Corriere 22.3.18
Dai like ai profili
Perché il caso riguarda tutti noi
di Davide Casati
Un
numero enorme di azioni che compiamo ogni giorno genera dati. La
tessera fedeltà del supermercato, la geolocalizzazione del cellulare,
una chat. Ecco una piccola guida per capire le conseguenze.
L a
previsione era lì, in bella vista, a pagina 13 del documento annuale
presentato poche settimane fa alla Sec, la Consob statunitense. «Non
possiamo garantire, nonostante i nostri sforzi, la sicurezza assoluta e
l’uso corretto dei dati dei nostri utenti»; se qualcosa andasse storto,
«il nostro business, la nostra reputazione e i nostri risultati
finanziari ne sarebbero gravemente danneggiati». Firmato: Mark
Zuckerberg. Il caso Cambridge Analytica, rivelato da Observer e New York
Times , ha mostrato al mondo i danni che a Facebook può provocare una
scarsa trasparenza su eventuali usi scorretti dei dati raccolti
attraverso il social network. Ma quali conseguenze hanno, sui cittadini,
i meccanismi portati sotto i riflettori da questa vicenda?
Questionari mobili
Per
capirlo non serve andare lontano. Un numero enorme di azioni che
compiamo quotidianamente, infatti, genera dati. La tessera fedeltà del
supermercato, la geolocalizzazione del cellulare, un servizio di chat: e
sono solo alcuni esempi. Quei dati — preferenze di acquisto, posizione,
contatti — possono essere venduti a società in grado di usarli per fini
diversi: dalla ricerca alla creazione di campagne pubblicitarie
«chirurgiche». Facebook — che deriva il 98% dei suoi ricavi dagli spot:
cioè dalla vendita ad aziende dell’attenzione dei suoi utenti — ha
un’enorme capacità di raccolta di dati (forniti dagli iscritti) e di
segmentazione dell’audience (cioè di creazione di gruppi omogenei per
caratteristiche e preferenze). Tutto questo può avere lati positivi: una
pubblicità che intercetti i gusti degli utenti fa felici aziende e
consumatori. Ma c’è anche un lato meno scintillante. Per scoprirlo
bisogna partire dalle parole di uno psicologo e data scientist , Michal
Kosinski: «Il nostro cellulare è un enorme questionario psicologico che,
consciamente o no, compiliamo di continuo».
170 like
La
data in cui la rivoluzione digitale si mostrò in tutta la sua potenza è
il 2013. Fu allora, con uno studio pubblicato sulla rivista Pnas , che
Kosinski — all’epoca dottorando all’università di Cambridge — mostrò la
possibilità di predire caratteristiche sensibili di un utente basandosi
su un piccolo numero di like su Facebook. Ne bastano 170, scrisse, per
capire ad esempio etnia, tendenze sessuali e preferenze politiche di una
persona. I social si trasformarono, immediatamente, in database in
grado di fornire profilazioni perfette su elementi di incalcolabile
delicatezza. «Non ho costruito questa bomba», si è poi giustificato
Kosinski, «ho solo mostrato che era lì». Nel cratere di quell’esplosione
si è mossa Cambridge Analytica: acquistando milioni di dati è riuscita,
secondo il suo ad, Alexander Nix, ad avere i profili di un numero
enorme di elettori americani, e a garantire ai suoi clienti la
possibilità di inviare messaggi personalizzati a ognuno di loro,
sfruttandone paure, bisogni e probabili comportamenti. Dati di
importanza fondamentale perché — spiegava ancora Nix — «la personalità
guida il comportamento, e il comportamento influenza il voto».
«Determinismo tech»
Lo
stesso Nix mostrava, in una presentazione del 2016, come le tecniche di
profilazione psicografica avessero reso possibile trasformare Fb (e le
tv via cavo) in campi di propaganda di inedita perfezione. «Attenzione,
però, al determinismo tecnologico», avverte Dino Amenduni, dell’agenzia
di comunicazione Proforma. «Quel che non sappiamo, e forse non sapremo
mai, è quanto davvero i metodi psicometrici abbiano influenzato l’esito
del voto alle presidenziali Usa, o al referendum sulla Brexit. Si tende
spesso a sopravvalutare l’impatto della comunicazione: che resta, ed è
un bene, secondaria rispetto alla politica».
Trasparenza
Resta
aperto, continua Amenduni, un tema di trasparenza. Tanto più grave se
si considera, scrive la ricercatrice Zeynep Tufecki, come «il modello di
business di aziende come Facebook si fondi, di fatto, sulla possibilità
di una profilazione priva di qualunque cosa si possa ragionevolmente
definire consenso» e «destinata a essere usata in modo opaco». Il
disinnesco della «bomba» di Kosinski passa, inesorabilmente, da una
convivenza informata, e da una richiesta di regole più chiare. «Se non
sappiamo proteggere i dati, non li meritiamo», ha detto ieri Zuckerberg:
in un’altra, dolorosa, previsione.