Repubblica 23.3.18
La chimica dell’amore
Liv Ullmann “Caro Ingmar dì a nostra figlia cosa eravamo”
La grande attrice racconta i suoi anni tra i sogni e gli incubi di Bergman “E se tornasse per un solo giorno gli chiederei...”
Intervista di Simonetta Fiori
BERGAMO
Davanti all’obiettivo dei fotografi, non sembra a suo agio. Cerca
l’espressione giusta, inclina la testa di lato, accenna un sorriso
incerto, come le persone che non sanno fingere.
Non si direbbe che
questa splendida signora con la maglia rossa, il fisico slanciato da
ragazza, abbia alle spalle una quarantina di film, un paio di
candidature all’Oscar e un lungo sodalizio con un mito del cinema. Forse
perché Liv Ullmann non ha mai indossato maschere, e ancora oggi se ne
fa un vanto. «Il mio Stradivari», la chiamava Ingmar Bergman, alludendo
al timbro prefetto con cui sulla scena riusciva a esprimere emozioni,
angosce, solitudine dei suoi personaggi. Gli occhi sono quelli di
sempre, lo sguardo di Marianne in Scene da un matrimonio o di Maria in
Sussurri e grida, un azzurro profondo nel quale è possibile leggere ciò
che le passa in mente, senza infingimenti. Gratitudine, passione,
rimpianto. Quando si incontrarono sul set di Persona – alla metà degli
anni Sessanta – lei aveva 28 anni, lui venti di più. La loro storia
d’amore è durata cinque anni, l’intesa artistica tutta la vita. Ospite
del Bergamo Film Meeting, Liv Ullmann ne parla con la serenità interiore
di chi ha fatto un lungo viaggio. E dall’alto dei suoi quasi
ottant’anni – li compirà a dicembre - tutto le sembra acquistare una
giusta misura, anche il furore d’un genio.
Signora Ullmann, nella
sua autobiografia lei ha scritto che siete entrati l’uno nella vita
dell’altro troppo presto e troppo tardi. Cosa intendeva?
«È ciò che si pensa sempre quando finisce una storia. E io ho scritto
Changing
subito dopo la rottura con Ingmar, più di quarant’anni fa. Oggi tendo a
pensare che quello fu il momento giusto. Dal nostro incontro è
scaturita un’amicizia destinata a durare tutta la vita, al di là dei
nostri nuovi matrimoni».
Cosa non ha funzionato?
«Entrambi
avevamo bisogno l’uno dell’altro. Ma Ingmar cercava la madre, braccia
aperte solo per lui, senza complicazioni. E io non potevo essere questa
figura protettiva perché anche io cercavo comprensione e sicurezza. Lui
sognava la donna tutta d’un pezzo; io mi sbriciolavo in mille pezzi se
non avevo la sua attenzione».
Questo da cosa derivava?
«Il
nostro amore era figlio di una duplice solitudine. Ne soffrivamo
entrambi, anche se eravamo già sposati. Non è un caso che a questa
condizione esistenziale Ingmar abbia dedicato i primi film da me
interpretati, Persona, La vergogna e
Passione. Quando ci siamo
conosciuti, per la prima volta abbiamo sentito di avere qualcuno che
fosse lì a rassicurarci: “ti ascolto”, “ti vedo”. Ci siamo aperti
completamente l’uno all’altro».
Eravate molto simili.
«Sì.
Anche ciò che Ingmar ignorava di sé stesso cominciò a vederlo in me,
nonostante fossi una donna e molto più giovane di lui. Ma forse vedeva
anche quella parte di sé che magari non gli piaceva. E, come uno
specchio, io ero sempre lì a ricordargliela. Questa simbiosi psichica è
molto evidente nei film che le ho citato prima».
In che senso?
«Io ero lui. Rappresentavo la sua immagine riflessa».
Quanto è durato questo gioco di specchi?
«Già
ne L’ora del lupo, il film uscito nel 1968, smisi di essere Ingmar per
cedere il ruolo a Max von Sydow, che incarnava tutti i suoi demoni. E io
non capivo niente. “Ma cos’è questo? Cosa significa?”, continuavo a
chiedere durante le riprese. Il mio sperdimento restituiva la relazione
con lui».
Si sentiva sovrastata dai suoi fantasmi?
«Ero già
incinta di nostra figlia Linn e pensavo: “Quest’uomo è troppo complicato
per me”. Finito il film, me ne tornai a casa, in Norvegia. Ma Ingmar mi
inseguì. Andò da mio marito e gli disse: “Io la rivoglio indietro”. E
io tornai da Ingmar.
Come vede, i tempi della liberazione della
donna erano lontani…». (Liv esplode in una delle sue risate liberatorie,
come a disperdere tutti gli incubi del passato).
Vivevate nell’isola di Farö, una sorta di prigione.
«Ingmar
costruì intorno a me un gigantesco muro. Amici e famigliari erano
vissuti come una minaccia al nostro rapporto. La sua gelosia poteva
essere violenta, capace di troncare ogni relazione che potesse mettersi
tra noi. Mi sarei potuta ribellare, e non lo feci. E quindi sono stata
io costruirmi la prigione, non Ingmar».
Come se ora volesse giustificarlo.
«Per
me sono stati cinque anni straordinari. Ho imparato anche dai suoi
silenzi. Ho capito che dovevo emanciparmi dalla dipendenza da lui. Certo
non avrei potuto resistere oltre perché avevo bisogno di altre
relazioni, mentre per Ingmar l’isola era un rifugio. Ingmar stesso era
un’isola».
A un certo punto la vostra relazione trovò un equilibrio.
«Fu
quando smisi di adorarlo e cominciai a vederlo. A scoprirne le
insicurezze. Ad avvertire il suo spaesamento in mezzo agli altri.
Potevo sentirlo dire all’improvviso: “O dio mio, vieni, tienimi la mano”.
Iniziava l’amore più grande, quello che accoglie le ferite dell’altro».
Da dove venivano questi suoi demoni?
«Non
so rispondere. Era capace di svegliarsi nel cuore della notte scosso da
sensi di colpa, rabbia, ansietà. Oppure l’insicurezza, la paura di non
essere protetti: penso ad alcune foto di Ingmar adolescente, l’aria
smarrita di chi non ha amici. Il mio istinto era di abbracciarlo, senza
troppe domande».
Ma questa fragilità aveva a che fare con i genitori?
«Non
lo sapremo mai. Sia il padre che la madre erano persone adorabili. Suo
padre era un pastore della chiesa luterana molto sapiente sia nell’arte
del racconto che nell’ascolto, qualità ereditate da Ingmar. Ma lui
parlava del padre non sempre in termini entusiastici».
Le sue
ossessioni finirono per logorare il vostro rapporto. Lei una volta disse
che non c’è dolore più grande di essere lasciati.
«Sì, è doloroso
sentire una porta che si chiude e sapere che non si aprirà mai più. Io
ho avvertito questa sofferenza, ma anche Ingmar l’ha provata. E dopo
sarebbe tornato, ma a quel punto era troppo tardi perché avevo già
attraversato tutto il dolore e finalmente ero libera. Lui non aveva
ancora fatto lo stesso percorso. Ma fu quello il momento giusto per
lasciarsi: eravamo ancora in tempo per costruire la nostra splendida
amicizia».
Quanto della vostra storia d’amore è stato trasportato
in “Scene da un matrimonio”, un film fondamentale per l’educazione
sentimentale di più generazioni?
«È il film che ho amato di più
tra quelli fatti con Ingmar. Ed è certo quello più vicino alla nostra
relazione, anche per la progressiva emancipazione della figura
femminile. Però il film non parlava solo di noi, ma delle tantissime
coppie che vi si sarebbero identificate. Ed è questa la grandezza di
Bergman».
All’inizio del vostro amore c’era stato un sogno.
«“Ho sognato che io e te siamo dolorosamente legati”, mi disse un giorno Ingmar. E fu davvero così.
Siamo stati dolorosamente legati fino alla fine».
Cosa intende?
«Sapevo
che Ingmar non stava bene, ma non era così grave. Eppure una mattina di
luglio, 11 anni fa, sentii all’improvviso che dovevo correre a Farö.
Noleggiai un aereo privato, la prima volta nella mia vita. Entrai nella
sua stanza, lui era già assopito. Gli presi la mano e gli dissi alcune
cose su di noi, sul nostro rapporto, quanto era stato importante. Non so
se abbia sentito, forse la sua anima sì. Sono stata l’ultima persona a
vederlo. Ingmar è morto quella notte».
Come se l’avesse aspettata.
«No, non posso dire questo. Ma è stato il dolore a portarmi da lui: non riuscivo a immaginarmi una vita senza Ingmar».
A distanza di tanti anni, ha capito chi era Bergman?
«Un
uomo buono che per tutta la vita ha cercato di dare un senso
all’esistenza. Lui non amava l’indifferenza tra le persone. Nel Settimo
sigillo, quando gioca a scacchi con la morte, il Conte dice: per favore,
non portarmi via prima che io abbia compiuto almeno un’azione buona.
Questo era Bergman: diceva di non credere in Dio, ma tutto quello che ha
fatto è stato il tentativo di trovarlo».
Se tornasse per un giorno soltanto, cosa gli direbbe?
(Liv
si commuove, come se vivesse davvero quel momento). «Ti prego, aiutami
ad avere uno splendido rapporto con nostra figlia. Siediti con noi,
parlale di te e di me. Sono sicura che Linn capirà. Io amo nostra
figlia. Ma ci serve una terza persona. E sei tu, Ingmar, la persona
giusta».