Repubblica 20.3.18
Gustavo Zagrebelsky “Solo il diritto protegge la ragione dal risentimento”
Il
giurista raccoglie in un volume una serie di lezioni centrate su un
interrogativo: come fa una società a rendere coeso quell’insieme di
interessi che l’attraversano?
Intervista di Antonio Gnoli
In
un tempo decisamente votato all’incertezza e nel quale sempre più
rassegnati guardiamo al futuro, possono tornare utili le considerazioni
che Gustavo Zagrebelsky svolge intorno alla natura del diritto e alla
sua storia. Il diritto allo specchio (nel quale per Einaudi sono
raccolte le sue lezioni al San Raffaele di Milano) è una guida
straordinaria dentro le questioni capitali che hanno attraversato le
civiltà e che potremmo riassumere con un interrogativo: come fa una
società a proteggersi da se stessa? Come fa a rendere coeso e
tollerabile quel coacervo di interessi, desideri, brame che
l’attraversano e che sono a volte impulso vitale altre annuncio di
rovina? «La storia ha offerto differenti soluzioni, quella più solida
che è sopravvissuta nonostante le evoluzioni e i cambiamenti, che non
sempre sono all’altezza delle aspirazioni, è il diritto», dice
Zagrebelsky.
In che senso “Diritto allo specchio”, cosa vi si riflette?
«Mi piaceva l’idea di specchio come
speculum.
Paolo di Tarso dice che la condizione umana consente di vedere le cose
solo “per speculum in enigmate”, cioè riflesse e velate.
Quasi a significare che la verità ha una sostanziale inafferrabilità».
Qualunque definizione del diritto è dunque provvisoria?
«Al
di là dei compendi giuridici, l’esperienza ci suggerisce che nel
diritto c’è qualcosa di sfuggente con cui occorre fare i conti. La
concezione tradizionale, di cui siamo figli, cioè il diritto come legge
positiva, che è poi la volontà scritta in una legge, è in larga parte
superata. Oggi il diritto è certo legge, ma deve saper far fronte a
quell’attività quotidiana composta da casi spesso controversi».
Le controversie, per esempio, sulla fecondazione eterologa o il suicidio assistito, rientrano nelle difficoltà cui alludi?
«Quando
si discute di “suicidio assistito” scende in campo il concetto di
dignità umana. Ma sappiamo benissimo che esistono due opposti usi. Per
alcuni la dignità umana esclude che il fine vita si consumi in
condizioni disumane; per altri non c’è niente di più disumano del
privare la vita altrui. È chiaro dunque che il diritto si trova ad
affrontare visioni diverse, risultato di un conflitto culturale».
Con quali conseguenze?
«La più vistosa è che in nome di visioni contrapposte il diritto diventa materia disputabile».
Questa disputabilità rende il diritto debole?
«Come
sai sono un sostenitore del diritto mite. Ma non confonderei il mite
con il debole. Anche perché il diritto produce sempre decisioni
definitive».
Qual è la differenza tra mite e debole?
«Per
debole si può intendere un organo privo di sufficienti difese; mentre il
mite non contraddice la forza, la usa in modo ragionevole, cercando di
armonizzare tra le diverse posizioni».
Un teorico del compromesso
fu Hans Kelsen. Al suo opposto si stagliò Carl Schmitt. Essi danno
letture diametralmente opposte del diritto novecentesco. Tu da che parte
ti collochi?
«Non è come tifare e scegliere tra due squadre di
calcio. Furono due grandi giuristi, ma in prospettiva Kelsen ha una
strumentazione più adeguata per affrontare i problemi che ci investono».
Ai suoi occhi solo la purezza del diritto garantiva la sua funzione.
«È
l’aspetto meno interessante, anzi superato della sua visione: non si dà
più un diritto depurato dalle istanze che provengono dalla società.
Resta invece attuale l’idea che attraverso determinate procedure
giuridiche sia possibile armonizzare il pluralismo delle opinioni e
degli interessi».
È proprio ciò che Schmitt vede come fumo negli occhi.
«Schmitt
è un teorico dell’emergenza. Egli ha sotto gli occhi l’esperienza di
Weimar, il lento agonizzare della società e dello Stato. Vede il caos
avanzare.
Per arrestarlo concepisce un potere decidente che separi gli amici dai nemici».
Non è un compito che spetta alla Costituzione?
«Proprio
questo è il problema. Per Schmitt la garanzia della costituzione è
nella decisione del dittatore che opera un allontanamento dei nemici.
Nella visione schmittiana non c’è spazio per una giustizia
costituzionale, la garanzia per lui può essere solo politica. Al
contrario, Kelsen pensa alle procedure regolate e a un giudice che sia
garante di queste procedure».
A proposito di giudici si dice che
l’odierna magistratura abbia riempito il vuoto lasciato dal potere
politico; ma che il potere giudicante sia eccessivo. Come valuti questa
fase storica?
«La vedo come un dato di fatto.
Incontestabile,
nel senso che non si può non tenerne conto; ma, al tempo stesso,
occorre razionalizzarla, evitando abusi e inconvenienti».
In che modo?
«Puntando
su una adeguata formazione dei giudici, troppo esperti delle leggi
riportate sulle gazzette e poco di quel diritto sociale che creando
nuovi equilibri produce nuove norme di comportamento».
Non ritieni che per questo occorra una forza ordinante frutto di una sovranità oggi in crisi?
«È
in crisi la sovranità che scende dall’alto. Il nostro è il tempo della
sovranità residua che opera nel campo dell’ordine pubblico e in quello
dei diritti civili. Siamo in presenza di una richiesta di nuove forme di
responsabilità. Ma che cosa riservi l’avvenire è incerto. Si
fronteggiano due orientamenti: la chiusura e la repressione, da un lato;
l’apertura e l’integrazione, dall’altro. In entrambi i casi, la base
umana su cui pacificamente poggiavano gli Stati è messa in discussione».
Prima si accennava all’esperienza di Weimar.
Qualcuno
comincia a pensare che per alcune forti analogie, l’esperienza politica
di Weimar stia diventando il nostro fantasma. Cosa ne pensi?
«Penso
che oggi non ci sia lo stesso conflitto radicale che c’era negli anni
Venti in Germania. Quel mondo era spaccato in due, il paese distrutto.
La rivoluzione bolscevica minacciava di estendersi anche da loro. Era,
appunto, un conflitto radicale, dove, come osservò Schmitt, venivano
mobilitate le passioni più irrazionali. Oggi, più che passioni
totalizzanti siamo preda di interessi particolari. In fondo Weimar, a
suo modo, fu un’epoca eroica, noi siamo un’epoca senza pathos.
Nonostante tutto, stiamo molto meglio. Da noi l’anomia produce
disordine, da loro ha prodotto il nazismo».
Molta gente è stanca del disordine. Può nascere da ciò la tentazione dell’“uomo forte”?
«La democrazia, per come la conosciamo, mira alla convivenza.
L’uomo
forte oggi potrebbe essere invocato per garantire l’attuale livello di
esistenza. Non lo immagino come colui che è in grado di creare l’uomo
nuovo».
È come se tu escludessi la possibilità di una democrazia fiaccata dalle troppe patologie.
«Non è esattamente così.
Estremizzando
il discorso si può dire che viviamo in un’epoca in cui la democrazia
agisce contro se stessa. Come tutti i regimi politici può essere buona o
cattiva. Sana o corrotta. La democrazia, che in partenza sembrerebbe il
regime più amicale, può trasformarsi in quello più odioso».
Dove alla fine vincono la paura e il risentimento?
«C’è
il rischio. Il risentimento ha una forma democratica ma un contenuto
irrazionale e quindi pericoloso. La tua osservazione implica che
l’attuale democrazia si debba basare su una responsabilità diffusa. Ma
questa non la imponi per legge. O c’è o non c’è. In questo senso la
democrazia è fragile. Essa non garantisce una polizza assicurativa».
La si chiede allora all’uomo forte?
«Lui sì che sventola la polizza, ma è un’assicurazione oltre che pericolosa, fasulla»