La Stampa 22.3.18
Cinquant’anni dal ’68
Guido Viale: dignità umana, la lezione attuale del ’68
Il
leader torinese di Lotta continua: “Una stagione in cui poveri e
esclusi si sentirono meno emarginati. Per noi la politica era vivere in
modo diverso. Oggi l’impegno è l’anti-razzismo”
intervista di Claudio Gallo
È
stato uno dei leader del ’68 e tra i fondatori di Lotta Continua. Guido
Viale, 75 anni, sociologo, scrive saggi, si occupa di economia, modelli
di sviluppo e ambiente. Gli chiediamo, cinquant’anni dopo, di spiegarci
quella stagione che sembra ormai assorbita nella società dello
spettacolo: è possibile darne una definizione minima che ricollochi il
periodo nella storia?
«La domanda non corrisponde né alla mia
esperienza personale né a quella di gruppo. Il ’68, con la sua
dilatazione all’autunno caldo del ’69, è stato un movimento molto chiuso
su se stesso, concentrato sulle cose che faceva e non sulla loro
rappresentazione pubblica. L’idea che la società dello spettacolo si sia
sviluppata da quella stagione è una sciocchezza che ha molti autorevoli
sostenitori, come il filosofo Mario Perniola, morto da poco, che ha
messo in un rapporto di continuità il ’68, cioè l’idea della fantasia al
potere, con la cultura spettacolare del berlusconismo».
Il ’68, in particolare a Torino, è nato prima del ‘68. Come si è passati dalla protesta generalizzata all’azione politica?
«In
realtà la protesta era già nata come protesta politica e l’azione
politica è stata in gran parte una protesta, nel senso che poi
difficilmente è riuscita a raggiungere risultati consolidati, se non la
creazione di un clima di libertà prima nelle università e nelle scuole,
poi nelle fabbriche e per un certo periodo anche nella vita associata
delle città. Un posto dove studenti, operai e cittadini, soprattutto
proletari e poveri, si sentivano meno esclusi, trascurati e più
protagonisti».
Quindi fin dall’inizio c’era una coscienza politica precisa?
«No,
se per coscienza politica s’intende un’ideologia oppure un’appartenenza
politica, escludendo i pochissimi gruppetti già politicizzati.
Piuttosto, la cascata di ideologie marxiste-leniniste è arrivata dopo,
come conseguenza del ’68 che aveva aperto certi spazi con la sua
contestazione (come si chiamava allora) della gerarchia e
dell’autoritarismo».
Lotta Continua pensava veramente che una rivoluzione comunista sarebbe stata possibile?
«Credo
che noi, come Lotta Continua, la parola rivoluzione non l’abbiamo mai
usata, e se l’abbiamo fatto è stato molto tardi. Vivevamo il comunismo, a
cui dicevamo di appartenere, secondo il detto di Marx per cui il
comunismo è il movimento reale che cambia le cose. Abbiamo sempre
vissuto, soprattutto nella prima fase di formazione dell’organizzazione,
la nostra lotta e la nostra partecipazione alla vita politica come un
processo che aveva il suo fine in se stesso, cioè nello spazio di
libertà, di autonomia, anche di cultura, di maturazione, che la
partecipazione alla lotta ci dava. Indubbiamente c’erano degli obiettivi
politici di volta in volta: scioperi, lotte; ma fin dall’inizio abbiamo
cercato di porre l’accento sul fatto che lottare era anzitutto una
maniera di vivere in modo diverso».
Molto poco leninisti...
«A
partire dal 1972 o ’73 ci siamo anche dichiarati leninisti, ma era uno
scimmiottamento di altre organizzazioni che avevano fatto del leninismo
la loro bandiera. Sostanzialmente l’abbiamo praticato molto poco e
comunque è stato uno degli elementi di degenerazione della nostra
organizzazione».
Alcuni sostengono che il ’68 abbia spostato la
cultura sindacale da un approccio quantitativo a uno qualitativo,
preparando la strada al declino della stagione dei grandi contratti di
lavoro e del sindacalismo stesso; altri ancora pensano che
l’indebolimento sessantottino dei valori tradizionali abbia di fatto
predisposto il terreno all’avvento della globalizzazione neoliberale.
Che cosa ne pensa?
«La distinzione tra lotta sindacale e lotta
politica era il residuo di una vecchia tradizione del movimento operaio
che non aveva spazio nel modo in cui la lotta veniva vissuta dagli
operai e dagli studenti di quegli anni. Allora si percepiva la lotta
come immediatamente politica anche quando aveva caratteri sindacali. Per
quanto riguarda i valori borghesi tradizionali, come la famiglia, la
moralità e l’appartenenza nazionale, sono stati indubbiamente dei
bersagli cruciali del ’68, secondo me sacrosanti. Oggi il neoliberalismo
si sta riappropriando proprio di quei valori nel tentativo di
difendersi contro una contestazione che in qualche modo sta crescendo
anche se non ha un volto direttamente politico. Si vorrebbero recuperare
quei valori borghesi, tanto è vero che i partiti che oggi li invocano
come i partiti della destra nazionalista e razzista non hanno niente da
eccepire contro il neoliberalismo. Forse molto contro la
globalizzazione, ma non contro le privatizzazioni o contro la
finanziarizzazione che anzi sostengono».
L’antifascismo, di cui si
torna oggi a parlare, è stata una componente essenziale del ’68. Non
pensa che sia stato anche il salvagente identitario di una sinistra che
non perseguiva più obiettivi di sinistra?
«Di fronte a una
crescita del Msi, dei movimenti di destra e dell’azione squadristica, e
anzitutto di fronte alla strategia della tensione, abbiamo di fatto
praticato un antifascismo che ha talvolta messo in secondo piano
l’obiettivo per cui ci eravamo mossi: la trasformazione della società.
Oggi il problema centrale che ci troviamo di fronte non è tanto il
fascismo in sé quanto il razzismo, anche se i due vanno insieme. La
crescita dei movimenti di destra, anche quelli che si ispirano
direttamente al fascismo, come CasaPound o Forza Nuova, in realtà hanno
alla base del loro reclutamento (riuscendo a coinvolgere anche Salvini)
non tanto il richiamo al fascismo, che resta un tratto permanente e
ineliminabile nella società italiana, ma il razzismo e l’odio per gli
immigrati. Mobilitarsi contro il razzismo, con azioni positive e non
solo con richiami ideologici, è negli intenti di tutti coloro che oggi
sono impegnati in azioni di accoglienza e sostegno alle comunità
immigrate. L’antirazzismo è diventato una componente prioritaria
dell’azione politica».
Se si presentassero le condizioni per un nuovo ’68, che cosa toglierebbe e cosa aggiungerebbe rispetto ad allora?
«La
cosa che più potrebbe essere recuperata del ‘68 è la rivendicazione
della dignità degli esseri umani, questo era il contenuto di fondo
dell’antiautoritarismo di allora sia nelle scuole sia nelle fabbriche».