sabato 17 marzo 2018

Repubblica 17.3.18
Le parole della curatrice Carmen Giménez
Il filo nascosto di un genio guidato dall’istinto
di Chiara Gatti


Quale rapporto esiste fra disegno e scultura? Fra un segno tracciato sulla carta e la materia che prende corpo nell’aria? Molti artisti del Novecento, da Giacometti a Fontana, videro nella scultura la rappresentazione tridimensionale di un sistema di linee divenute solide. Gesti trasformati in volumi, ma dettati, prima ancora, da un’idea, un disegno mentale affidato a una pagina bianca e poi trasmigrato nello spazio. Anche per Picasso fu lo stesso. «Le scultura per lui era un disegno tratteggiato nel vuoto», spiega Carmen Giménez curatrice della mostra Picasso. Uno sguardo differente allestita al MASI di Lugano. E aggiunge. «La sua lezione è stata ereditata da Alexander Calder, Julio Gonzales, David Smith. Tutti affascinati da questa dialettica fra piano e volume». Tutti sedotti dal potere germinativo di una traccia nell’etere. Davanti a opere come il Violino del 1915 si capisce il passaggio, la progressiva materializzazione del segno. Nei disegni a carboncino si profilano infatti i contorni dell’oggetto. In una fase successiva, ritagli di carte di giornale danno spessore alla cassa armonica. Poi tocca a sottili strati di legno, usati come collage, aumentare la profondità, fino a sbozzare lo strumento che uscirà dal fondo con l’atto deciso della mani impegnate a piegare la lamiera tagliata, dipinta e annodata con il filo di ferro. In un campionario di supporti diversi, le origini dal disegno si leggono ancora nella grammatica di linee che tratteggiano le ombre come avevano già fatto sul foglio. I colori sono gli stessi di un ampio ciclo di composizioni, guazzi e chine, con la Fruttiera e mandolino su buffet in cui il cubismo gioca a scavare su carte piccolissime (10 centimetri per lato) un volume illusorio.
Picasso disegnatore e scultore trovò proprio nell’esercizio dello “scavo” il punto di contatto fra i due linguaggi. Il solco della matita aveva per lui lo stesso valore della pressione della mano che asportava la creta o della punta che incideva le lastre di rame o zinco delle sue incisioni, stampate su un torchio di fortuna nel vecchio studio di Montmartre, il famoso Bateau-Lavoir, da cui uscirono gli acrobati e i pagliacci del suo “periodo rosa”. Anche i ritratti dei figli Claude e Paloma li aveva disegnati sulla pietra litografica inzuppando le dita nell’inchiostro. Il segreto dello scultore restava quello di pensare con le dita, guardare al foglio come se fosse profondo, concepire ogni segno come fosse uno spigolo. «Picasso pittore è un’altra cosa. Un altro genio. Ma diverso nell’approccio. La pittura è più istintiva, libera dalla materia, ma non scava, non affonda». E non cuce neanche. Le sculture in ferro della fine degli anni Venti, le asticelle saldate, le costruzioni con le scatole di latta e i brandelli di cartone, partivano a loro volta da un’idea disegnata, da un volume che non c’era. La porteuse de jarre, la donna con la giara, del 1935, è un capolavoro di linearismo grafico, fatto con barrette di legno dipinte e inchiodate fra loro. Nello stesso periodo, Alberto Giacometti stava allungando come un ramo la sua prima Femme qui marche; anche lui, traghettandola dalla carta alla forza plastica della materia mineralizzata. Non stupisce, seguendo il filo logico di questa dipendenza della scultura dal segno primitivo che, negli anni Sessanta, Picasso sia giunto a usare fogli di lamiera prima disegnati e subito piegati come origami. Aveva accorciato i passaggi, sintetizzato il processo, utilizzando direttamente la superficie come uno spazio piano pronto a librarsi nella terza dimensione.