domenica 18 marzo 2018

Repubblica 18.3.18
La “demokratura” russa
Il nuovo Politbjuro del colonnello Vladimir
di Paolo Garimberti


Nella sua ossessiva opera di clonazione dell’Urss, che non ha mai nascosto di rimpiangere definendo la sua fine “una tragedia della Storia”, l’ex colonnello del Kgb Vladimir Putin ha creato un modello politico, che riproduce il sistema di gestione del potere del Pcus, il partito unico dei tempi sovietici. Le elezioni di oggi diventano così un referendum su quello che è stato definito il “putinismo”: un potere assoluto mascherato da democrazia pluralista, la “demokratura”, crasi tra democrazia e dittatura.
Il vincitore del voto di oggi è largamente scontato in mancanza di alternative credibili (l’unica con un seguito popolare, il blogger Aleksej Navalnyj è stato escluso per precedenti penali molto pretestuosi). La vera incertezza per l’esito del referendum riguarda l’astensione. Alle elezioni parlamentari del 2016 l’affluenza fu inferiore al 48 percento. Un’astensione così alta per il presidente sarebbe una bocciatura solenne, quasi un affronto. Tanto più che oggi vota una generazione che non ha conosciuto altro leader politico all’infuori di lui: i nati nel 2000, quando subentrò a Eltsin al Cremlino. L’Economist li ha chiamati “the Puteens”. È anche per prendere i loro voti (potenzialmente più attratti dall’astensionismo predicato su Internet da Navalnyj) che Putin si è separato dal suo partito di riferimento, Russia Unita, presentandosi da indipendente. Secondo i sondaggi più recenti soltanto il 19 percento dei russi crede nei partiti politici, mentre il 75 percento ha piena fiducia nel presidente.
Putin conta di trasformare i sondaggi in voti per legittimare il suo modello di potere e perpetuarlo oltre la sua sopravvivenza politica (se non sarà cambiata la costituzione questo sarà il suo ultimo mandato, fino al 2024). Per questo ha ricreato una sorta di Politbjuro. Ma ai tempi dell’Urss contavano l’esperienza nel partito e la clientela politica.
Quello di Putin è un assemblaggio di boiardi di Stato, dove conta esclusivamente l’appartenenza ai clan del potere (il più solido e rappresentato è quello dei “siloviki”, gli uomini della forza provenienti dai servizi o dalle forze armate, come il ministro della Difesa Sergej Shoigu, inseparabile compagno di Putin in partite di hockey su ghiaccio). Oppure l’amicizia personale e di affari con il presidente: come i fratelli Rotenberg, il violoncellista Roldugin, emerso nei Panama Papers come titolare di un patrimonio nei paradisi fiscali, o Igor Shuvalov, vice primo ministro, nome di spicco di quella Londongrad di cui si è parlato in questo giorni per la vicenda delle spie.
Il perno di questo sistema è Igor Sechin, ex capo di gabinetto di Putin e ora a capo di Rosneft, il gigante dell’energia che produce più barili di petrolio al giorno dell’intera produzione dell’Iraq ed è dunque un fondamentale asset economico per il Cremlino. È stato Sechin (il cui patrimonio personale in azioni Rosneft è valutato 83 milioni di dollari) a distruggere il potere degli oligarchi proliferati negli anni di Eltsin.
Come ha scritto un ex ambasciatore americano a Mosca è stato capace di «confiscare e amalgamare i loro asset in società di Stato controllate dai siloviki». È la sorte che è toccata a Mikhail Khodorkovskij (Yukos), Vladimir Yevtushenkov (Bashneft), petrolieri finiti agli arresti, le cui società sono state confiscate e poi acquistate proprio da Rosneft. L’ultimo oppositore eliminato con metodi giudiziari è stato il ministro dell’economia Aleksej Ulyukaev, finito in trappola per corruzione proprio nell’ufficio di Sechin.
Ma in un Paese immenso come la Russia il controllo del potere centrale non basta. Perciò lo zar ha avviato un gigantesco ricambio generazionale tra i governatori delle regioni e delle province: negli ultimi tre anni ne ha cambiati 36 su 85 e ben 20 hanno meno di cinquant’anni (tra cui l’ex guardia del corpo del presidente, Aleksej Dyumin, governatore di Tula). Oltre a essere giovani, i nuovi sono tutti figli di amici di Putin o di amici dei suoi amici più fidati.
Putin sa che non può essere presidente a vita, come Xi Jinping in Cina. Ma vuole continuare a controllare la Russia anche quando non sarà più al Cremlino. Per questo prova a legittimare il “putinismo” attraverso il voto popolare. E il successo di questo referendum (come ha capito Navalnyj che ha fatto campagna per l’astensione) non dipende da quanti voteranno per lui. Ma da quanti andranno a votare.