Il Fatto 23.3.18
Moro, il vecchio “album di famiglia” ha le foto sbiadite
di Miguel Gotor
Il
28 marzo 1978 Rossana Rossanda pubblicò su il manifesto un articolo in
cui analizzava il linguaggio usato dai brigatisti nei loro due
precedenti comunicati e affermava che le sembrava “di sfogliare l’album
di famiglia”: “Chiunque sia stato comunista negli anni 50 riconosce di
colpo il nuovo linguaggio delle Brigate rosse. Ci sono tutti gli
ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice
memoria”.
In un secondo articolo sullo stesso giornale, che sin
dal titolo riproponeva l’immagine dell’album di famiglia, sempre la
Rossanda si chiedeva con malizioso stupore: “Il Pci si è sentito offeso,
chissà perché. I suoi nemici sono stati felici, chissà perché”. La
fondatrice de il manifesto si riferiva a un intervento del dirigente del
Pci Emanuele Macaluso, il quale si era chiesto quale mai fosse
“l’album” conservato dalla Rossanda, certamente, a suo dire, privo della
foto di Palmiro Togliatti. Inoltre, Macaluso aveva fatto notare che
della stessa opinione della Rossanda erano “quei fogli conservatori come
il Giornale di Montanelli che si è affrettato a pubblicare questa sua
‘testimonianza’, ma anche alcuni esponenti della Dc e redattori de il
Popolo”, per non parlare della campagna di stampa sullo “stalinismo” in
cui si distingueva anche Lotta Continua così da realizzare una
convergenza “degli anticomunisti di destra e di sinistra veramente
impressionante”.
In effetti, negli anni successivi, l’espressione
“album di famiglia” sarebbe diventata quasi proverbiale, conseguendo un
vasto, trasversale e duraturo successo presso l’opinione pubblica
italiana che cominciò a utilizzarla per accreditare la tesi di una
filiazione diretta delle Brigate rosse dal Pci. Una “famiglia” da cui la
Rossanda era stata radiata nove anni prima, al termine di una
conflittualità interna che aveva lasciato una reciproca scia di
incomprensioni e di risentimenti.
In realtà, se si eccettua
Prospero Gallinari, da ragazzo militante nei giovani comunisti di Reggio
Emilia e allontanato “da sinistra” dal partito in quanto tardivo
epigone della tradizione “secchiana”, ostile a Togliatti prima e a
Berlinguer poi, la stragrande maggioranza dei componenti brigatisti
protagonisti dell’operazione Moro provenivano da diversi filoni e
percorsi politici. A partire dal loro capo, Mario Moretti, che alla fine
degli anni Sessanta aveva frequentato gli ambienti cattolici di
“Gioventù studentesca” e si era iscritto all’Università del Sacro cuore
di Milano.
La stragrande maggioranza degli altri (Rita Algranati,
Barbara Balzarani, Anna Laura Braghetti, Alessio Casimirri, Adriana
Faranda, Alvaro Lojacono, Germano Maccari, Gabriella Mariani, Antonio
Marini, Valero Morucci, Bruno Seghetti, Teodoro Spadaccini, Enrico
Triaca) aveva militato in Potere operaio e, dopo il suo scioglimento,
aveva intrapreso la strada della lotta armata all’interno di una serie
di sigle, comitati e collettivi (Fac, Co.co.ce, Tiburtaros, Viva il
comunismo) poi confluite nella colonna romana delle Br. Come è noto
Potere operaio era sorto sul finire degli anni Sessanta in radicale
conflittualità con il Pci e, sin dalle origini, aveva avversato la
cultura stalinista e il modello sovietico, cui aveva preferito il
marxismo critico dell’autonomia operaia e della “nuova sinistra”
radicale statunitense e suggestioni guerrigliere di derivazione
guevarista e terzomondista.
Di conseguenza, non sorprende affatto
che se entriamo, grazie a un verbale di perquisizione dei carabinieri,
in un covo brigatista nel 1978, ad esempio quello milanese di via Monte
Nevoso, riaffiori dalla polvere una piccola biblioteca che non può
essere ricondotta all’armamentario tipico del lettore iscritto al Pci
negli anni di zdanoviana memoria come la Rossanda riusciva a far credere
tra il compiacimento dei suoi avversari.
Vi troviamo, infatti, La
resistenza eritrea di Piero Gamacchio, Prateria in fiamme, ossia il
programma politico dei “Weather Underground” il movimento di ispirazione
marxista statunitense; la Lotta armata in Iran di Bizhan Jazani,
teorico socialista iraniano morto nel 1975; Tupamors: libertà o morte di
Oscar Josi Dueñas Ruiz e Mirna Rugnon de Dueñas oppure La rivoluzione
in Italia di Carlo Pisacane, eroe risorgimentale riscoperto nel corso
della Resistenza da Giaime Pintor. E ancora: l’edizione einaudiana del
Dialoghi di profughi di Bertolt Brecht a cura di Cesare Cases e il
classico del femminismo Vassilissa della rivoluzionaria Aleksandra
Kollontaj, allontanata dall’Urss da Stalin. In camera, in un comodino di
fianco al letto, La lotta di classe in Urss con annotazioni del
marxista critico Charles Bettelheim, le Opere scelte di Mao Tse-tung e
il feltrinelliano Il sangue dei leoni che pubblicava un lungo discorso
del leader congolese Edouard Marcel Sumbu.
Come si vede si tratta
di un pacchetto di libri che costituiva le letture tipiche della nuova
sinistra extraparlamentare di quel decennio, con influenze
anticapitalistiche, trotskiste, maoiste, guevariste, terzomondiste,
genericamente rivoluzionarie e libertarie, di certa ispirazione
antistalinista e antisovietica.
Ciò nonostante la formula “album
di famiglia” ebbe un duplice successo propagandistico che meriterebbe di
essere approfondito nel suo sviluppo e radicamento nel dibattito
nazionale: alla destra del Pci, perché amplificava una generale
ossessione anticomunista (democratica e anti-democratica) e permetteva
di riattualizzare lo stereotipo della doppiezza togliattiana; alla
sinistra di quel partito, in quanto consentiva di rimuovere, o almeno di
stemperare in una vaga aria di famiglia, il nodo centrale – che in
quelle ore e in quei mesi era anzitutto di carattere giudiziario e
penale – del rapporto di contiguità culturale e generazionale tra il
variegato mondo extra-parlamentare, la lotta armata e la pratica della
violenza politica all’interno della multiforme costellazione del
“Partito armato”.
Un laccio intricato e scivoloso, strettosi
sempre più nel corso degli anni anche grazie a una serie di ambiguità,
reticenze, omissioni e qualche indulgente connivenza di troppo. In
realtà, Zdanov e il Moloch sovietico degli anni Cinquanta c’entravano
assai poco e rischiavano di trasformarsi in un comodo alibi purificatore
per non guardare in faccia la realtà, la metastasi cresciuta dentro il
corpo estremistico e radicale della società italiana.
Anzi, quei
percorsi biografici e quei libri sono lì a ricordare che quel manipolo
di giovani brigatisti non erano dei marziani scesi sul pianeta terra, ma
erano a loro modo, con granitica intransigenza e allucinata coerenza,
dentro la cultura, le letture, le pratiche politiche e valoriali del
movimento studentesco e operaio italiano dal 1968 in poi, come se le
differenti realtà ed esiti dei tanti percorsi esistenziali fossero stati
però attraversati da uno stesso sistema di vasi comunicanti.
Questo
è il nodo storico che bisogna sciogliere, al di là della nevrosi
cerimoniale degli anniversari che ripropone ormai stancamente i soliti
dibattiti, se vogliamo per davvero comprendere quegli anni: questo è
l’album di famiglia che bisognerebbe avere il coraggio e l’umiltà di
sfogliare.
(2/continua)