Repubblica 19.3.18
In cerca di un altrove
Un mondo in fuga sognando un futuro oltre guerre e fame
Afrin
presa dai turchi e Ghouta bombardata, il Congo diviso e il Venezuela in
crisi: milioni di disperati inseguono la salvezza fra sofferenze e
xenofobia
di Giampaolo Cadalanu
Arrancano nel
fango trascinando i bambini, o stringendoli al petto, carichi dei resti
di una vita, schiacciati all’ultimo momento in buste di plastica o
annodati dentro vecchie coperte. I profughi avanzano con il fiato corto e
lo sguardo fisso nel vuoto, ma trovano sempre una mano pronta a tirarli
su: sul cassone di un camion, sul predellino di un pullman già
stracarico, su auto private o su carretti di fortuna. È la scena che si
ripete da quando esiste la guerra: la paura e la solidarietà, la fuga e
l’abbraccio, da Mosul a Raqqa, da Tripoli ad Afrin, dalla venezuelana
Caracas a Bunia, nel Congo.
Ma lasciate le zone di guerra, quelle
mani pietose diventano più rare, quasi che i chilometri diluiscano la
percezione della sofferenza. Se il rumore delle bombe non si sente, si
indebolisce anche il richiamo cristiano: «Ero straniero e mi avete
accolto».
Chi fugge, però, non ha scelta, ripetono gli operatori
umanitari, a stimolare quel che resta di umanità anche nelle coscienze
più indurite.
Perché «nessuno va via di casa, a meno che casa non
siano le fauci di uno squalo», sintetizza con efficacia la scrittrice
britannica Warsan Shire.
Non hanno scelta i curdi di Afrin, almeno
250mila, scacciati dai bombardamenti dell’artiglieria e dall’arrivo
delle truppe di Erdogan. Non importa che siano miliziani delle Unità di
protezione popolare Ypg, collegati con il Pkk e dunque automaticamente
terroristi agli occhi di Ankara, anche se preziosi per combattere l’Isis
con il sostegno della coalizione a guida Usa, o che siano invece
semplici cittadini curdi siriani, colpevoli solo di sognare un futuro di
autonomia nel Rojava.
A togliere ogni illusione è bastato il
primo gesto dei soldati turchi entrati in città, abbattere la statua di
Kawa, il fabbro: nelle leggende curde era l’eroe che riuscì a
sconfiggere il re tiranno Dehak, che faceva divorare i giovani dai
serpenti, al punto che persino il sole si rifiutava di splendere sulla
Mesopotamia.
Allo stesso modo non hanno scelta i 65mila che
scappano dalla Ghouta, a poca distanza da Damasco, per scampare ai
bombardamenti dell’aviazione siriana e russa, alle rappresaglie dei
gruppi jihadisti, al massacro prossimo venturo con il gas nervino,
grottescamente già annunciato dalla stampa mediorientale in attesa
dell’inevitabile gioco delle responsabilità. Chi può mai restare nella
propria casa, quando cadono le bombe, o quando i bambini vengono
individuati come futuro pegno dell’indignazione internazionale, quale
che sia la mano che usa le armi proibite?
Alternative alla fuga
non ce ne sono nemmeno per i 60mila disperati della provincia congolese
di Ituri. L’eterno scontro fra comunità strette da bisogni in conflitto,
con gli allevatori itineranti Hema da una parte e gli agricoltori
stanziali Lendu dall’altra, ha lasciato spazio solo alla logica dei
machete, in uno schema osceno che riporta alla mente i massacri del
Ruanda nel 1994. E chi riesce, va via, al riparo, verso l’Uganda o verso
le città di confine, affrontando chilometri a piedi senza più nulla da
salvare.
Non hanno altre soluzioni, se non la partenza, anche i
venezuelani affamati: seicentomila hanno già varcato nei mesi scorsi il
confine con la Colombia, un altro milione e mezzo sono in arrivo, e a
Bogotà il presidente Juan Manuel Santos ha reagito schierando le truppe.
Altre migliaia continuano a riversarsi in Brasile, prima tappa la città
amazzonica di Boa Vista e poi chissà, sempre con in testa il sogno di
un visto per il Paese della ricchezza, quegli Stati Uniti ormai più
propensi a costruire muri che a coltivare la leggenda della nazione
aperta.
Le barriere si alzano, i predicatori della paura vincono
ovunque, in Usa ma anche sul Vecchio Continente: «Dal punto di vista
della protezione per i profughi c’è un grande passo indietro anche in
Europa, con la commissione che propone di rimodulare le regole
dell’accoglienza in senso più restrittivo, così da scoraggiare ogni
speranza di asilo», argomenta Christopher Hein, docente di Diritto delle
Migrazioni alla Luiss, sottolineando che con Schengen l’Ue si è chiusa,
e chiedere asilo entrando in modo regolare è quasi impossibile.
Recitava Robin Williams, il comico dallo sguardo triste: «La statua
della Libertà non dice più: datemi i vostri poveri, gli stanchi, le
masse pigiate. Ora ha una mazza da baseball e urla: vuoi un pezzo di
me?». E Donald Trump conferma il suo pessimismo, puntando il dito contro
i rifugiati siriani, che «potrebbero essere un cavallo di Troia», non
si sa bene di quali achei minacciosi. L’uomo della Casa Bianca non si
ricorda, o forse fa finta, di Abdulfattah Jandali, l’immigrato di Homs
che fu costretto a dare in adozione suo figlio, rimasto nella storia con
il cognome adottivo: si chiamava Steve Jobs, padre della Apple,
inventore e simbolo, più di qualsiasi altro imprenditore, del sogno
americano.