Corriere 22.3.18
Com’era fragile l’Italia di Moro
Memoria L’analisi di Marco Damilano (Feltrinelli): nel 1978 cominciò il declino del sistema democratico
Il leader assassinato temeva le scosse delle eccessive passioni ideologiche
di Aldo Cazzullo
È
il 28 febbraio 1978. Aldo Moro ha 61 anni ed è l’uomo più potente
d’Italia. Gli restano sedici giorni di libertà e settantuno di vita.
Andreotti si è offerto di cedergli il posto di presidente del Consiglio,
ma lui ha valutato che il suo progetto di inclusione del Pci nella
maggioranza avrebbe avuto maggiori possibilità di successo se a Palazzo
Chigi fosse rimasto un uomo della destra cattolica, scettica verso il
compromesso storico e quindi bisognosa di essere tranquillizzata.
Quel
giorno, Moro partecipa alla riunione dei gruppi parlamentari della Dc,
il partito che da oltre trent’anni governa il Paese. All’ingresso un
giovane cronista che ha già cominciato a costruire il più formidabile
archivio del giornalismo italiano, Filippo Ceccarelli, tenta di farlo
aprire con il più vago degli approcci: «Presidente, lei parlerà?». Moro
risponde inclinando la testa e sorridendo rassegnato, una di quelle
movenze languide e un po’ levantine da cui i suoi numerosi nemici
traevano un’impressione di debolezza e inconcludenza: «Eh così, andiamo
un po’ a sentire…». In realtà Moro ha preparato un discorso che si
rivelerà insieme il suo capolavoro e il suo testamento politico.
Il
nuovo libro di Marco Damilano — Un atomo di verità. Aldo Moro e la fine
della politica in Italia (Feltrinelli) — offre davvero molti spunti.
Intanto è decisamente ben scritto. Si apre con una pista personale:
nella primavera del 1978 l’attuale direttore dell’«Espresso» è un
bambino di dieci anni, che ogni giorno passa da via Fani sullo scuolabus
guidato da una bella signora bionda, la direttrice della Montessori,
dove tutti devono fare tutto. E Aldo Moro è il primo politico che ha
visto: gliel’ha mostrato il padre, inginocchiato in chiesa. Il percorso
sulle orme del presidente democristiano conduce, alla fine del libro,
nell’austero cimitero di Torrita Tiberina, a picco sul Tevere, dove Moro
riposa. L’ossatura del libro è costituita dalle carte, spesso inedite,
custodite nell’archivio Flamigni. È straordinario come una vicenda tanto
scavata lasci ancora trapelare coincidenze al limite dell’incredibile e
troppi punti ancora da chiarire, dalla strage di via Fani alla mano
dell’assassino (Gallinari? Moretti? Maccari? O il legionario De Vuono?).
Ora spunta una foto inedita con Moro, Piersanti Mattarella e Mino
Pecorelli: tutti assassinati. Ora emergono dettagli che solo una
metropoli come Roma — capitale della politica, della cristianità e pure
dello spettacolo — può custodire: testimone del massacro della scorta
Moro è il giovane Francesco Pannofino, l’attore; a riconoscere
indisturbato a Trastevere il brigatista Casimirri è il padre di
Jovanotti, Mario Cherubini, della gendarmeria vaticana; e si potrebbe
aggiungere Piera Degli Esposti seduta per caso in via Caetani, in attesa
del suo impresario, sul cofano della Renault rossa che cela il corpo
della vittima.
Ma Damilano è un giornalista politico. E fin dal
sottotitolo il libro spiega come la morte di Moro coincida non solo con
la crisi del terrorismo rosso e con l’inizio della fine di Dc e Pci, ma
anche con il declino della mediazione politica. Lo psicodramma di questi
nostri giorni, con leader palesemente impreparati sul piano culturale e
forse anche umano, è il seguito di una tragedia nazionale cominciata
quarant’anni fa.
Quel 28 febbraio Moro invita gli uomini del suo
partito a guardare fuori dal Palazzo, a rendersi conto dell’«emergenza
reale che è nella nostra società. Io credo all’emergenza, io temo
l’emergenza. La temo perché so che c’è sul terreno economico e sociale.
Credo che tutti dovremmo essere preoccupati di certe possibili forme di
impazienza e di rabbia, che potrebbero scatenarsi nel contesto sociale».
Il Paese di fine anni Settanta rifiuta «autorità, vincoli,
solidarietà». «Immaginate cosa accadrebbe in Italia, in questo momento
storico, se fosse condotta fino in fondo la logica della opposizione, da
chiunque essa fosse condotta, da noi o da altri, se questo Paese dalla
passionalità intensa e dalle strutture fragili fosse messo ogni giorno
alla prova di una opposizione condotta fino in fondo…».
Giustamente
Damilano si sofferma sulla definizione che Moro dà dell’Italia: «Paese
dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili». Non è cambiato
molto da allora. Nel 1978 il problema è aprire la maggioranza al Pci,
che non avrà ministeri ma per la prima volta dalla cacciata di Togliatti
nel 1947 sta per votare la fiducia a un governo. Moro rivendica il
ruolo di scudo verso il comunismo che la Dc ha esercitato, ma rivendica
anche il proprio ruolo di artefice del centrosinistra e dell’apertura ai
socialisti, e aggiunge: «Se non avessimo saputo cambiare la nostra
posizione quando era venuto il momento di farlo, noi non avremmo tenuto,
malgrado tutto, per più di trent’anni la gestione della vita del
Paese». E poi la frase-chiave che spiega meglio di qualsiasi altra il
metodo democristiano: «È la nostra flessibilità, più che il nostro
potere, che ha salvato fin qui la democrazia italiana».
Il
discorso di Moro sciolse molte indecisioni, anche se nel partito rimase
più stimato che amato. La lista dei ministri non piacque ai comunisti,
che non vi videro il rinnovamento atteso: erano state privilegiate le
correnti conservatrici della Dc, sempre nell’ottica morotea di portare
tutto il partito, a cominciare dai più riottosi, all’incontro con il
nemico di sempre. Sarà solo il rapimento di Moro a indurre il Pci a
votare la fiducia ad Andreotti; ma la scomparsa del grande mediatore
farà fallire quel disegno, che non doveva portare al consociativismo ma
all’alternanza.
I paragoni con il presente sono sempre ingannevoli
e fallaci. Ma fa comunque impressione rileggere nel libro parole che
sembrano adattarsi alla fase incerta e conflittuale che stiamo vivendo:
«Se voi mi chiedete tra qualche anno cosa potrà accadere (parlo del
muoversi delle cose, del movimento delle opinioni, della dislocazione
delle forze politiche), io dico: può esservi qualche cosa di nuovo. Se
fosse possibile dire: saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a
questo domani, credo che tutti accetteremmo di farlo, ma, cari amici,
non è possibile; oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità.
Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi, si tratta di vivere il tempo
che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà».