Il Fatto 16 marzo 2018
“Il Presidente deve morire”. La profezia su Moro e le Br
Il
“piano b” - Nel ’69 l’articolo del “Bagaglino”: “Dio lo salvi”. Il
leader Dc isolato anche per i dubbi di Berlinguer. Il 16 marzo in via
Fani era tutto pronto
di Miguel Gotor
Il 16
marzo di quarant’anni fa, le Brigate rosse rapirono in via Fani Aldo
Moro e sterminarono la scorta composta da Raffaele Iozzino, Oreste
Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi.
Quella
mattina passarono a prenderlo e se lo portarono via come se si fossero
dati un appuntamento. Nelle ultime due settimane Moro si era esposto
troppo, fino a rimanere isolato. Nel corso del discorso ai gruppi Dc del
28 febbraio 1978 aveva forzato il passo per raggiungere l’obiettivo di
includere i comunisti nella maggioranza di governo, per la prima volta
dal 1947. Un coraggioso atto di imprudenza, forse l’unico e l’ultimo
della sua vita politica, in ragione dell’addensamento, in quegli ultimi
mesi, delle resistenze del contesto internazionale della Guerra fredda e
della vischiosità del fronte interno e degli apparati. Uno strappo che
aveva fatto sì che Moro diventasse l’unico personale garante di
quell’accordo, mentre nelle stesse ore Enrico Berlinguer diventava
sempre più dubbioso e recalcitrante.
Il colpo, secco e feroce,
venne da sinistra, dagli esponenti del “partito armato”, ma avrebbe
potuto arrivare da destra, dai cosiddetti “strateghi della strategia
della tensione” e il risultato non sarebbe cambiato. Per persuadersi di
questo meccanismo basterebbe prendere sul serio un articolo premonitore
di Pier Francesco Pingitore che uscì nel 1969 sul Bagaglino intitolato
“Dio salvi il presidente” in cui venivano descritti, con satirico e
informatissimo puntiglio, il percorso che Moro faceva ogni mattina, le
sue abitudini, il numero dei poliziotti di scorta, le qualità delle armi
da usare per colpirlo, il punto esatto dove sarebbe stato agevole
ucciderlo (presso la Chiesa di Santa Chiara secondo il “piano a” e
proprio in via Fani secondo il “piano b”). Un articolo minacciosamente
premuroso (talora la satira serve a veicolare le veline dei servizi e
avvertimenti serissimi) che iniziava ponendosi questa domanda: “Quindici
uomini vegliano sulla vita dell’onorevole Moro. Ma sarebbero
sufficienti a difenderlo contro un Oswald italiano?”, oppure dal pugnale
del fanatico cattolico che uccise nel 1589 il re di Francia Enrico III,
il cui omicidio era ricordato in posizione enfatica alla fine
dell’articolo, sottolineando come fosse protetto da ben 45 uomini di
scorta e non solo 15 come Moro.
In realtà l’operazione ordita
dalle Brigate rosse nove anni dopo l’uscita di questo scritto si sarebbe
rivelata più raffinata: non un semplice regicidio, come quelli avvenuti
più volte nella storia, a partire da Giulio Cesare, ma il suo sequestro
e, poi, l’uccisione. L’eccezionalità della vicenda Moro è tutta qui: è
il rapimento di un sovrano che si conclude con la sua morte, non un
assassinio e basta. Un sequestro di persona che sarebbe equivalso al
sequestro di uno Stato a partire dal suo capo (e capo dello Stato in
senso proprio Moro lo sarebbe diventato se avesse vissuto ancora qualche
mese) dei suoi segreti, delle sue informazioni sulla sicurezza
nazionale ed estera. Un rapimento funzionale a distruggerne l’integrità
morale, civile e politica, a massacrarne l’immagine in modo che quel
disegno di tessitura e di conciliazione non potesse avere continuatori.
In tanti avevano l’interesse, sia tra le eterne fazioni delle contrade
nostrane sia tra le nazioni amiche, che l’Italia rimanesse lacerata e in
balia degli eventi perché negli ultimi trent’anni quel Paese si era
eccessivamente allargato, perdendo la guerra ma vincendo la pace, e
perciò facendosi troppi nemici.
Soltanto nel marzo 1990 si
conobbero i nomi di nove partecipanti all’agguato, canonizzati nel
memoriale del brigatista dissociato Valerio Morucci, redatto nel 1986 e
inviato riservatamente all’allora presidente della Repubblica, Francesco
Cossiga.
In base a questo documento, su cui ancora oggi si fonda
la verità giudiziaria sull’agguato di via Fani, quel giorno entrarono in
azione Franco Bonisoli, arrestato nell’ottobre 1978, Prospero
Gallinari, Raffaele Fiore e Valerio Morucci, catturati nel 1979, Bruno
Seghetti, imprigionato nel 1980, Mario Moretti, carcerato nel 1981,
Barbara Balzerani, arrestata nel 1985, Alvaro Lojacono, catturato nel
1988, ma poi espatriato in Svizzera, e Alessio Casimirri, tuttora
latitante in Nicaragua. In un’intervista dell’ottobre 1993, Morucci si
ricordò anche di Rita Algranati, moglie di Casimirri, arrestata nel
2004.
I brigatisti portarono via due delle cinque borse di Moro e,
nella concitazione dell’azione, bisogna riconoscere che seppero
scegliere con chirurgica precisione: presero infatti la borsa con le
medicine e quella, secondo la testimonianza della moglie, con i
“documenti riservatissimi”.
L’agguato di via Fani accelerò la
formazione del nuovo governo Andreotti e lo stesso giorno i sindacati
proclamarono lo sciopero generale. Nelle principali città si tennero
manifestazioni in cui le bandiere rosse del Pci e quelle bianche della
Dc si confusero con i vessilli dei sindacati. Nella tarda mattinata gli
esponenti di Autonomia operaia e del movimento studentesco tennero
un’assemblea presso l’Università di Roma: esaltazione, euforia,
eccitazione, ammirazione, smarrimento, paura, dubbio e attesa composero
l’ampia e contraddittoria gamma sentimentale di questo vasto
schieramento giovanile. Un’atmosfera tesa e sfuggente che il trascorrere
degli anni e i balsami della memoria e del reducismo avrebbero
contribuito a offuscare, fra una serie di inevitabili rimozioni,
ambiguità e reticenze generazionali: chi aveva sparato a via Fani non
era un marziano, ma un compagno di banco o magari il ricordo del primo
bacio. Il giornale Lotta Continua l’indomani intitolò: “Respingiamo il
ricatto: né con lo Stato, né con le Br”, facendo riferimento al clima di
quest’assemblea. Uno slogan che, se vogliamo dirla tutta, coglieva lo
spirito del tempo non soltanto fra quelle fasce studentesche, ma fra
ampi strati del mondo operaio e della piccola e media borghesia italiana
in cui diffusi umori giustizialisti e antiparlamentari lasciavano
mormorare: poveri uomini della scorta, certo, ma Moro era un politico di
“Palazzo” e dunque…
A quarant’anni dalla strage di via Fani, il
numero di quanti vi parteciparono è incompleto, ma viene da chiedersi se
questo oggi sia un dato storico rilevante e non l’ovvietà che
caratterizza ogni omicidio politico. Da alcune testimonianze oculari è
possibile dedurre che furono presenti all’agguato perlomeno altri due
individui, i quali agirono a bordo di una moto Honda, anche se i
brigatisti hanno sempre smentito questa presenza, che li costringerebbe
ad ammettere le relazioni intercorrenti tra le Br e le altre componenti
del cosiddetto “partito armato”. Vale a dire la miriade di sigle, che
spuntavano come funghi, composte in buona parte da una minoranza di ex
militanti di Potere Operaio e di Lotta continua, i quali, dopo lo
scioglimento delle due organizzazioni, invece di ritornare a casa o alle
libere professioni dei padri, avevano preferito, sull’onda di ritorno
del movimento del 1977, impugnare le pistole e imboccare la strada della
lotta armata. E che dire poi di un confronto con il sequestro del
magistrato Mario Sossi, realizzato dalle Brigate rosse nel 1974: allora
non fu necessario eliminare la scorta, e sappiamo che vennero impiegati
almeno 18 uomini, contro i dieci di via Fani. Un altro dato di fatto
induce a ritenere che i numeri non tornano: nelle ore successive al
sequestro le Brigate rosse fecero beffardamente ritrovare ben tre
macchine utilizzate nell’agguato tutte in una stesso posto, la piccola
via Licinio Calvo, un’operazione logistica che, oltre a una spiegazione
ragionevole ancora mancante, deve avere richiesto la collaborazione di
una manovalanza più numerosa.
Anche la dinamica dell’agguato,
quella restituita dalle testimonianze dei protagonisti e dalle non meno
scivolose perizie balistiche, suggerisce la presenza di altre persone
ancora non identificate. Un’azione non semplice perché si trattò di
colpire i bersagli in modo selettivo, ossia uccidendo i due occupanti
della vettura di Moro, ma lasciando incolume l’ostaggio da prelevare,
colui che, secondo un testimone oculare, avrebbe urlato (e si fa fatica a
immaginare Moro urlare) “mi lascino andare, cosa vogliono da me”.
Sull’agguato
di via Fani si stese prontamente la coltre ideologica della “geometrica
potenza di fuoco” di un osservatore interessato come Franco Piperno, ma
in realtà le perizie e le stesse testimonianze dei brigatisti dicono
altro. In effetti, l’aspetto più paradossale di tutta la storia è
proprio questo: tutti, nessuno escluso, hanno raccontato che le loro
armi si incepparono nel corso dell’azione. Del resto, la seconda perizia
ha stabilito come l’armamento utilizzato dai brigatisti fosse per oltre
un terzo composto da veri e propri “residuati bellici” come ammesso
dallo stesso Moretti.
L’intervento di un tiratore scelto – per gli
esegeti della Commissione Moro, un quinto sparatore da destra non
ancora identificato che avrebbe giustiziato con un colpo di grazia il
maresciallo Leonardi – potrebbe spiegare perché i brigatisti del gruppo
di fuoco scelsero di indossare delle divise di aviere, rendendosi in
questo modo più facilmente individuabili così da evitare di essere
colpiti dal fuoco amico di un possibile tiro incrociato.
L’ultima
commissione Moro ha accertato la presenza di due macchine dalla
posizione sospetta: un’Austin così malamente collocata da impedire alla
vettura della scorta di Moro di svincolarsi (un particolare notato dallo
stesso Morucci nel suo memoriale) e una Mini Cooper parcheggiata
davanti alle fioriere dove si nascose il gruppo di fuoco. Le tardive
ricerche sui loro proprietari hanno rivelato in entrambi casi dei
profili biografici gravitanti nell’area dei servizi segreti nazionali.
Un dato di fatto, ma anche le coincidenze possono esserlo.
Le
ultime testimonianze avvistarono Moro e i suoi rapitori in piazza
Madonna del Cenacolo. Secondo la versione diffusa a rate dai brigatisti
(peraltro gravida di evidenti contraddizioni logiche e pratiche) sarebbe
stato portato in via Montalcini, nel quartiere della Magliana, da dove
non si sarebbe mai mosso nel corso dei 55 giorni più bui della storia
della Repubblica. Grazie all’attività della Commissione Moro oggi
sappiamo che Gallinari, nell’autunno 1978, trovò rifugio in via Massimi,
a poche centinaia di metri da via Fani e da via Licinio Calvo, dove
vennero rilasciate le macchine del sequestro. Evidentemente in quello
stabile di proprietà dello Ior, abitato da alti prelati, diplomatici,
giornalisti, agenti e società di copertura di servizi segreti
mediorientali e statunitensi, Gallinari dovette sentirsi
sufficientemente al sicuro. Oppure, più banalmente (perché questa al
fondo, fatta salva l’eccezionalità della vittima, è una storia banale se
si pensa che la maggioranza dei sequestri termina con la morte
dell’ostaggio), gli assassini ritornano sempre sul luogo del delitto.
(1/continua)