il manifesto 20.3.18
L’inesauribile forza della merce-feticcio
Convegni.
Un'anticipazione dalla relazione al seminario «L’attualità del
Capitale. Nel bicentenario della nascita di Karl Marx», che si terrà
presso la Fondazione Basso, a Roma, il 23 e 24 marzo.
di Stefano Petrucciani
Tra
i molti temi che Marx affronta nel Capitale, uno di quelli che hanno
segnato di più il pensiero critico del Novecento è il feticismo delle
merci. Che le merci, i beni di consumo, siano divenute con lo sviluppo
del capitalismo moderno un vero e proprio oggetto di culto (come lo
erano i feticci per i popoli primitivi) è una constatazione che, per chi
ha letto i formidabili testi critici di Adorno o di Debord, ha assunto
ormai la consistenza di un’ovvietà.
Ma quando parlava di feticismo
e di reificazione (concetti, come vedremo, strettamente connessi) Marx
forse anticipava, ma non poteva ancora vedere, gli effetti che lo
sfavillante mondo delle merci avrebbe generato nella coscienza degli
abitanti della postmodernità. Quello che gli interessava mettere a fuoco
era una questione diversa e in un certo senso più profonda: e cioè il
fatto che, nella moderna società mercantile-capitalistica, i rapporti
tra uomini si trasformano in rapporti tra cose e, soprattutto, le
dinamiche socio-economiche che sono il risultato del nostro incessante
operare nel mondo ci si impongono come se fossero delle leggi estranee e
ineluttabili, alle quali non possiamo che obbedire. Come se fossero
«cose» (dalla parola latina res=cosa deriva il termine reificazione) e
non rapporti tra gli uomini, storicamente divenienti e modificabili
COME
IL CULTO della merce-feticcio, anche questo è un aspetto contro il
quale impattiamo continuamente, nella nostra vita quotidiana come in
quella politica: non passa giorno senza che qualcuno torni a insegnarci
che le superiori leggi dell’economia di mercato impongono, per esempio,
di tagliare le erogazioni del welfare, di ridurre la spesa sociale. Come
se queste fossero non già scelte politiche, discutibili e criticabili,
ma conseguenze quasi naturali di una situazione priva di alternative,
rispetto alla quale non ci sono altre scelte se non adattarsi o perire
(precipitando nella insolvenza, nella crisi, nella catastrofe della
convivenza sociale).
Ma le cose stanno veramente così? Il lavoro
di Marx sulla reificazione e il feticismo è proprio un tentativo di
rispondere no. Di mostrare che questi modi di vedere che predicano la
mancanza di alternative sono il frutto di una complessa dinamica di
accecamento: non una semplice illusione e, meno che mai, un inganno da
parte dei «cattivi»; piuttosto una apparenza che si impone con forza
irresistibile, grazie alla struttura profonda della nostra società che
la sostiene e la ricrea sempre di nuovo. Ma per capire come funzioni
questo meccanismo bisogna, come fa Marx nelle pagine sul feticismo,
impostare sulle giuste basi il ragionamento su come operano e come
sopravvivono le società umane.
Ogni società, dalla famiglia
primitiva allargata fino alla complessa società moderna, è resa
possibile da una certa divisione del lavoro al suo interno.
CIÒ
SIGNIFICA che la forza lavorativa complessivamente disponibile (come
fosse la forza di un solo individuo, di un Robinson sull’isola deserta)
viene distribuita nello svolgimento di attività diverse (per esempio:
produzione di cibo, produzione di strumenti, di ulteriori beni,
costruzione di alloggi) e che i prodotti di queste attività vengono a
loro volta distribuiti agli individui per assicurare loro la
sopravvivenza e anche (ove possibile) qualcosa di più.
L’ASSEGNAZIONE
del lavoro umano a differenti branche di produzione caratterizza dunque
ogni forma sociale. Ma questa assegnazione può essere realizzata in
molti modi: in una ipotetica associazione di uomini liberi (l’utopia che
Marx ha in mente) questo processo è evidente e trasparente: ci si
riunisce e si stabilisce (in modo auspicabilmente democratico) che Tizio
farà una cosa e Caio ne farà un’altra.
Nella società mercantile,
invece, questa assegnazione del lavoro umano a differenti branche di
produzione ha luogo ugualmente, ma senza che nessuno l’abbia programmata
o decisa; e proprio per questo risulta in qualche modo occultata, non
viene vista o tematizzata.
Ciò che l’individuo vede è che egli può
produrre delle merci che hanno un certo valore, e che attraverso il
ricavato della vendita può acquistare altre merci che hanno pari valore e
che, a differenza delle prime, gli servono per soddisfare i suoi
bisogni. L’individuo non vede la complessiva articolazione del lavoro
sociale (che pure c’è) perché essa si stabilisce attraverso la dinamica
del mercato senza che nessuno se ne curi o la programmi: la
distribuzione del lavoro nei vari rami di produzione, e la distribuzione
dei beni finali ai differenti individui, è assicurata dal rapporto tra i
valori delle diverse merci.
QUELLO CHE ACCADE dunque in questa
situazione, secondo Marx, è che i rapporti sociali tra i produttori
prendono la forma di un rapporto tra cose.
La vita di ciascuno
finisce per dipendere da un processo oggettivo che ha le sue regole,
come le hanno le cose indipendenti dagli uomini. Se l’azienda non riesce
a vendere i suoi prodotti, fallirà e i lavoratori resteranno
disoccupati; se non avranno la fortuna di trovare altri acquirenti per
la loro forza-lavoro, non avranno più di che vivere e, nel migliore dei
casi, si potrà sopperire alle situazioni più drammatiche mettendoci una
toppa attraverso qualche sussidio pubblico.
Ma quello che Marx
intende specificamente mettere a fuoco, con la sua teoria della
reificazione, sono gli effetti che questa situazione produce nella
coscienza degli individui. Poiché il processo nel quale essi si trovano
immersi non è stato programmato e deciso da nessuno, esso appare loro
come un dato di fatto, come una condizione quasi naturale. Ciò che in
tal modo viene occultato è che lo scambio di merci e il rapporto di
denaro sono soltanto una modalità possibile (storicamente divenuta e
modificabile) per soddisfare l’esigenza generale, propria di ogni
società umana, di assegnare il lavoro alle diverse branche di attività e
ripartire i prodotti tra i diversi individui. Sotto il dominio della
reificazione questa consapevolezza viene occultata, e quello che è
soltanto un particolare modo di organizzare i rapporti tra gli uomini
viene naturalizzato.
MA QUESTA SITUAZIONE genera anche un’altra
conseguenza, rilevante per la critica delle ideologie politiche. Nel
rapporto mercantile, dove ognuno appare come un libero
compratore-venditore (anche solo della sua forza-lavoro) la effettiva
dipendenza reciproca degli individui si presenta come una apparente
indipendenza: e come l’ideologia economica assolutizza il mercato, così
l’ideologia politica liberale assume gli individui come soggetti
indipendenti e irrelati, inconsapevoli del loro legame sociale e tesi
soltanto a massimizzare il loro interesse individuale.
Il
significato più importante della teoria marxiana della reificazione,
perciò, è che essa costituisce un tentativo di mostrare come le
dinamiche oggettive della società mercantile-capitalistica, oltre a
governare la vita delle persone, siano anche produttive di specifiche
forme di coscienza. Qui sta la sua peculiarità, e da questo dipende il
fascino che essa ha esercitato su alcuni dei più acuti filosofi marxisti
del ’900. Primo fra tutti il giovane Lukács che, nel suo grande testo
del 1923 Storia e coscienza di classe, centrava il suo ragionamento
proprio sulla reificazione e sulla possibilità che questa venisse
svelata e superata dalla coscienza di classe del proletariato. La storia
non gli ha dato ragione; anzi, la sconfitta della rivoluzione era in
sostanza già consumata quando Lukács la traduceva genialmente in
filosofia.
Ma il paradosso di un rapporto sociale che si trasforma
in una legge ferrea e ineluttabile è ancora tutto lì. E forse, nell’età
del neoliberismo, è divenuto ancora più acuto.