Il Fatto 19.3.18
L’ultima vittima della battaglia di Afrin in Siria: l’Occidente
Il
silenzio dei governi sull’avanzata della Turchia rivela l’imbarazzo:
nessuno vuole disturbare troppo Erdogan, temendo che un Paese membro
della Nato finisca tra le braccia di Putin. E degli eroici curdi
anti-Isis non importa più a nessuno
di Filippomaria Pontani
Da
Parigi a Venezia, da Brema a Creta, nel silenzio imbarazzato dei
governi (tranne quello francese), si moltiplicano i presidî di
solidarietà verso la città curda di Afrin, nel nordovest della Siria,
che salvo colpi di coda della guerriglia, pare aver capitolato ieri
mattina dopo settimane di attacchi e bombardamenti delle truppe turche,
determinate ad assumere il controllo di tutta la fascia di confine. I
morti (molti civili e bambini) sono centinaia, nel weekend è stato
colpito l’ospedale, l’acqua e i medicinali non arrivavano da giorni, gli
sfollati nell’ordine dei 150mila; si paventa il rischio di pulizia
etnica, per alterare la maggioranza curda della regione.
Nell’accordo
russo-turco-iraniano di Astana (marzo 2017) era previsto che la Turchia
installasse 12 posti di osservazione nella regione di Idlib, l’unica
ancora saldamente nelle mani dei ribelli anti-Assad, l’ex fronte
Al-Nusra, ora Hayat Tahrir al-Sham, insomma jihadisti sunniti. Ma è
l’enclave di Afrin, a Nord di Idlib lungo la frontiera, a detenere per i
Turchi il più alto valore strategico: rappresenta dal 2012 l’avamposto
occidentale della regione sotto controllo curdo che si estende da Kobane
a Raqqa fino ai confini dell’Iraq: tutte zone a suo tempo difese o
riconquistate con grandi sforzi dai combattenti dell’esercito curdo
(YPG) contro l’Isis. La Turchia ha interesse a demolire questa
continuità territoriale per scongiurare la creazione di uno stato curdo e
per avere voce in capitolo se mai partiranno i colloqui per una nuova
Siria: per questo, dal 20 gennaio scorso viola militarmente i confini
del Paese confinante, e sfida gli Stati Uniti che da anni appoggiano i
Curdi nel nord della Siria. Se i turchi, non paghi di Afrin, volessero
ora avanzare verso est fino a Manbij (dove stavano già per entrare un
anno fa, fermati dalla diplomazia), potrebbero cozzare contro duemila
marines; ma forse in realtà i marines – se questa è stata davvero la
garanzia strappata da Erdogan all’ormai ex segretario di Stato Rex
Tillerson il 20 febbraio ad Ankara – saranno spostati a est oltre
l’Eufrate. A Manbij, l’antica Bambyke, mille volte punto di frontiera e
di frizione tra Romani e Parti, tra Bizantini e Sasanidi, tra Crociati e
Arabi, l’Occidente pare votato alla sconfitta.
La Russia, storico
alleato di Assad, ha interesse a indebolire i ribelli contro il regime
(alleati di Erdogan), ma non a proteggere i curdi: potrebbe aver deciso
di lasciare Afrin ai Turchi in cambio di un loro disimpegno nella più
vitale regione di Idlib. Assad medesimo, che ha la testa alla sanguinosa
macelleria di Ghouta, ha spedito ad Afrin ben poche truppe, dando la
causa per persa.
Perché l’operazione turca contro Afrin, nota col
nome paradossale di “Ramoscello d’ulivo”, è importante? Perché al
tappeto stanno finendo per ora: la causa curda, ovvero non solo
centinaia di combattenti e civili vittime dell’attacco di Erdogan contro
i villaggi e le postazioni di quella che egli ritiene una fazione
terroristica, ma anche la pratica quasi utopica del governo partecipato,
federale ed egualitario del limitrofo Rojava curdo (da noi pare si sia
persa la memoria di quando l’Occidente tutto tifava per Kobane e le sue
donne combattenti contro l’Isis); quel che rimaneva della libertà di
espressione in Turchia (lo stato di guerra ha autorizzato il fermo di
decine di manifestanti, giornalisti e blogger); i rapporti Turchia-Usa,
due Paesi della Nato che dal 2013 – tra la svolta autoritaria di Gezi
Park e i sospetti di collusione con l’Isis – si sono ripetutamente
scontrati; i minimi standard umanitari (molte fonti denunciano l’uso di
gas tossici e bombardamenti su convogli umanitari o di sfollati); la
minima stabilità nella regione (vittima dell’ambiguità dei Russi, che
supportano Assad ma hanno stretto un’alleanza con il suo arcinemico
Erdogan; e vittima soprattutto della mancanza di strategia degli
Americani, che saltabeccano da una crisi all’altra senza essere in grado
di assumere un ruolo attivo, nel terrore di lasciare un alleato Nato
come la Turchia nelle braccia di Putin).
Al tappeto finisce anche
il passato di questo fazzoletto di terra: ieri ad Afrin è stata
abbattuta dai Turchi la statua di Kawa il fabbro, che nel 612 a.C.,
secondo la leggenda, liberò i Medi, che i Curdi riconoscono come
progenitori, assassinando il sanguinario re assiro Dehak. Nel 2016 i
bombardamenti russi contro i ribelli anti-Assad avevano semidistrutto la
chiesa di San Simeone lo Stilita (V secolo d.C., a 15 km da Afrin),
dove si conservava la colonna su cui il venerato asceta passò 30 anni di
meditazione e di preghiera. E nel gennaio 2018, proprio alla periferia
di Afrin le bombe turche hanno inflitto danni ferali (oltre il 60%)
all’antico tempio neo-ittita di Ain Dara, ricco di sfingi e leoni di
basalto, e probabilmente dedicato alla dea Ishtar: si pensa siano della
dea le 4 enormi e misteriose impronte di piedi umani scavate nel
pavimento in pietra del portico, in direzione della soglia di una cella
ormai del tutto demolita. Nell’interminabile mattatoio siriano sembra
che nemmeno gli dèi abbiano più un posto dove andare.