’esempio più eclatante: nel settembre 1938 la
Raf disponeva di 26 squadroni di aerei da combattimento, dei quali solo
6 dotati di moderni monoplani. L’anno successivo all’accordo di Monaco
metà degli introiti del governo vennero destinati agli armamenti e, nel
1940, la Raf disponeva di una flotta di dieci volte superiore. Ma non
basta. Nella cruciale battaglia del maggio 1940 in seno al Gabinetto, in
cui il ministro degli esteri, Lord Halifax, era propenso ad aderire
alle condizioni di pace proposte dai tedeschi, il sostegno di
Chamberlain alla politica di Churchill, favorevole invece alla guerra,
giocò un ruolo decisivo. A Chamberlain va reso merito più di quanto ne
abbia mai ricevuto per aver contribuito alla nostra «ora più bella».
© Robert Harris. Traduzione di Emilia Benghi