Repubblica 22.3.18
Il caso Cambridge Analytica
Il mea culpa di Zuckerberg
di Federico Rampini
L’etica
protestante non è acqua. E così Mark Zuckerberg esce dal suo silenzio
sugli scandali di Facebook con classe: si assume ogni responsabilità, la
colpa se la prende tutta, s’impegna a rimediare. Recita la parte del
cherubino, per la quale ha ancora l’età giusta e il volto perfetto. Però
non convince. Dopo lunghe giornate di un mutismo che stava diventando
misterioso e insostenibile, ci si poteva aspettare molto di più. Il
33enne che siede su una fortuna di 70 miliardi, fondatore e chief
executive del social media più diffuso del mondo, riconosce che c’è
stato un « abuso di fiducia » ai danni degli utenti ( si riferisce a
quei 50 milioni di americani la cui privacy è stata saccheggiata e
venduta a una società che lavorava per la campagna elettorale di Trump).
Si fa carico della «responsabilità di proteggere i vostri dati». E se
questa responsabilità viene tradita, « noi non meritiamo di servirvi».
Linguaggio
nobile. Che s’inquina subito dopo, quando è seguito da un’affermazione
stridente, sconcertante: «Sto lavorando per capire esattamente cos’è
accaduto e come garantire che non accada più». Fastidioso déjà vu:
promesse solenni di non cascarci più vennero pronunciate anche dopo lo
scandalo precedente, quello sulle fake- news disseminate dai russi, via
Facebook, per aiutare Trump in campagna elettorale. Poi per quanto
riguarda i 50 milioni di utenti “violati”, è una storia che comincia due
anni fa, di cui il top management di Facebook è al corrente da molto
tempo. È verosimile che Zuckerberg stia ancora cercando di capire cos’è
successo?
Lo abbiamo già capito tutti, cos’è successo. Nulla di
anomalo, business as usual. Basta leggersi per esempio l’accurata
ricostruzione che il magazine
Fortune fa del modello
imprenditoriale di Facebook. La fonte di fatturato e di profitti di
questa società, il nucleo duro della sua vocazione aziendale, è la
vendita della nostra privacy. È impressionante l’elenco delle “ chiavi
d’accesso” alla nostra vita privata (digitale), a partire dall’indirizzo
Ip che porta incollato a sé ogni clic, ogni carezza del pollice sul
display, ogni sito che visitiamo. Le nostre amicizie e le nostre
preferenze politiche, i nostri consumi e i nostri valori, il nostro
reddito e i nostri spostamenti geografici, tutto è registrato,
memorizzato, tariffato, venduto. In più, ogni volta che “ condividiamo”
con gli amici un parere su un fatto di attualità, un commento uscito su
un giornale, stiamo facendo una sorta di delazione, segnaliamo al
marketing del pensiero e al “ commercio dell’attenzione umana” tutti gli
appartenenti alla nostra tribù.
Certo a questo punto un dilemma
etico, civile e politico dovremmo cominciare a porcelo noi tutti: a
partire da quale momento, con quale livello di consapevolezza, abbiamo
firmato il patto leonino per cui vendiamo la nostra anima ai social
media, in cambio di un po’ di servizi gratuiti? L’apparente gratuità —
apparente perché in quel gioco siamo noi i prodotti in vendita a
pagamento — è l’offerta che ci ha allettati e corrotti, attirandoci in
questa trappola. Ma l’ultimo a poter fare l’ingenuo, a fingere di “
dover capire cosa sia successo”, è Mr. Mefistofele in persona.
Ora
comincia un movimento di rivolta, perfino il co- fondatore di Whatsapp (
società comprata da Facebook) invita gli utenti a cancellarsi e uscire
dal social media. Si fanno più pressanti gli appelli per interventi
legislativi duri, qualcuno evoca uno “ spezzatino”, uno smembramento da
antitrust. Se vuole arginare questo tipo di reazioni, Zuckerberg deve
offrirci molto di più di quella laconica autocritica- con- promessa.
Oppure… può fare surf sull’onda in stile californiano, recitare l’atto
di contrizione, e investire altre centinaia di milioni nel lobbismo che
gli garantisca l’indulgenza di Washington. Magari la farà franca ancora
una volta. Ma questo dipenderà anche da tutti noi.