venerdì 23 marzo 2018

Repubblica 23.3.18
Aldo Moro. Cronache di un sequestro / 3
Attacco al cuore dello stato
“Sì, ho capito chi siete”, dice il presidente della Dc alle Brigate Rosse. Si trova ormai in via Montalcini, al buio, nel covo mascherato da appartamento borghese dei suoi rapitori, che lo fotografano vestito da prigioniero Anche il Paese inizia a capire. A Montecitorio, si decide di accelerare il voto di fiducia al nuovo governo Andreotti
di Ezio Mauro


«Presidente, ha capito chi siamo?». Aldo Moro è in piedi, bendato, nello studio del “covo” di via Montalcini, mascherato da appartamento borghese di una giovane coppia senza figli. Anna Laura Braghetti, la padrona di casa, dopo aver visto in televisione la scena insanguinata di via Fani era scesa in strada quando vide arrivare la sua automobile – un’“Audi Citroën” familiare – guidata da Mario Moretti e le aprì la porta del garage. Poi salì di corsa le due rampe, vide che erano sgombre, controllò che l’ascensore fosse fermo e diede il via libera. Germano Maccari e Prospero Gallinari afferrarono le due maniglie della cassa di legno che nascondeva Moro e in meno di un minuto la portarono dall’auto nello studio, appoggiandola a terra. Chiusa la porta infilarono i cappucci, aprirono la serratura, scoperchiarono la cassa, quindi aiutarono il prigioniero a sollevarsi, uscire e mettersi in piedi. Sentì nel buio la voce di fronte a sé che gli faceva quella domanda, una voce a cui si sarebbe abituato nei 55 giorni del sequestro: era l’uomo che l’avrebbe interrogato in cella, il capo delle Brigate Rosse, Mario Moretti. «Sì – rispose senza sapere quanti erano gli uomini intorno, dove lui fosse in quel momento, cosa sarebbe successo dopo il rapimento –. Ho capito chi siete».
Poco per volta anche lo Stato capisce. La notizia arriva al Capo del governo, Giulio Andreotti, con una telefonata del ministro degli Interni, Francesco Cossiga, proprio mentre stanno giurando i 47 sottosegretari, guidati da Franco Evangelisti. Nello studio di Andreotti, dove c’è il ministro del Tesoro Pandolfi e il capogruppo Dc alla Camera, Piccoli, entra il segretario del Pci Berlinguer, accompagnato da Natta e Pajetta. Poco dopo arrivano il segretario socialista Craxi, quello della Dc, Zaccagnini, il ministro De Mita.
Ma bisogna scendere nel Transatlantico di Montecitorio, affacciarsi al corridoio dei passi perduti per misurare la febbre politica di un Paese devastato. «Ci vuole la pena di morte», continua a ripetere il leader del Pri Ugo La Malfa, impietrito. «È una dichiarazione di guerra – aggiunge il ministro Tina Anselmi –, e bisogna rispondere con leggi di guerra, eccezionali». Si decide di accelerare al massimo il voto di fiducia al governo, per avere subito un esecutivo nella pienezza dei poteri. Lama, Macario e Benvenuto, segretari di Cgil, Cisl e Uil convocano una manifestazione in piazza San Giovanni “per difendere la democrazia” e proclamano lo sciopero generale in tutt’Italia.
Il Palazzo guarda al Paese, per capire la reazione, misurare il consenso: fin dove arriva la “zona grigia” di silenzioso sostegno all’eversione? Gli operai stanno uscendo dalle fabbriche, si fermano davanti ai cancelli, discutono. A Torino i magistrati hanno appena deciso che il processo a Curcio e al nucleo storico brigatista non verrà rinviato, l’udienza di lunedì è confermata. Ma nel cortile della questura torinese, in via Grattoni, appena hanno saputo del massacro di via Fani e del rapimento, cinquanta agenti si sono rifiutati di uscire per il servizio di scorta: «Basta, siamo troppo esposti, male armati, mandati allo sbaraglio ». Arriva la prima telefonata di rivendicazione. Alle 10.10 una voce d’uomo chiama il centralino dell’Ansa, in via della Dataria, sotto il Quirinale: «questa mattina abbiamo sequestrato il presidente della Dc Moro ed eliminato la sua guardia del corpo, teste di cuoio di Cossiga. Brigate Rosse». Un’altra telefonata a Torino, che annuncia un comunicato e definisce Moro “servo dello Stato”. Una terza a Milano, con una frase che diventerà la cifra dell’intera vicenda: «Abbiamo portato l’attacco al cuore dello Stato».
La sfida è fissata. Berlinguer è appena uscito da Palazzo Chigi, l’autista gli apre la porta della macchina ma lui scuote la testa: «A piedi». Si è radunata una folla davanti a tutti i palazzi del potere, la gente cerca segnali di governo e di sicurezza nell’emergenza. Si dice che i terroristi abbiano usato una pistola sovietica, si aggiunge che forse uno di loro è ferito. Scattano cinquecento perquisizioni, trentamila uomini delle polizie sono in allarme. Ma sono le istituzioni al centro del mirino, la politica deve difenderle. A Montecitorio si accendono e si spengono le luci che annunciano la seduta, gracchia la “chiama”, tutti si affrettano ad entrare. Quando il Transatlantico è già deserto arriva per ultimo l’ex leader del Pci Luigi Longo, anziano e malato, sorretto da due commessi che lo portano dentro l’aula, in una giornata che entrerà nella storia. Un altro grande vecchio, il socialista Pietro Nenni, ha voluto andare in visita di solidarietà a piazza del Gesù, ha parlato brevemente col segretario di Zaccagnini, Cavina, poi è impallidito, si è fatto accompagnare al Senato, dove ha avuto un collasso. Giornali radio e telegiornali rilanciano queste immagini e le domande di tutti, in una gigantesca edizione straordinaria che arriva in tutte le case italiane.
Anche nella casa di via Montalcini la televisione è accesa a basso volume, dietro le tende chiuse, le inferriate alle finestre, la porta sbarrata, il falso giardino che deve trasmettere un’idea di normalità, e dove a Natale erano stati accesi gli addobbi luminosi. Ma dentro, tre uomini hanno appena indossato un cappuccio nero cucito a mano per coprirsi il volto, con due buchi rotondi per gli occhi e uno più lungo e sottile per la bocca. Sono Germano Maccari, un “irregolare” delle Br che è stato scelto dall’organizzazione come “marito” della padrona di casa, Anna Laura Braghetti, sotto il nome di “ingegner Altobelli”, Prospero Gallinari, che non dovrà essere visto da nessuno perché è evaso, ricercato e latitante, e Mario Moretti, il capo, che vive nel covo di via Gradoli con Barbara Balzerani, va e viene in via Montalcini, qualche volta si ferma a dormire, ma è sempre presente – lui solo – quando si deve interrogare il prigioniero.
Prima di varcare la soglia della cella da cui uscirà solo per essere ucciso,  Moro viene liberato dalla benda. Vede subito davanti a sé, sul muro dietro il letto, lo stendardo di cotone rosso scuro con due parole in giallo, “Brigate Rosse”, e in mezzo la stella a cinque punte che lo sovrasterà per 55 giorni, spogliandolo della sua identità politica per ridurlo a prigioniero. Per prima cosa deve togliersi i suoi vestiti, l’ordine gli fa subito capire che i tempi saranno lunghi. Gli indicano con la mano il water chimico da campeggio, contro il muro, un comodino piccolissimo, il microfono in alto, il buco per la presa d’aria, la brandina con lenzuola e coperte. Sopra c’è una camicia chiara da lavoro, un paio di pantaloni da tuta con l’elastico in vita (lui portava cintura e bretelle insieme) un pigiama, due pantofole: la sua divisa da carcerato. La prigione sembra un corridoio cieco, molto alto, lungo due metri ma largo 90 centimetri. Appena 10 in più della cassa con cui l’ostaggio è stato trasportato in auto.
È una stanza fantasma, la porta in legno con spioncino nascosta dietro una falsa parete, e uno specchio davanti per restituire ampiezza all’ambiente. L’avevano costruita, rimpicciolendo lo studio, Gallinari e Moretti in vista del sequestro, incollando pannelli di gesso a incastro, insonorizzandoli con la lana di vetro preparata da Maccari, ritappezzando l’esterno, montando i faretti con la luce regolabile e celando il tutto dietro una libreria alta al soffitto, che girava su un cardine per consentire l’apertura della porta. Tutto l’appartamento era stato scelto con cura, già sapendo che dietro le apparenze normali avrebbe dovuto nascondere una prigione. La Braghetti l’aveva comprato un anno prima del sequestro, dopo aver ricevuto da Moretti i contanti provenienti dal sequestro dell’armatore Costa, insieme con istruzioni ben precise: primo piano senza portiere, niente panchine, vetrine, scuole o fermate di autobus di fronte (adesso c’è addirittura un capolinea), due stanze da letto, salone, due ingressi e soprattutto garage chiuso.
Braghetti saprà soltanto dieci giorni prima dell’agguato che il suo ospite prigioniero sarà Aldo Moro, e il 16 marzo, rinchiuso in cella il prigioniero, si farà raccontare tutto da Moretti e da Gallinari, mentre fumano seduti intorno al tavolo della cucina: dall’agguato alla sparatoria, ai mitra inceppati, alla fuga. Ascolta i particolari militari dell’operazione, sente valutare la velocità, soppesare i rischi, criticare le vecchie armi, capisce che c’era una “prigione B” per qualche emergenza improvvisa, uno scarto del piano, una variante. Ma non chiede di più.
Lei è “irregolare”, dunque non clandestina, quindi più esposta perché vive una doppia vita, va in ufficio ogni mattina all’Eur chiudendosi alle spalle la porta che tiene imprigionato l’uomo che tutta l’Italia cerca, rientra la sera in tempo per cucinare la cena all’ostaggio, e anche il pranzo del giorno dopo, quando lei è fuori. Come una coppia qualsiasi lei e Moretti hanno comprato due divani a fiori nei mobilifici sparsi sul raccordo anulare, hanno scelto i lampadari, i pensili, le tende bianche e i piatti, i letti, due poltrone di vimini per il terrazzo. Poi hanno aggiunto una boccia con due pesci rossi, una gabbia con i canarini: casomai bussassero i vicini, la prima occhiata all’interno catturerebbe l’immagine convenzionale e tranquilla di un salotto italiano, mentre dietro l’intercapedine, in un piccolo vano-armadio dove sono appesi i vestiti di Moro accanto alla cella, l’inquilino invisibile, Gallinari, vigilerebbe con la pistola in pugno.
Il dentro-fuori della Braghetti è scientifico, schizofrenico, minuzioso, guardingo. Per poter essere presente il 16 marzo all’arrivo di Moro, chiede per tempo quattro giorni di ferie alla sua azienda di import- export, con la scusa di andare a sciare in Abruzzo. E per fingere di essere stata a 1200 metri, in montagna, si compra una lampada Uva che garantisca un velo di abbronzatura, fabbricata nella casa delle Brigate Rosse, nei primi giorni del sequestro, mentre preparava pasta e ceci, verdure cotte, e la pasta e lenticchie preferita dal prigioniero.
Lui ha risposto a una domanda sul cibo appena entrato nella cella, dicendo che può mangiare di tutto, poca carne e poco pane, niente fritti (ha da tempo rinunciato anche alle frittelle della moglie), minestre volentieri, come le verdure, un po’ di formaggio, un bicchiere di vino. Fuma? Tre sigarette al giorno, quelle piatte, senza filtro. Si è appena cambiato quando entra Moretti, gli dà del “tu” e per prima cosa gli chiede come sta di salute: bene, risponde Moro, ma subito chiede le sue medicine che sono nelle borse, e in particolare un tranquillante. La prima preoccupazione dell’ostaggio è per le sue borse. Continua a ripetere che sono cinque. Morucci ne ha prelevate dalla “130” solo due, le altre tre sono sparite ( una verrà incredibilmente “ ritrovata” cinque giorni dopo il rapimento nel bagagliaio dell’auto), faranno parte per sempre dei misteri di via Fani. Adesso quelle due borse nelle mani dei brigatisti vengono posate sul tavolo, per controllare prima di tutto che non abbiano rilevatori di posizione, microspie, poi vengono aperte e ispezionate all’interno.
Per i rapitori è la prima delusione: cercavano misteri, trovano i segni della banalità quotidiana della vita parlamentare.
Nella prima borsa, dove Eleonora Moro dirà che c’erano sicura mente documenti politici riservati, che il marito voleva sempre con sé, secondo i brigatisti sono custodite soltanto lettere di raccomandazione, pratiche del collegio elettorale, il testo di un disegno di legge sulla riforma della polizia, la sceneggiatura di un film. Nella seconda, ecco le medicine, francobolli, penne, tesi di laurea, gli occhiali di ricambio. Nella tasca del cappotto c’è una fiaschetta di whisky, per contrastare gli abbassamenti di pressione, ma non c’è da nessuna parte il tranquillante che Moro chiedeva. Anna Laura Braghetti esce per comprarlo. Teme che il nome della medicina sia un segnale di riconoscimento del rapito, forse un codice prestabilito con la famiglia per le situazioni estreme d’emergenza, magari le farmacie sono allertate: per prudenza fa cinque fermate in autobus per proteggere il covo allontanandosi, scende alla sesta, trova quel che cercava. Tornando, vede gli strilloni che vendono le edizioni straordinarie dei giornali, tutti per strada e nei negozi parlano di Moro, lei è come invisibile mentre sta rientrando a casa per preparargli la prima cena.
Quelle borse verranno tagliate a liste sottili con un tronchesino, e la Braghetti le brucerà a più riprese come rametti in giardino con foglie, erbacce e sterpaglie, mentre le carte di Moro saranno incendiate nella tazza del water, dopo essere state strappate, sminuzzate e imbevute d’alcool. Spaccati e pestati fino a frantumarli, come in un mortaio, anche gli occhiali, con la plastica che puzza mentre viene bruciata in salotto. Gallinari subito dopo il rientro a casa sventra la cassa di legno usata per il trasporto dell’ostaggio, la fa a pezzi, e poco per volta il tutto finisce nei cassonetti dell’immondizia. Come se i brigatisti sapessero fin dal primo giorno che non servirà più, perché il prigioniero non farà il viaggio di ritorno.
Ma adesso la partita mortale è appena incominciata. Moretti si infila il passamontagna, torna davanti a Moro. Il prigioniero è seduto sul letto, si sta guardando intorno. Ha mille domande, ma non è ancora il momento. Deve capire: cerca indizi, ascolta, tenta di cogliere i particolari. Gli hanno detto che gli porteranno acqua calda, una bacinella, sapone per lavarsi, con gli asciugamani. Gli cambieranno gli abiti e la biancheria ogni volta che è necessario. Lo informano che registreranno ogni cosa che dice, che lo controlleranno giorno e notte attraverso lo spioncino della porta. Se gli serve qualcosa, può chiamare i suoi carcerieri, da fuori si sente tutto. Se vuole cambiare l’aria, lasceranno la porta socchiusa per qualche momento, come devono fare subito, nelle prime ore, quando Gallinari che lo segue con attenzione dallo studio si accorge che comincia a respirare a fatica.
Moretti ha in mano una macchina fotografica Polaroid, con cui dopo la fase militare dell’operazione Fritz sta per aprire la fase due, politica. Prima lo Stato era il bersaglio, attraverso uno dei suoi uomini di spicco, adesso diventa controparte, interlocutore. Per questo il capo dei brigatisti deve racchiudere tre elementi nello spazio quadrato di un’istantanea: la prova che Moro è vivo, la dimostrazione che è soggiogato, la conferma che la sua sorte dipende dalle Br.
Chiede all’ostaggio di sedersi nel centro del letto, davanti allo stendardo, proprio sotto il cerchio con la stella e la scritta. Per la seconda volta, dopo via Fani, lo ha nel mirino. Lo inquadra dal petto in su, probabilmente lui ha le mani giunte sulle ginocchia, ma non si vedono. Il carceriere verifica che lo striscione brigatista giganteggi, dominando la scena e il prigioniero. Scatta. Estrae. Scuote. Controlla: ora ha in mano la fotografia che mostrerà domani a tutto il Paese sgomento Moro vivo, ma in un’immagine mai vista prima. L’uomo più importante d’Italia, come lo definisce quel giorno l’avvocato Agnelli, appare indifeso e impotente, con la camicia slacciata e la canottiera in mostra, il capo leggermente inclinato alla sua destra, una smorfia di dignità prigioniera sul volto, nell’umiliazione dell’intimità violata. Il doppiopetto scuro democristiano si è denudato, l’abito di Stato si è rovesciato violentemente nel suo contrario, in quei pochi centimetri di carta lucida: l’immagine crudele di un uomo inerme, nella potestà altrui, nemica.