sabato 24 marzo 2018

Repubblica 24.317
Dietro le quinte
Monaco 1938. Salvate il soldato Chamberlain
È venuta l’ora di mostrarsi più solidali con lui, rivedendo la narrazione churchilliana
Lo scrittore ricostruisce le fasi che portarono all’accordo sul destino della Cecoslovacchia. E assolve l’allora premier inglese accusato (ora anche in libri e film) di essersi piegato alle volontà di Hitler
di Robert Harris


All’interno del Führerbau, come veniva chiamato il monumentale edificio in pietra bianca nel centro di Monaco, due scalinate gemelle in marmo rosso salgono alla galleria del primo piano. Un pesante portone conduce allo studio del Führer. In fondo alla stanza, ampia e cupa, con le pareti in boiserie, c’è ancora il camino in mattoni davanti al quale il 29 settembre 1938 Hitler e Mussolini discussero con Neville Chamberlain e il primo ministro francese Edouard Daladier, del destino della Cecoslovacchia.
A due chilometri di distanza l’appartamento di Hitler, al secondo piano di un palazzo elegante, mantiene i pavimenti in parquet, le porte, gli infissi e le scaffalature originali del 1930. Il Führerbau oggi è una scuola di musica. Di rado in un luogo ho avvertito la presenza di tanti fantasmi, era come se i protagonisti della drammatica conferenza di Monaco fossero appena usciti dalle stanze.
Lo storico John Lukacs ha intitolato Il Duello il suo eccellente saggio su Churchill e Hitler nell’estate del 1940, ma i due in realtà non si incontrarono mai. Il vero duello fu tra Hitler e Chamberlain, che si incontrarono in tre occasioni e che si detestavano cordialmente. Lo storico Joachim Fest osservava nel suo diario: «Albert Speer ci raccontò che, dopo la conferenza di Monaco del 1938, Hitler fu di cattivo umore per parecchi giorni e, contro ogni sua abitudine, dava sfogo gratuito alla rabbia.
Ovviamente nessuno osava chiedergliene il motivo e lui da parte sua taceva… Pian piano emerse che Hitler aveva l’impressione che l’atteggiamento conciliante delle altre potenze lo avesse depredato di una reale vittoria. Quindici giorni dopo, in un consesso ristretto, disse che era stato ingannato e non solo dalla codardia dei britannici e dei francesi. I tedeschi tergiversando si erano fatti infinocchiare. “I nostri cari tedeschi!” aggiunse amareggiato. “E proprio da quel Chamberlain!”».
È difficile ancora oggi negare il mito consolidato e convincere il pubblico che Hitler considerava l’accordo di Monaco un raggiro, addirittura uno smacco. Ma la realtà è evidente. Sorprende che tuttora non venga riconosciuta a Chamberlain la parte avuta nella vittoria britannica. Lungi dal corrispondere alla caricatura popolare che lo voleva debole, l’uomo con l’ombrello, il primo ministro britannico era a suo modo presuntuoso, cocciuto, dispotico, misterioso e messianico quanto Hitler.
Avvertito nel 1938 dai vertici dei servizi segreti che una seconda guerra mondiale avrebbe segnato la fine dell’Impero Britannico, e consapevole che, se la Germania avesse invaso la Cecoslovacchia, le opportunità di evitare il conflitto si sarebbero ridotte in modo drastico, scelse la strategia del faccia a faccia con Hitler.
Chamberlain si recò in volo a incontrare Hitler per la prima volta il 15 settembre. A Hitler chiese di esporgli le sue rivendicazioni nei confronti dei cechi e il Führer ne diede approfondita notifica, ricevendo da Chamberlain la promessa di tenerne conto e di fare il possibile. Nelle successive due settimane, Hitler – che puntava alla guerra, non al negoziato – cercò di liberarsi dall’amo cui aveva abboccato. Alzò la posta imponendo una scadenza irrealistica. Di fronte a un’assemblea di 15.000 fedelissimi, il 26 settembre a Berlino si scagliò farneticando contro il perfido governo di Praga. Ma il divario tra le rivendicazioni avanzate da Hitler nei confronti dei cechi e le concessioni che questi si dichiararono disposti a fare su pressione di Chamberlain era minimo, al punto che persino i falchi come Goebbels ammisero che l’invasione non poteva essere giustificata. A malincuore il Führer rinviò la mobilitazione e acconsentì al negoziato. Per dirla con Gerhard L. Weinberg, esimio studioso di quel periodo, «Hitler si ritrovò in trappola, costretto ad accontentarsi di ciò che aveva rivendicato, invece di ottenere quello che realmente voleva».
Chamberlain giunse a Monaco il 29 settembre, accolto come un eroe, in piena Oktoberfest.
Davanti all’hotel del primo ministro britannico si erano radunate decine di persone, trattenute da un cordone di camicie brune. Una banda di ottoni bavarese intonava un motivo popolare britannico The Lambeth Walk. Il New York Times riferì di «vere e proprie ovazioni da stadio ogni qualvolta Chamberlain, magro e vestito di nero, usciva sorridente dall’albergo a passi cauti».
Il fatto che Chamberlain ricevesse più applausi di Hitler – proprio a Monaco – non fece che peggiorare l’umore del Führer. A testimonianza del suo sdegno Hitler autorizzò una sola foto ufficiale, in cui appare imbronciato e a disagio.
La mattina successiva, prima di partire per Londra, Chamberlain si recò, non invitato, all’appartamento di Hitler e, inaspettatamente, produsse una dichiarazione congiunta che aveva redatto la mattina stessa.
Non aveva consultato nessuno.
Stando allo storico Max Domarus, il testo della dichiarazione si basava in gran parte sul discorso tenuto da Hitler al comizio di Berlino qualche giorno prima, in cui il Führer aveva esortato «entrambe le nazioni [a] scambiarsi solenne promessa di non dichiararsi mai più guerra».
Hitler firmò il documento di Chamberlain.
Davvero Chamberlain si fidava della parola di Hitler? Quella mattina il primo ministro britannico disse al suo assistente, nonché futuro premier, Alec Douglas-Home, che la sua prima intenzione era di mettere in trappola Hitler. «Se firma e rispetta l’impegno andrà tutto bene, ma se lo infrange gli americani capiranno di che pasta è fatto. Darò la massima pubblicità alla dichiarazione».
Appena atterrato all’aerodromo di Heston, Chamberlain avrebbe dato pubblica lettura del documento. E se si fosse limitato a questo, la sua reputazione in seguito forse avrebbe sofferto di meno. Invece, rientrato al numero 10, si affacciò da una finestra del primo piano e ripeté le parole pronunciate da Disraeli dopo il Congresso di Berlino: «Cari amici, è la seconda volta nella storia che dalla Germania a Downing Street torna la pace con onore. Sono convinto che sia pace per il nostro tempo».
Fu un grave errore. Home riferisce che Chamberlain se ne rese conto.
La settimana dopo alla camera dei Comuni si scusò per le parole usate «sull’onda dell’emozione».
Ma era troppo tardi. La frase «pace per il nostro tempo» da allora ha bollato la sua reputazione.
Chamberlain morì di cancro due anni dopo, prostrato dalle critiche alla sua integrità, ma fiducioso che la storia lo avrebbe vendicato.
Così non è stato. Sembra anzi sempre più consolidata, grazie a libri e film, la narrazione churchilliana della guerra che sarebbe stato possibile evitare e della nazione salvatasi solo per forza di volontà nell’estate del ’40.
Ma non è forse l’ora di mostrarsi più solidali con Chamberlain? A vent’anni dalla Grande Guerra, in cui persero la vita 750.000 britannici, era convinto che «i cittadini del nostro paese avrebbero perso comunque la loro fede spirituale» se non avessero visto i loro leader impegnarsi per evitare un nuovo conflitto. Se all’aeroporto di Heston Chamberlain avesse dichiarato che non si fidava di Hitler e che l’accordo di Monaco era stato siglato solo per l’incresciosa necessità di guadagnare tempo, perché la Gran Bretagna non era adeguatamente equipaggiata per la guerra, avrebbe minato qualunque speranza di pace.
Ma era la verità. Come ebbe a osservare Chamberlain, non si può giocare a poker con un criminale senza avere carte in mano. Per citare l’esempio più eclatante: nel settembre 1938 la Raf disponeva di 26 squadroni di aerei da combattimento, dei quali solo 6 dotati di moderni monoplani. L’anno successivo all’accordo di Monaco metà degli introiti del governo vennero destinati agli armamenti e, nel 1940, la Raf disponeva di una flotta di dieci volte superiore. Ma non basta. Nella cruciale battaglia del maggio 1940 in seno al Gabinetto, in cui il ministro degli esteri, Lord Halifax, era propenso ad aderire alle condizioni di pace proposte dai tedeschi, il sostegno di Chamberlain alla politica di Churchill, favorevole invece alla guerra, giocò un ruolo decisivo. A Chamberlain va reso merito più di quanto ne abbia mai ricevuto per aver contribuito alla nostra «ora più bella».
 © Robert Harris. Traduzione di Emilia Benghi