Repubblica 22.3.18
Steven Spielberg “Nessun social vale il contatto tra esseri umani”
Il
grande regista, che dal 28 marzo torna in sala con “Ready Player One”
sulla realtà virtuale, ospite per un giorno negli studi di “Repubblica”
intervistato dal direttore Mario Calabresi insieme all’attore Frank
Matano
Calabresi: “Ready Player One” è un film per
il grande pubblico, ma affronta un tema centrale per il nostro tempo: il
rapporto tra virtuale e reale. Perché ha scelto il best seller di
Ernest Cline e cosa l’ha convinta a trarne un film?
«Quando l’ho
letto per la prima volta ho pensato che fosse una delle storie più
originali — e io ne leggo tante — che avessi incontrato sotto forma di
libro. A parte il contesto fantastico, mi hanno colpito questi cinque
amici virtuali: i loro avatar si conoscono benissimo anche se nella
realtà non si sono mai incontrati. Mi piaceva l’idea di questi due mondi
vicini e paralleli.
Del resto mi è sempre piaciuta la teoria delle stringhe e degli universi paralleli».
Matano: Come sceglie, oggi, i film? Cosa le fa dire: voglio girare proprio questo film!
«È il film a scegliere me, non il contrario».
Matano: Ha sempre avuto fortuna?
«Possiedo una casa di produzione, posso limitarmi a produrre un film.
È una differenza enorme: devo veramente essere sedotto dalla storia e dall’idea. Solo così diventeranno parte della mia vita».
Calabresi:
libro e film ci dicono che il mondo virtuale può essere bellissimo ma
anche che è arrivato il momento di prendersi delle pause.
«M’interessava
raccontare l’investimento che ognuno di noi fa su un altro essere
umano. Il contatto che nutre le nostre anime quando incontriamo gli
altri. I nostri figli invece, lo vedo a casa mia, quando invitano gli
amici si guardano per un attimo e poi finiscono su Snapchat e Instagram.
E non si guardano più».
Matano:
Spesso il racconto del futuro, penso a una serie come “Black mirror”,
mostra il lato oscuro della tecnologia. Il suo film è più ottimista.
Pensa che la tecnologia sia un’opportunità, che si debbano stabilire
regole?
«Io sono come il creatore del gioco del film, Halliday:
non credo nelle regole. Credo nello stato di diritto ma non che siano
necessarie norme per governare la nostra libertà in rete. Credo che
dobbiamo essere governati dai valori, sono questi che contano. Da padre
direi ai miei figli: non puoi stare davanti alla tv o connesso tutto il
giorno. Impongo un minimo di ordine».
Matano: Lei dipende dallo smartphone?
«Sì,
ecco perché l’ho consegnato alla mia assistente: temevo il mio impulso a
rispondere anche in diretta. Come in Hook. Ricordate l’ossessione del
personaggio interpretato da Robin Williams: impugna un gigantesco
cellulare come fosse la pistola di un cowboy».
Calabresi: Che rapporto ha con i social media?
«Li
uso per sapere quello che mi serve: le notizie, guardo i titoli la
mattina quando mi sveglio. Ma non sono su Twitter, Facebook, Snapchat.
Quelle son tutte cose che lascio fare ai miei figli. Ma ne sono
consapevole: ho fatto Ready Player One per tutti voi che siete
dipendenti».
Calabresi: Il messaggio più forte è che la realtà è l’unica cosa che conta. Quanto è rilevante il rischio di dimenticarlo?
«Capiremo
le nostre reazioni quando qualcosa come Oasis esisterà davvero: un
luogo virtuale dove poter andare a scuola, avere un’istruzione, trovare
un lavoro, sposarci, fare tutto tranne che andare in bagno. Solo allora
sapremo se preferiamo un avatar al contatto umano. Per me niente può
sostituire il contatto autentico tra esseri umani».
Calabresi: Il
film è ambientato in un futuro che sembra la degenerazione del presente:
crisi economica e energetica, povertà, sovraffollamento e grandi
multinazionali tecnologiche a controllare tutto.
Finirà così?
«Sì,
sta già succedendo. E il futuro sarà ancor più controllato dalle grandi
multinazionali. Nel film, un enorme conglomerato combatte questi
ragazzini: succede anche nella realtà e questo fa paura».
Matano: “Ready Player One” è un trionfo di videogiochi. Lei quando ha cominciato a giocare?
«Quando preparavo Lo squalo e vivevo a Martha’s Vineyard.
Scoprimmo
un locale dove c’era un videogioco di tennis. Diventai dipendente, ci
andavo ogni volta dopo le riprese. Tornato a Hollywood l’ho comprato e
l’ho messo in ufficio. Per cinque anni ho giocato a tutti i giochi in
cui dovevi infilare la monetina: Pac-man, Missile Combact... Poi sono
passato agli altri. Ora gioco sul computer.
Mio figlio Max
progetta videogiochi e sono orgoglioso di lui. Non dovrei dirlo ma gioco
anche a Assassin’s creed, che però è troppo violento».
Calabresi:
Parliamo di privacy. Nel film un gruppo di giocatori si batte con una
multinazionale per il controllo del videogioco che rappresenta
l’immaginario collettivo. Diritti individuali e democrazia sono una
costante del suo cinema da “Minority Report” a “Lincoln”.
«Sì certo, e mi preoccupa che i nostri dispositivi siano dotati di telecamere...».
Matano: io mi faccio la doccia con i vestiti addosso…
«È
un po’ la teoria di Orwell del Grande Fratello. Però qui non è più
grande è un piccolo fratello, la piccola sorella: si può essere
osservati persino dallo smartphone. E mi preoccupano anche i
pubblicitari che sanno tutto di noi in maniera tale da indirizzarci
direttamente i loro prodotti. E questo perché le autostrade
dell’informazione digitale sono come il vecchio West, luoghi senza
legge. E tuttavia temo anche che l’eccesso di regolamentazione limiti la
nostra libertà di espressione, le nostre voci. Sono anni spartiacque in
cui donne e minoranze stanno davvero trovando la propria voce su
Internet. È importante».
Matano: Come si sente prima dell’uscita di un suo nuovo film?
«Devono strapparmelo dalle mani.
Non
voglio mai lasciarlo andare. Un film è come un figlio, per questo è
difficile rispondere alla domanda su quale sia il preferito. Arriva un
punto in cui il figlio che ho cresciuto viene adottato da tutti.
Insomma siete voi i genitori del mio lavoro».
Matano: Va su Google a controllare i commenti sui suoi film?
«No,
non “googlo” me stesso, ma ascolto le persone. Quando un film è finito
devi lasciarlo andare. E quel vuoto può essere riempito solo da un’altra
storia».
Calabresi: Ha girato “The Post” mentre preparava questo film. Come si lavora in contemporanea su progetti tanto diversi?
«La mia carriera è bipolare, anche se io non lo sono. Quando mi capitò nel 1993, tra Schindler’s list e
Jurassic
park, fu difficile. Quella di The Post è stata un’esperienza diversa.
Avevo già finito le riprese diReady Player One e lavoravo sugli effetti
digitali. Per qualche miracolo mi è arrivato il copione di The Post che
raccontava una storia di oggi: l’amministrazione che reprime o cerca di
reprimere i diritti previ sti dal primo emendamento, i diritti della
stampa libera. Richard Nixon lo fece nel ’71 con Washington Post e
New
York Times. Meryl Streep, Tom Hanks e io ci siamo detti che questo era
il momento giusto per raccontare questa storia: “Non faremo soldi, ma
faremo un servizio all’opinione pubblica”. Ecco perché ho girato il
film».
Calabresi: Continua a leggere le notizie sulla carta stampata?
«Sì. Guardo Axios on line ogni mattina. A volte la Cnn on line ma
leggo New York Times, Washington Post e Wall Street Journal praticamente ogni giorno».
Matano:
Il film si muove tra futuro e passato, è un viaggio d’amore e nostalgia
degli Anni Ottanta. Quali sono state le sue icone della cultura pop?
«Gli
Ottanta sono stati un momento fantastico, sorprendenti. Quasi un
decennio di grazia. L’America era relativamente calma. I cineasti
raccontavano storie, volevamo intrattenere, non solo informare. La
musica era leggera: Duran Duran, Van Halen, Bee Gees, e poi La febbre
del sabato sera ».
Calabresi: E gli anni Settanta, le piacciono?
«Sono
stati un ottimo momento per me, per la mia carriera. Ho fatto tanti
film. Ma negli 80 mi sono divertito di più e poi ho incontrato la donna
dei miei sogni, mi sono innamorato e mi sono sposato (con Kate Capshaw,
protagonista di Indiana Jones e il tempio maledetto, ndr) e dopo
ventisette anni siamo ancora sposati. Il mio primo figlio è nato negli
anni Ottanta, ho fondato la mia società, la Amblin. Sì, è stato un buon
decennio».
Calabresi: Il protagonista del film si unisce a un
gruppo di cacciatori ribelli: gli “High five”. Il suo gruppo è stato
quello dei “Movie Brats”: eravate lei, Coppola, Scorsese, Lucas, De
Palma. Ce li descrive con un solo aggettivo?
«Francis è facile: è
decisamente il padrino. Martin lo chiamo il demone veloce: parla, si
muove e pensa in fretta, le idee gli vengono al volo. George Lucas è un
comico, non lo diresti ma è un tipo veramente molto divertente. Brian lo
definirei split screen: avete presente i suoi film?».
Matano: Qual è stata la sua più grande fonte d’ispirazione?
«Facile. Mamma e papà. Lei l’ho persa l’anno scorso a 97 anni e mio padre, che ha 101 anni, è stato il mio primo produttore».
Calabresi: C’è un film di un altro regista che avrebbe voluto fare lei?
«Oh mio Dio tantissimi. Di sicuro
Il
cacciatore di Michael Cimino, uno dei miei preferiti. Ma se lo avessi
girato io non avrebbe avuto lo stesso successo. Cimino era nato per
raccontare quella storia: il primo film sullo stress post traumatico del
Vietnam, era il suo destino, non il mio».
Calabresi: I
protagonisti dei suoi film sono spesso ragazzini solitari. Un po’ goffi,
fuggono dalla realtà difficile con l’immaginazione.
«Come me. Io
ero, e ancora sono, un po’ goffo ma oggi i “nerd” sono molto popolari. A
scuola non ero certo un tipo gettonato. Ero strano, me ne andavo in
giro con la macchina da presa e giravo film in 8 mm. I miei coetanei
sportivi mi prendevano in giro: chi è questo ragazzo strambo? Ecco,
vorrei incontrarli oggi... Tutto questo, il mio passato, finisce nei
miei personaggi. Tifo per i perdenti.
Preferisco raccontare storie
sulla vera natura della forza, su quelle idee che ti inseguono e
all’improvviso ti costringono a trovare il coraggio. Perché in gioco ci
sei tu, ma anche i tuoi amici. Il rapporto fra persecutore e
perseguitato è presente in molti dei miei film».
Calabresi: Le è stato tributato il David di Donatello alla carriera. Che rapporto ha con l’Italia?
«È
un rapporto d’amore, sano e solido. Sono cresciuto guardando i film
italiani di Rossellini, Fellini, Antonioni. Ho avuto l’opportunità di
vedere Antonioni quando dirigeva Zabriskie Point, sono andato nel
deserto della California e un mio amico aiuto regista mi ha portato sul
set a vederlo in azione.
Penso che il cinema italiano abbia
prodotto meraviglie. Negli Stati Uniti abbiamo, o meglio avevamo, i
confini aperti e grazie a quella immigrazione abbiamo avuto i Vincent
Minnelli — figlio di immigrati — Frank Capra, Francis Ford Coppola,
Quentin Tarantino, Martin Scorsese. Il cinema italiano è entrato nel
cinema americano portandoci doni meravigliosi: Robert De Niro, Al Pacino
e molti altri. Registi, attori, scrittori…».
Calabresi: Qual è il luogo che preferisce qui in Italia?
«Ho
passato molto tempo a Firenze. L’ho scoperta grazie a mia figlia che ha
studiato lì per un semestre. Tanti nostri amici si sono sposati a
Firenze. E così noi facciamo avanti e indietro per assistere ai
matrimoni...».
Calabresi: E Roma?
«Amo Roma... la città
probabilmente più ricostruita da Hollywood, sono tanti i film americani
ambientati nella Roma antica ma Roma stessa è una città che ama il
proprio passato, lo conserva e lo condivide. Una cosa che non succede
nel mio paese dove con un bulldozer, buttiamo tutto giù per costruire un
grattacielo di vetro. Qui invece la storia è onorata. E questo io lo
rispetto».