venerdì 2 marzo 2018

Repubblica 2.3.18
Destini incrociati
Lea Melandri e Rossana Rossanda
Il secolo lungo di Lea e Rossana

Donne novecentesche dal pensiero forte, da sempre impegnate (con modi e stili diversi) nella vita pubblica. Ma ancora adesso Melandri e Rossanda incarnano al meglio la via femminile alla riflessione
di Alberto Asor Rosa


Sono di recente apparsi due libri che pertengono strettamente e profondamente all’universo della cultura e della scrittura femminili.
Sono: Alfabeto d’origine, di Lea Melandri (Neri Pozza) e Questo corpo che mi abita, di Rossana Rossanda (Bollati Boringhieri).
Il fatto che il libro della Rossanda sia a cura della Melandri, la quale vi aggiunge anche una corposa postfazione, è sufficiente a indicare quale sia il rapporto fra le due opere.
Ho spesso contemplato nei decenni passati il femminismo e la cultura femminista come un fiume impetuoso che, nel suo corso rinnovatore, demoliva edifici vecchi di secoli e apriva nuove pianure e orizzonti. Ce n’è stata poi una variante, che io chiamerei dell’“attraversamento”: invece di andare dritta per la sua strada, allargava gli argini intorno a sé e, più o meno direttamente, ne modificava contorni e rapporti. Il maschile, invece di contemplare ammirato e un po’ spaventato, ne veniva chiamato in causa ed era costretto, volente e nolente, a farsene, appunto, “attraversare”, e perciò cambiare dall’interno, non solo, voglio dire, di luce riflessa. È quello che io chiamerei “attraversamento di genere”. Ce ne sono stati, è possibile che ce ne siano, anche di segno opposto?
Allargherei troppo, e troppo rischiosamente, il discorso, preferisco mantenermi all’essenziale.
L’essenziale è che, ammesso che il mio discorso in generale non sia del tutto opinabile, è fuori discussione per me che a percorrere la strada dell’“attraversamento” sia stata, — con altre, certo, ma lei in modo particolare, — Lea Melandri. In che senso?
Quando apparve uno dei suoi libri precedenti, Come nasce il sogno d’amore (1988), commentario interpretativo e giudicativo, ma anche creativo, dell’opera di un archetipo della cultura femminile italiana come Sibilla Aleramo, ne scrissi, recensendolo su queste colonne, che «il libro è una riflessione sul pensiero; ma è anche una riflessione sulla scrittura… al tempo stesso incorpora, invece di lasciarla fuori, l’esperienza del vissuto». E cioè: la scrittura di Lea, — e anche ciò che Lea cerca nelle scritture altrui, — è una scrittura retroflessa; guarda prevalentemente all’interno; ma, ciò facendo, riscopre all’interno ogni forma di vita possibile, compresa quella del corpo, che del pensiero è la scaturigine originaria e fondamentale, anche se spesso tutti, ma in particolare noi maschi, ce lo dimentichiamo.
Di Alfabeto d’origine il sottotitolo: Memoria del corpo e scrittura dell’esperienza,
recita le sue linee fondamentali di ricerca, distinte in un certo senso, e però al tempo stesso strettamente intrecciate fra loro. Attiro l’attenzione in particolare (ma non certo esclusivamente), sulla prima sezione dell’opera: La lingua ritrovata. Sono rimasto colpito dallo scavo che la Melandri compie sulle sue origini proletarie e contadine. Venire da lì ha significato per lei fare i conti costantemente con l’esercizio di conquista e di possesso di una lingua, che, pur facendosi di volta in volta intellettuale, non ha mai dimenticato le sue origini: e che perciò ha con il vissuto un rapporto tangibile ed evidente.
Penso che mettere questa chiave interpretativa alla base del codice saggistico di Lea Melandri significherebbe arrivarne più rapidamente al messaggio: un «salvifico bilinguismo», come lei stessa lo definisce altrove, destinato a mettere in rapporto profondo la lingua intima del passato e del pensiero e «le parole di fuori».
C’è un punto del libro che ci conduce direttamente nell’altra direzione da noi all’inizio preannunciata.
Ricorda Lea: «Rossana (ovviamente Rossanda) scrive di sé di essere stata “invasa” dalla politica. Io, potrei dire di aver precocemente sentito, in modo uguale e contrario, la forza invasiva del mondo interno…». La distinzione non potrebbe essere più chiara e fondamentale. E però… e però Melandri raccoglie in Questo corpo che mi abita sette saggi di Rossana Rossanda apparsi originariamente sulla rivista Lapis (1987-1994), del resto fondata e diretta dalla stessa Melandri. Sono scritti bellissimi. Naturalmente Rossanda non abiura in nessun punto la sua totalitaria scelta politica; ma, al tempo stesso, a guardar bene, disegna un percorso: dal primo saggio, Autodifesa di un io, politico che già nel titolo disegna con chiarezza la sua posizione, all’ultimo, Questo corpo che mi abita (che dà il titolo anche alla raccolta), dove l’incipiente vecchiezza le impone di vedere, nei segni dell’inevitabile degrado, quello che fino a quel momento si era preferito ignorare o accantonare per poter meglio guardare altrove. La «signora del secolo scorso», quando vede le sue «belle mani» farsi vizze e bitorzolute, scopre che c’è qualcosa che non si può addormentare né risvegliare. Il vivente vince sul vissuto.
E, forse?, viceversa. Melandri, nella sua postfazione, Le amicizie, un tranquillo deposito di sé (che del resto è anche essa una citazione rossandiana), commenta: «Non mi sorprende, rileggendola, oggi, deposta la conflittualità di allora, che fosse lei a mettere in evidenza, partendo dalla sua, biografia, quanto il “torbido immaginario trasmesso dalla storia”, l’“oscuramento” e la “proiezione fantasmatica”, venuti a coprire la realtà delle donne, non fossero estranei nemmeno alle storiche femministe». Vuol dire, o mi sbaglio, — che l’“attraversamento” è una pratica che nasce e si sviluppa anche fra due donne, modificando ambedue?