domenica 18 marzo 2018

Corriere La Lettura 18.3.18
L’inedito
Il dono di Prometeo non basta all’uomo. La potenza è veleno se manca la giustizia
Una riflessione di Mario Vegetti scomparso l’11 marzo sul mito greco che richiama il rapporto tra la scienza e la politica
di Mario Vegetti



Prometeo, figlio di Giapeto, eroe e semidio, discendeva dall’antica stirpe dei Titani. Verso di essa consumò il primo dei suoi molti tradimenti, dettati dal suo pensiero preveggente o tortuoso, come indica il nome (Prometeo, letteralmente, è colui che «comprende prima», pro-manthanei ). Nella memorabile battaglia fra i Titani e i «nuovi dèi» guidati da Zeus, che grazie alla vittoria conquistarono il regno dell’Olimpo, Prometeo abbandonò i suoi fratelli e si schierò al fianco di Zeus. Ma l’alleanza con Zeus — verso la cui usurpazione nutre comunque rancore («nuovi signori governano l’Olimpo/ e con nuove leggi, al di fuori del Giusto, Zeus governa/ e annienta ora le potenze di un tempo», Eschilo, Prometeo incatenato , 149-51) — non è davvero il punto d’arrivo del disegno di Prometeo. Egli puntava piuttosto sulla nuova alleanza con l’ultimo arrivato sulla scena del mondo, il genere umano. Ma per questo occorreva compiere due passi. Il primo, spezzare l’amicizia fra uomini e dèi, e metterli in conflitto fra loro; il secondo, fornire agli uomini la potenza necessaria per sostenere il conflitto.
Il primo passo venne compiuto a Mekone. C’era allora commensalità fra uomini e dèi, che sedevano alla stessa tavola. Prometeo, maestro del banchetto, divise in due otri le parti di un grande bue. Nel primo, formato da una pelle nascosta nel ventre del bue, pose le parti migliori; nel secondo più attraente, di «bianco grasso», soltanto le ossa. Sfrontatamente, propose a Zeus la scelta fra i due otri dall’aspetto così ineguale. Che avesse fiutato o no l’inganno, Zeus finì per scegliere le ossa; abbandonò indignato il banchetto, e da allora finirono commensalità e amicizia fra uomini e dèi (Esiodo, Teogonia , 535-560).
Si trattava ora di fornire la potenza necessaria a far fronte alla loro solitudine. Prometeo non poteva che cominciare rubando a Zeus il fuoco, che egli nascondeva presso di sé, e donarlo agli uomini ai quali Zeus lo negava: il fuoco, padre della metallurgia e condizione per qualsiasi tecnica. Vedendo «fra gli uomini il bagliore lungisplendente del fuoco» ( Esiodo, Teogonia , 569), Zeus fu di nuovo preda dell’ira, e questa volta le sue punizioni non si fecero attendere.
Prometeo fu scortato fino al Caucaso dai due fedeli aiutanti di Zeus, Kratos e Bia, Forza e Violenza, e lì Efesto lo incatenò saldamente a una rupe: il suo supplizio consisteva in questo, che ogni giorno un’aquila gli rodeva il fegato, destinato ogni notte a ricrescere per fornire nuovo alimento al rapace. Quanto agli uomini, un beffardo Zeus ordinò a Efesto di forgiare una «bella e amabile figura di vergine», ad Atena di insegnarle l’arte della tessitura, ad Afrodite di effonderle «grazia intorno alla fronte e desiderio tremendo»; finalmente, una volta riccamente adornata da Atena, venne inviata presso gli uomini Pandora, madre di ogni male (Esiodo, Opere e giorni , 60-95): «Di lei infatti è la stirpe nefasta e la razza delle donne,/ che, sciagura grande per i mortali, fra gli uomini hanno dimora» (Esiodo, Teogonia , 591-2).
Ma lasciamo gli uomini intenti per ora a rallegrarsi per il bel dono di Zeus, e torniamo sulle vette del Caucaso. Qui il vecchio Titano incatenato non cessa di rievocare i suoi doni al genere umano, seguiti a quello basilare del fuoco. «Prima, avevano occhi e non vedevano, orecchie e non sentivano, ma come le immagini dei sogni vivevano confusamente una vita lunga, inconsapevole. Non sapevano costruire edifici, case all’aperto, non sapevano lavorare il legno: abitavano sottoterra, come brulicanti formiche, in caverne profonde, senza la luce del sole... Facevano tutto senza coscienza finché insegnai loro a distinguere il sorgere e il tramontare degli astri, e poi il numero , principio di ogni sapere, per loro inventai, e le lettere e la scrittura , memoria di tutto, madre feconda della poesia... Io e nessun altro inventai la nave, il cocchio marino dalle ali di lino... Se uno si ammalava non aveva alcun rimedio, né cibo, né unguento o pozione. Si consumavano così, senza farmaci, finché io non insegnai loro a miscelare medicamenti curativi per scacciare tutte le malattie». Prometeo insegna poi agli uomini l’arte della divinazione, e la scoperta dei metalli nascosti nelle viscere della terra (Eschilo, Prometeo incatenato , 447-506).
Nelle sue parole, nel suo modo di concepire il ruolo delle tecniche, il programma di Prometeo sembra così giunto a compimento: egli ha concesso agli uomini tutta la potenza necessaria a misurarsi con gli dèi. Padrone delle tecniche e dei grandi saperi del numero, della scrittura, degli astri: questa è dunque l’immagine dell’«uomo prometeico» visto con gli occhi del suo creatore.
Più inquietante è lo sguardo «umano», in qualche misura esterno, sullo stesso «uomo prometeico», quale ci viene proposto dal Coro della tragedia Antigone di Sofocle. Una sorta di sforzo di autoconsapevolezza, dunque: che cosa siamo diventati? (qui l’uomo appare ormai autodidatta, benché non sia lontana la lezione di Prometeo).
L’uomo si avverte come «terribile», anzi come la cosa più terribile ( deinos : l’aggettivo vale però anche «abile», potente). Infatti è capace di attraversare il mare, di lavorare la terra, di catturare gli animali selvatici e di addomesticare quelli da lavoro. «Capisce, inventa, ha sulle arti dominio oltre l’attesa»: lo sguardo di Prometeo non si sarebbe spinto oltre questa temibile immagine dell’uomo tecnologico. Quello «umano» del coro sofocleo invece ne coglie una linea di frattura, segno di un’incertezza o un cedimento possibili. Aggiunge infatti: «Ora al bene, ora al male serpeggiando volge. Se del Paese le leggi applica e la giustizia degli dèi... in alto sarà nella patria» (Sofocle, Antigone , 331-371). Bene, male, leggi, giustizia: si profila qui una dimensione del tutto estranea all’uomo prometeico, che il vecchio Titano non aveva certamente attrezzato a fronteggiarla.
Una chiara traduzione in termini concettuali di tutto questo è nel cosiddetto «mito di Protagora», che il sofista racconta nel dialogo di Platone a lui intitolato, e che molto probabilmente si ispira a tesi dello stesso sofista. Lo scenario è un poco cambiato rispetto a quello che ci è familiare: Prometeo non è ancora sul Caucaso e resta amico degli uomini, verso i quali del resto lo stesso Zeus ora si dimostra benevolo. Non sono però cambiati i ruoli principali.
Si tratta di distribuire le dotazioni necessarie alla sopravvivenza fra i diversi animali. Lo sbadato Epimeteo, fratello di Prometeo, assegna a ogni animale mezzi di offesa e di difesa, dimenticando però l’uomo, che rimane così nuda vittima delle fiere. Prometeo decide allora di intervenire a difesa del genere umano, e lo fa come gli è consueto: «Ruba a Efesto e Atena la loro sapienza tecnica insieme col fuoco... e la dona all’uomo. In tal modo, l’uomo ebbe la sapienza tecnica necessaria per la vita, ma non ebbe la sapienza politica, perché questa si trovava presso Zeus». Ma è qui che i doni di Prometeo rivelano tutta la loro insufficienza, che già era emersa in Sofocle — e la manifestano anche in termini di pura potenza. Per far fronte alle fiere, gli uomini cercano di riunirsi fondando città; «ma, allorché si raccoglievano insieme, si recavano ingiustizia a vicenda, perché non possedevano l’arte politica, sicché, disperdendosi, nuovamente perivano» (Platone, Protagora , 321d-322b).
Per evitare la strage, Zeus interviene ordinando a Ermes di distribuire a tutti gli uomini le doti del rispetto reciproco e della giustizia ( aidos e dike ), «principi ordinatori di città e vincoli produttori di amicizia» (Platone, Protagora , 322c).
L’uomo prometeico, forte solo del controllo delle tecniche, non può vivere in una comunità politica: per questo, occorrono inoltre la condivisione di un orizzonte di valori etico-politici, la giustizia, la legge, l’educazione collettiva. Propriamente parlando, non può neppure combattere, perché «l’arte della guerra è parte di quella politica» (Platone, Protagora , 522b), che egli non possiede, perché essa è inaccessibile a Prometeo. Si è spesso interpretato il mito di Protagora come risposta alle antropologie tecniciste dell’ homo oeconomicus alla maniera di Democrito, dalle quali sembrava risultare che la collaborazione fra le diverse competenze tecniche fosse in grado di formare e guidare la città. Senza dubbio, il mito si oppone inoltre alla pressione crescente di un ceto di technitai che si candidano a governare la città, tendendo a marginalizzare la dimensione politica e i suoi specialisti come i sofisti. Non c’è polis , invece, senza un sistema di norme di giustizia condivise, senza le istanze decisionali proprie della politica, infine senza un’educazione pubblica intesa a consolidare i vincoli comunitari.
Ma torniamo nel Caucaso, dal vecchio Titano, certo inconsapevole dei limiti etico-politici dei doni tecnologici che aveva elargito al genere umano: l’impotenza della forza senza politica, l’incapacità di integrare efficacia e moralità. La sua pena non sarebbe durata indefinitamente (a differenza di quella femminile comminata agli uomini). Prometeo era infatti depositario di un formidabile segreto, da cui dipendeva la sopravvivenza stessa del regno di Zeus — che si vide costretto a liberarlo, nel timore che il Titano lo rivelasse a orecchie ostili, e al contrario nella speranza di venirne a conoscenza.
Noi non possiamo conoscere il segreto di Prometeo, sul quale sono fiorite molte ipotesi. A me piacerebbe pensare che il vero, devastante, segreto di Prometeo fosse quello rivelato da Socrate — il Socrate di Aristofane, beninteso, non quello benpensante di Senofonte e di Platone — nella commedia Le nuvole :
«Strepsiade: ma per voi, in nome della Terra, Zeus olimpio non è dio?
Socrate: quale Zeus? Non dire sciocchezze. Zeus non esiste».
Certo, il «segreto» più efficace per por fine al potere di Zeus.

Il Fatto 18.3.18
Rodotà, l’eterna giovinezza trovata nella Costituzione
1933-2017 - A Torino si ricorda il grande giurista: per lui la Carta non era una dichiarazione di principi, ma un’agenda da applicare
Rodotà, l’eterna giovinezza trovata nella Costituzione
di Salvatore Settis


Stefano Rodotà era così popolare perché sapeva parlare con una palpabile, contagiosa passione civile. Fra tanti, un esempio. Commentando l’art. 3 della Costituzione, egli poneva a contrasto il primo e il secondo comma, ravvisandovi due componenti concettualmente e storicamente distinte. Nel primo comma (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”), riconosceva la costruzione di una soggettività astratta, che assevera ma non garantisce l’uguaglianza fra i cittadini.
Nel secondo comma (dove si assegna alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”) egli rintracciava, attraverso la nozione di persona, l’irruzione sulla scena di una prepotente corporeità, coi suoi desideri e i suoi bisogni, che trascina con sé una forte tensione verso l’uguaglianza, che la Costituzione indica come imprescindibile obiettivo dell’azione pubblica. Insomma, il primo comma dell’art. 3 configura una sorta di uguaglianza formale dei cittadini, mentre il secondo comma prende atto della loro diseguaglianza materiale e prescrive di rimuoverne le cause, ostacoli a una vera uguaglianza.
Perché questa linea interpretativa non apparisse troppo teorica a un pubblico digiuno di diritto, Rodotà adottava un’argomentazione narrativa, proiettando l’art. 3 all’indietro, su un dato di immediata esperienza comune, l’estensione del diritto di voto. Riservato all’inizio a una porzione ristretta della popolazione maschile, sulla base dell’istruzione e del censo, esso raggiunse tutti i cittadini (in particolare le donne) solo nel 1946. Nel 1861 votò il 2 per cento della popolazione italiana, nel 1946 l’89 per cento: un dato statistico che ci tocca da vicino.
La restrizione del diritto di voto creava una “cittadinanza censitaria”, contro lo spirito della democrazia; ma gli “ostacoli di ordine economico e sociale” venivano da lui additati come strumenti di una risorgenza della “cittadinanza censitaria”, possibile anche oggi date le crescenti ineguaglianze, le nuove povertà, le discriminazioni sociali mascherate da intolleranza religiosa o razziale. Per converso la rimozione di tali ostacoli concorre a caratterizzare la cittadinanza secondo i principi dell’art. 3, inclusa l’ “effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Con trascinante convinzione e lucida onestà Rodotà ci spingeva a leggere nella Costituzione non un compromesso fra forze politiche, non il disegno di un futuro utopico, non una dichiarazione di principi senza immediata precettività. Ma come un’agenda di cose da fare, che tali in gran parte restano ancora oggi. Perciò egli contrastò duramente ogni interpretazione riduttiva del diritto al lavoro che, secondo l’art. 4 della Costituzione, la Repubblica “riconosce a tutti i cittadini”. Infatti, se l’art. 1 definisce l’Italia come “una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, ogni menzione del lavoro nella Costituzione deve intendersi come costitutiva della democrazia e della cittadinanza, anzi della Repubblica. Lettura indubitabile, ma di cui i nostri governanti paiono essere inconsapevoli.
Evocando la propria giovinezza in una bella intervista di Antonio Gnoli, Rodotà racconta di aver studiato Giurisprudenza perché “attratto da quell’imponente e complicato edificio che è il diritto. (…) Senza la forza il diritto è inerme. Senza giustizia è cieco. Mi affascinava un diritto che fosse aperto alla società”. Perciò egli parlò sempre da giurista, ma anche da cittadino fra cittadini. Egli guardava sempre, come un generale dall’alto di una collina, la forma cangiante della società e il mutevole atteggiarsi del diritto. Sapeva che né l’una né l’altro possono essere ibernati in configurazioni immutabili. Pensava al diritto come il prodotto di momenti storici, economici, sociali, ma anche come una forza concettuale che plasma la società recependone tendenze, codificandone istituti, indirizzandone sviluppi. E pensava alla società come il prodotto di un perpetuo dialogo o conflitto fra il tessuto delle norme e l’esercito dei bisogni, dei desideri, delle aspirazioni, che devono esser calate entro le maglie del diritto, per poi fatalmente ribollire di nuovo. Fu in questo incrocio fra società e diritto che Rodotà vide la missione storica della Costituzione, evidenziandone la progettualità lungimirante, e per converso la sciagura dei molteplici tradimenti e dei ricorrenti oblii a cui va soggetto il testo della Carta, che pure ancor oggi si presterebbe a fungere da manifesto per il destino delle generazioni future.
In questa perpetua giovinezza della Costituzione si rispecchiava la perpetua giovinezza di Stefano Rodotà: nel limpido sguardo che egli si volgeva intorno quando, non senza un commovente imbarazzo, si vedeva candidato alla Presidenza della Repubblica, o quando combatteva con energia per il No al referendum. In quello sguardo c’era il desiderio di capire a fondo come la forma della società e l’evoluzione del diritto potessero, messi a dialogo sulla base della Carta fondamentale, costruire per le generazioni future un’Italia con un più alto senso della cittadinanza, dell’uguaglianza, della democrazia.

Il Fatto 18.3.18
Moro fu ucciso dalle Br, punto. Ma non basta
di Antonio Padellaro


Devo fare una pausa nel mio lavoro di ricerca, sono soffocato dal disgusto per la tenacia con cui la destra, quella vera, che in Italia non si contava e non si è mai contata alle elezioni, ha perseguitato con il suo fango e con il suo immaginario mortuario il politico Aldo Moro
Marco Damilano: “Un atomo di verità”. Feltrinelli.
Obiettivo: la resa incondizionata di Morucci e Faranda. Si sarebbero in qualche modo consegnati, offrendo un elenco di novantaquattro brigatisti da “bruciare” e la disponibilità a concordare una versione dei fatti gradita agli apparati istituzionali, in cambio dei benefici previsti dalla legislazione premiale per i terroristi “dissociati”. E così avvenne.
Giovanni Fasanella: “Il puzzle Moro”. Chiarelettere.
A rapire e a uccidere Aldo Moro furono le Brigate Rosse, punto. Ma non basta. Poiché esiste un prima, un durante e un dopo la strage che il 16 marzo di quarant’anni fa ha cambiato la storia italiana e la vita della nazione. Dedichiamo perciò queste poche righe ai libri (appena pubblicati) di due giornalisti che, da angolazioni diverse, hanno pazientemente scavato nelle macerie della memoria perduta per poi ricostruire dalle fondamenta la genesi di un delitto politico che per la sua forza dirompente può essere paragonato all’assassinio di John Kennedy. Addentrarsi nelle pagine scritte dal direttore dell’“Espresso” è come percorrere le stanze di un appartamento seguendo una sottile scia di sangue. Ho sostato a lungo nella sala dell’odio politico e mi sono segnato questa frase dell’ex brigatista Mario Moretti: “Stavamo processando Moro, santo cielo, con gli argomenti che erano stati di tutta la sinistra ma la destra è stata la beneficiaria dell’eliminazione di Moro. La destra che lo odiava, quando è venuto meno non ha più trovato ostacoli”. È un’ammissione cruciale che sembra confermare l’impressione del terrorismo “utile idiota” di forze molto più potenti. E ciò, senza stupidi complottismi o inutili dietrologie ma con la semplice verità dei fatti, ci aiuta a comprendere come quell’Italia orrenda non potesse in nessun modo accettare che personaggi come Moro e Pier Paolo Pasolini (massacrato tre anni prima) liberassero con le armi della politica e della cultura, il nostro Paese dalla cappa bigotta, reazionaria, ottusa, servile che lo soffocava. È quello che Umberto Eco ha definito fascismo eterno. È quello che ancora oggi continua ad avvelenare i pozzi, con altri mezzi e altre vesti. Le loro menti dovevano smettere di funzionare, proprio come Mussolini disse di Antonio Gramsci. Un odio che non avendo potuto “uccidere” l’energia creatrice di Pasolini, accusandolo delle peggiori perversioni, alla fine lo tolse fisicamente di mezzo. Un odio che aveva aggredito Moro fin dal luglio del 1960 quando, ricorda Damilano, “da segretario della Dc aveva bloccato il tentativo autoritario di Fernando Tambroni sostenuto dal Movimento sociale”. E, “quando nel 1964 cadde il primo governo Moro, nell’estate in cui l’Italia rischiò un colpo di Stato militare, “il Tempo” di Renato Angiolillo lo salutò così: “Con la tecnica molle, scivolosa e viscida di una piovra per quattro anni egli è andato avanti flaccido e cascante, come un piccolo visir, cupo, funereo, spargendo il suo cammino di cadaveri e rovine…”. Che poi all’Italia di quegli anni, fondamentale cerniera tra l’Est sovietico e l’Ovest a guida Usa, non fosse concesso di svolgere un ruolo autonomo nel Mediterraneo e in Medio Oriente, che il pericolo da eliminare fosse il ruolo e l’influenza di Moro e Berlinguer sulla politica estera di Roma emerge con chiarezza nel libro di Fasanella e dai documenti inglesi e americani desecretati. Stretto in questa morsa micidiale, il leader democristiano aveva un destino segnato. Se quindi la domanda è perché lo hanno ucciso la risposta sarà: perché non potevano farlo vivere. Le Br arrivano dopo.

Corriere 18.3.18
Balzerani, le frasi che indignano. Offese choc alle vittime delle Br
Il figlio di Ricci: «Ricordare i morti un mestiere? Lei è un’assassina privilegiata»
di Fabrizio Caccia


ROMA Ora ci sono queste frasi, queste nuove frasi di Barbara Balzerani, che lo tormentano. Pronunciate giusto venerdì scorso, 16 marzo 2018, 40 anni dopo la strage di via Fani. «Davvero ha detto certe cose?», non si capacita Giovanni Ricci, il figlio dell’autista di Aldo Moro, l’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, uno dei cinque martiri della scorta.
«C’è una figura, la vittima, che è diventato un mestiere — ha detto Balzerani —. Questa figura stramba per cui la vittima ha il monopolio della parola... Io non dico che non abbiano diritto a dire la loro, figuriamoci. Ma non ce l’hai solo te il diritto, non è che la storia la puoi fare solo te...». E poi, agghiacciante: «Non è che se vai a finire sotto un’auto, sei una vittima della strada per tutta la vita, lo sei nel tempo che ti aggiustano il femore...». Un femore? Così adesso Giovanni Ricci riesce a stento a trattenere la rabbia: «A mio padre i brigatisti gli hanno sparato sette colpi alla testa...». Il suo è uno sfogo amarissimo: «Ma come fa la Balzerani a dire che quello della vittima sarebbe un mestiere! E lei, che è un’irriducibile, che non s’è mai pentita, che l’arrestarono nell’85 e dopo vent’anni di carcere, nel 2006, era già fuori con la libertà condizionale? Lei cos’è allora? Una privilegiata? Già, un’assassina privilegiata. Ecco cos’è. E tale rimarrà per sempre».
Venerdì sera, l’ex Primula Rossa delle Brigate Rosse, 69 anni, mai pentita né dissociata — che in via Fani c’era e progettò tutto insieme agli altri, anche se non sparò — è andata a presentare il suo ultimo libro, «L’ho sempre saputo», al centro sociale Cpa di Firenze, elogiando la resistenza di «valsusini» e «mapuche». In sala, un bandierone rosso a fare da sfondo, con la falce e martello e la scritta «viva Lenin». Quando è finita la presentazione, durata un’ora e mezza e senza mai un riferimento a via Fani, la Balzerani è stata avvicinata dai cronisti e qualcuno ha accennato alle parole durissime del capo della polizia, Franco Gabrielli: «Riproporre oggi i brigatisti in televisione è un oltraggio ai morti...». Lei allora ha risposto in quel modo, scatenando così un nuovo putiferio dopo quello prodotto già due mesi fa con un post su Facebook: «Chi mi ospita oltre confine per i fasti del 40ennale?».
Maria Fida Moro, la figlia primogenita di Aldo Moro, le replicò subito con ira: «Che palle il quarantennale lo dico io! Che non l’ho provocato e che anzi l’ho subìto». Ieri, poi, ha aggiunto: «Io sono quella del perdono nei vostri confronti, che mi è costato un baule di minacce. Ma se c’è qualcuno che ha trasformato in mestiere una morte totalmente ingiusta siete voi! Negli ultimi 40 anni mentre io mi arrampicavo sugli specchi per mantenere mio figlio, voi ve la siete “goduta” senza fatica, senza dolore e senza merito. È paradossale che viviate da allora a braccetto con il sistema che dicevate di voler combattere». Anche Luca Moro, nipote dello statista, risponde alla Balzerani: «Noi non abbiamo scelto di essere vittime. Voi piuttosto avete scelto di fare i brigatisti e di piombare nelle nostre vite distruggendole. Negli ultimi 40 anni avete avuto lo spazio, la voce e la visibilità. Cose che a noi sono state negate».
Potito Perruggini Ciotta, nipote del brigadiere Giuseppe Ciotta, ucciso il 12 marzo 1977 a 29 anni a Torino da un commando di Prima Linea, è indignatissimo: «La Balzerani, se proprio vuol parlare, dovrebbe offrire a noi parenti un briciolo di verità in più». E reagisce con rabbia pure Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della strage mafiosa di via dei Georgofili a Firenze (26-27 maggio 1993): «Taccia la Balzerani. E a quelli come lei circoli e tv smettano di dare microfoni in mano. È l’ora di avere più rispetto».

il manifesto 18.3.18
Possibile, Pippo Civati ratifica il disastro e si dimette
Bologna. Stati generali del movimento che lega il proprio destino alla sopravvivenza di Leu
di Giovanni Stinco


BOLOGNA Una tragedia, un disastro, una sconfitta prima di tutto culturale. Pippo Civati non si è tirato indietro per raccontare il tracollo della sinistra e di Liberi e Uguali alle ultime politiche. Perché prima che una batosta alle urne, ha spiegato il leader di Possibile, in Italia c’è stata una «trasformazione antropologica della società che ha travolto la politica, e paradossalmente quelli che più sono stati colpiti sono stati coloro che hanno tentato di fare una campagna diversa».
AGLI STATI GENERALI di Possibile, movimento ieri riunito a Bologna con delegati arrivati da tutti Italia, Civati ha annunciato le proprie dimissioni da segretario, e lo ha fatto affrontando di petto la questione delle responsabilità. «Avevamo tante cose da dire, ma non una storia da raccontare. Non ho saputo dare una speranza agli esclusi e agli emarginati, è stato il mio errore più grave e per questo oggi mi dimetto senza problemi e senza angosce».
Non è però il caso di parlare di ripartenza della sinistra, anzi. «Qui bisogna azzerare tutto, immaginare una strategia per il futuro, un progetto Genesi». E il riferimento «non è Papa Francesco», ma ad un nuovo inizio a cui, teoricamente, potrebbe partecipare in futuro anche un Pd «capace di mettersi davvero in discussione». Prospettiva lontana, perché «per il momento non sta avvenendo nulla di tutto questo».
I problemi immediati di Possibile sono piuttosto legati alla sopravvivenza di Leu, che il giorno dopo le elezioni doveva – nelle promesse – trasformarsi in un partito e che invece ora rischia di andare in frantumi, con Mdp da un lato e l’accoppiata Possibile-Sinistra Italiana dall’altro. Per Civati errore è stato l’appoggio alla candidatura di Nicola Zingaretti in Lazio, «perché siamo passati per gli amici del Pd». Ed è un errore «grave» anche il fatto che Mdp sembri intenzionato in Friuli a sostenere un candidato renziano alla guida della Regione.
POI C’È STATA l’analisi della campagna elettorale, «e lì abbiamo visto tutti gli errori possibili, tutti i paletti dello slalom sono stati presi e inforcati uno ad uno». A cominciare dalla candidature dove, con l’eccezione di Bologna, «ha prevalso il sistema delle quote tradendo ancora prima di iniziare la legislatura lo spirito del nostro programma».
Un disastro che ha portato ad un risultato pessimo: nella nuova legislatura Possibile sarà rappresentato da un solo deputato, il genovese Luca Pastorino. Male, anzi malissimo per un movimento nato per diventare «luogo di incontro per la sinistra diffusa, fuori e dentro dai partiti». Nelle prossime settimane Possibile dovrà eleggere un nuovo segretario, e Civati, rimasto fuori dal parlamento, non sarà della partita.
Per farlo capire ha citato il portale satirico Lercio, che lo aveva preso di mira nei giorni scorsi. «È vero quel che dicono, ho inviato un cv a Foodora per lavorare come fattorino, ma mi dicono che non c’è più posto». E ora? «Ora bisogna riflettere assieme, perché si rischia di rivotare tra pochi mesi, e io non avrò niente da mettermi».

Il Fatto 18.3.18
2018, ritorno al Pd: in molti si iscrivono. “Vogliamo contare”
Dopo la batosta elettorale torna la voglia di partecipazione un po’ ovunque in Italia: “Il partito ritrovi la sua identità”
di Luca De Carolis


Vanno a iscriversi in tanti. Ce l’hanno con Matteo Renzi, ma non solo e non sempre. Non hanno voglia di primarie, “perché ora sarebbero solo una conta”. E la gran parte, di alleanze con i 5Stelle, non vuole proprio saperne. Voci e umori dal popolo del Pd dopo la disfatta del 4 marzo.
Militanti, eletti e segretari di circolo, che discutono nelle assemblee e si dicono cose che non si dicevano da tanto tempo. “Stanno iscrivendosi in tanti, ma in fondo non è imprevisto, dopo le sconfitte la nostra gente reagisce sempre”, assicura Giulia Tempesta, 30 anni, consigliera comunale a Roma, vicina a Matteo Orfini. E racconta le assemblee in vari circoli della città, dove il Pd ha preso poco più del 22 per cento: riunioni che si snodano dal circolo Mazzini nel quartiere borghese Prati a quelli periferici. “Alcuni dei nuovi hanno accusato il partito di aver scambiato i diritti sociali con i diritti civili, e mi ha colpito. E tanti dicono che non abbiamo saputo leggere la rabbia di chi è in difficoltà”.
Va bene, ma Renzi? “Non è il punto centrale” giura la consigliera, che su due punti è dritta: “La gente non ha fretta di fare il congresso, vuole prima una discussione approfondita. E tutti sono contrari a un accordo con il M5S”. Riccardo Corbucci, coordinatore della segreteria romana, descrive scene simili: “Renzi viene criticato ma non quanto gli altri segretari dopo le disfatte, non viene massacrato”. Risponde mentre torna da un’assemblea nella zona del Torrino, nel collegio uninominale romano che, incredibile, è quello più a Sud dove ha vinto il Pd. “C’erano circa cento persone, e molti chiedevano di ridare un’identità al partito”. E la invocano anche a Livorno, ex roccaforte rossa inviolabile, dal giugno 2014 governata dal grillino Filippo Nogarin.
Il segretario cittadino dei dem è Federico Bellandi, 40 anni, che si definisce “vicino alle posizioni di Maurizio Martina”, il reggente del Pd. Anche lui parla di nuovi iscritti, “tra i 20 e i 30, età media 40 anni”, e di un’assemblea molto partecipata mercoledì scorso: “Il tema di partenza è che nei quartieri popolari cresce la Lega, nel 2013 aveva preso 400 voti e questa volta ne ha raccolti 13mila. Mentre il M5S non avanza affatto”. Ma discutere con i 5 Stelle per il governo? “La maggior parte degli iscritti è d’accordo con la direzione, si sta all’opposizione. Ora però non è tempo di primarie, di conte, gli iscritti vogliono discutere”. Innanzitutto dei numeri, perché il Pd a Livorno ha preso il 28,5 per cento, a fronte del 39 del 2013. E Bellandi riconosce: “Sulla lettura delle cause influisce l’area di appartenenza di ognuno. Ma anche gli orlandiani non hanno fatto di Renzi il capro espiatorio: sono stati duri, ma con equilibrio. Però se devo dire la mia, uno degli errori è stata la narrazione troppo ottimistica dei risultati del governo”. Tanti sorrisi, e fuori la realtà. Quella che morde, come ricorda Mary Gagliardi, segretario del circolo 5 di Torino, nel quartiere operaio de Le Vallette: “Non siamo più entrati nelle fabbriche, e in questa campagna, quando siamo andati a fare volantinaggio davanti alle aziende ce ne siamo accorti…”. Gagliardi, che si descrive come “renziana della prima ora”, ammette: “Molti sono andati a votare contro il segretario, per strada bastava nominarlo per prendersi insulti”. E parla di una campagna elettorale sbagliata: “Gli altri promettevano il reddito di cittadinanza o il taglio delle tasse, mentre noi siamo stati fin troppo seri. Rivendicare i diritti civili non basta: qui le persone si lamentano per i roghi nel campo rom. Il Pd non parla dei problemi quotidiani”. Anche se a Torino ha preso il 26 per cento (“abbiamo recuperato, il M5S da noi è in flessione”). Ma ora, primarie? “Assolutamente sì, noi le vogliamo, anche per la segreteria regionale”.
Non ne ha invece voglia Michele Grimaldi, 36 anni, ex segretario nazionale dei Giovani democratici, attuale segretario del circolo Pd di Scafati: un comune di oltre 50mila abitanti vicino Salerno, sciolto per mafia nel gennaio 2017. Martedì erano oltre 200 in assemblea, “e alle 23 passate eravamo ancora in cento”, racconta. “In tanti sono incazzati, si lamentano ‘perché a Roma il partito litiga sulla nostra pelle’, ma è comprensibile” dice Grimaldi, che nelle primarie del 2013 aveva votato per Gianni Cuperlo e poi ha sostenuto Renzi. E ora spiega: “Abbiamo 5 nuovi iscritti, due ex Pci e tre ragazzi, tra cui uno che ha votato per Potere al Popolo”. E dei 5Stelle loro cosa pensano? “Il 90 per cento degli iscritti l’accordo non lo vuole, ma per motivi politici: cosa pensa il M5S di vaccini, dell’Europa e dell’antifascismo? Però c’è anche qualcuno, soprattutto tra gli ex comunisti, che spinge per un confronto con il Movimento”. Obiezione: il M5S ha preso molti voti da sinistra. Non pesa? Grimaldi sorride: “Se alcuni dei nostri votano una cosa diversa, tu non devi per forza diventare quella cosa. Ed è l’errore che ha commesso Renzi, inseguendo i grillini sul loro terreno: penso ai manifesti sulla riforma costituzionale che propagandavano il taglio dei parlamentari”. Era un anno e mezzo fa, prima che il segretario crollasse. Portandosi dietro milioni di voti.

Il Fatto 18.3.18
Cuperlo, Ceccanti e gli altri: “Su M5S parola agli iscritti”
Democrazia dem - Dirigenti e attivisti chiedono di far votare i tesserati su eventuali accordi con i 5Stelle: “Come in Germania”
di Tommaso Rodano


La proposta di consultare gli iscritti su un eventuale accordo di governo con i 5 Stelle comincia a circolare nel Partito democratico, tra dirigenti e tesserati. L’ultimo a dichiararsi favorevole è Gianni Cuperlo: “L’idea di coinvolgere gli iscritti del Pd su qualunque decisione dovesse essere assunta la considero assolutamente giusta e molto convincente per tante ragioni”, ha detto il parlamentare triestino a margine di un convegno della sinistra dem.
Cuperlo ha aggiunto di non vedere “in questo momento le condizioni per un accordo tra Pd e 5Stelle”, ma ha anche negato che il suo partito debba “ritirarsi sull’Aventino”, rifiutando a priori qualsiasi forma di collaborazione nella ricerca di una via di uscita dall’attuale stallo politico. La formula, che è la stessa pronunciata dal segretario reggente Maurizio Martina, si presta a una certa ambiguità: restiamo all’opposizione, ma “se ci fosse un appello del capo dello Stato…”.
Lo stesso Martina l’altroieri ha auspicato un ricorso agli “strumenti di democrazia interna”, come “la Spd, che ha costruito alcuni passaggi chiave con la partecipazione diretta degli iscritti”. Quel passaggio chiave era appunto la decisione se prendere parte o meno a un governo di grande coalizione con la Cdu di Angela Merkel. Malgrado il referendum tra gli iscritti sia già previsto dall’articolo 27 dello statuto del Pd, il segretario ad interim Martina sembra tutt’altro che persuaso.
Nel partito in realtà qualcosa si muove. Non solo Cuperlo, anche la presidente della Regione Umbria, Catiuscia Marini, all’indomani del voto, aveva auspicato il ricorso alla democrazia interna. Paradossalmente, l’aveva invocata proprio per scongiurare eventuali “inciuci” con i grillini: “Se qualcuno pensa a un’alleanza tra Pd e M5S noi rispondiamo che vogliamo un referendum tra gli iscritti. Chi rappresenta il Partito democratico lo decidono gli iscritti del Partito democratico”.
Anche il costituzionalista Stefano Ceccanti, appena rieletto al Senato con il Pd, la pensa allo stesso modo: “Se qualcuno volesse fare un’apertura al M5S dovrebbe chiedere un mandato, come fatto dalla Spd che in campagna elettorale ha detto ‘mai con la Merkel’ e quando poi i dirigenti quel partito hanno cambiato idea, ha fatto un referendum tra gli iscritti”.
Servirebbe un referendum, insomma, se i dirigenti volessero “cambiare linea”, ma nulla impedisce – Statuto alla mano – di chiedere l’opinione dei tesserati sulla strategia da seguire in questa fase di stallo. Anche Andrea Orlando, ministro della Giustizia e già leader della minoranza anti renziana, quest’estate invocava un referendum tra gli iscritti nel caso, “inquietante e improponibile”, che il Pd decidesse di allearsi con Forza Italia e Silvio Berlusconi.
Il tema è dibattuto nei circoli dem, dove l’orientamento nettamente prevalente è quello di evitare “l’abbraccio mortale” con i 5Stelle. Ma anche qui si chiede di passare per il voto degli iscritti.
Se n’è discusso in questi giorni a Padova, dove la proposta arriva dal segretario provinciale Vittorio Ivis: “Il voto ha dato al Pd un naturale ruolo di opposizione ma se accadesse che gli organismi nazionali riflettessero su un’ipotesi di un nostro protagonismo istituzionale, in qualsiasi forma, allora penso che sarebbe sano e necessario chiedere l’opinione della nostra base e degli iscritti, come sperimentato anche in Germania”.
La stessa richiesta arriva dai circoli di Cesena, dove la segreteria locale del Pd – al termine dalla rituale analisi del voto – ha pubblicato una lunga lettera che si conclude con la stessa domanda di democrazia interna: “Qualora altri partiti – si legge – in particolare il M5S, dovessero formalizzare una proposta di collaborazione di governo al Pd, la segreteria comunale di Cesena ritiene che il Partito debba mantenere fermo il proposito di restare all’opposizione. Ma la cosa più utile e giusta da fare sarà un referendum fra gli iscritti, a cui spetta il diritto di esprimere la propria valutazione su una scelta di fondo che, per il Pd, rappresenta indubbiamente un bivio. Sarebbe questo un primo modo per ridefinire, nel metodo, un’identità al Pd che in questi anni è andata sfumando. Un messaggio che, riteniamo, vada indirizzato alla dirigenza nazionale del Pd”.

La Stampa 18.3.18
Il Pd si ribella all’Aventino di Renzi e apre a un esecutivo di garanzia
Assemblea al Nazareno con Martina, Cuperlo, Orlando e Calenda “Se ci fosse un appello del Quirinale, non potremmo tirarci indietro”
di Alessandro Di Matteo


La mezza tregua firmata in direzione Pd lunedì scorso sembra già saltata, lo scenario che Matteo Renzi temeva comincia a concretizzarsi e la riunione di ieri, organizzata da Gianni Cuperlo, ha messo in allarme il segretario dimissionario. Nella sala conferenze della sede Pd si sono ritrovati i rappresentanti di aree diverse del partito, un embrione di «correntone» che mette insieme pezzi di minoranza come Cuperlo e Andrea Orlando, esponenti che fino all’altro ieri erano schierati con Renzi, come il reggente Maurizio Martina, e anche new entry come il neo-iscritto Carlo Calenda, ministro che da mesi non perde occasione per polemizzare con l’ex premier. Seduto ad ascoltare, poi, c’era anche il franceschiniano Luigi Zanda. Sensibilità e storie diverse, ma unite da un obiettivo comune: impedire a Renzi di confinare il Partito democratico sull’Aventino mentre il Presidente Sergio Mattarella cerca di mettere su un governo.
La polemica è scoppiata sui giudizi espressi da Cuperlo sul «renzismo da superare» e sulle battute di Orlando a proposito degli «episodi di nepotismo e clientelismo» nel Pd, ma è l’apertura a un governo del presidente a mettere in allarme l’ex leader. Per carità, da Cuperlo a Martina tutti hanno precisato che accordi politici con il Movimento 5 Stelle e Lega non sono praticabili. Peccato che poi hanno aggiunto che se il Capo dello Stato dovesse prendere l’iniziativa per un «governo del presidente» o «di scopo» il Pd non potrà stare a guardare. «Non vedo le condizioni per un accordo con chi dice di aver vinto - ha detto Cuperlo - ma se dopo tentativi a vuoto (di formare un governo, ndr) ci fosse l’appello a un governo condiviso, io dico che non dovremmo scegliere l’Aventino».
Concorda Orlando, che invita anche a «distinguere il livello istituzionale da quello di governo», per dire che sulle presidenze delle Camere il Pd deve essere della partita. E sulla stessa linea sono anche Calenda e, soprattutto, il “reggente” Martina: «Anche io penso che un governo 5 Stelle-Lega sia pericoloso per questo Paese. Noi non ci tireremo indietro dal confronto e non aspetteremo che siano le forze che hanno vinto a fare le loro mosse».
Il no ad accordi politici con M5S e Lega è scontato, anche in Europa, nel Pse, la prospettiva non è vista bene e non a caso Gianni Pittella, presidente del gruppo dei Socialisti e democratici, è netto: «L’esito delle urne è chiarissimo, ancorché doloroso: affida a due forze l’onere e l’onore di governare, tanti auguri. Noi faremo opposizione costruttiva». In realtà, anche nel Pse c’è una minoranza che spinge per un dialogo con il M5S: sono soprattutto gli italiani di Leu e alcuni ex esponenti del partito socialista francese. Ma, appunto, si tratta di una minoranza.
Altro discorso è il «governo del presidente», proprio quello evocato ieri da Cuperlo e Martina, che aprirebbe la strada anche a una vera rivoluzione nel partito, di fatto la marginalizzazione di Renzi. E il fatto che il reggente Martina abbia appoggiato questa linea ha fatto scattare l’allarme.
Non è un caso che ieri la reazione di molti renziani sia stata dura. Michele Anzaldi, poi seguito da Franco Vazio e Luciano Nobili, ha attaccato: «Tutta colpa del “renzismo”? E chi era al fianco di Renzi al partito e al governo che faceva in questi anni?». Orlando ha poi chiarito che parlando di «nepotismo e clientelismo non mi riferivo a Renzi», Cuperlo ha chiesto di «sotterrare l’ascia di guerra». Ma è chiaro che la tregua interna è rotta, i giochi in vista delle trattative per il governo si sono ufficialmente aperti, e dalla minoranza qualcuno fa notare che «non tutti i renziani ieri hanno attaccato».

Corriere 18.3.18
«La sinistra ritrovi se stessa torni dove c’è il popolo»
di Aldo Cazzullo


«Questa sconfitta non nasce per caso. Non è un accidente. La sinistra non ha colto la trasformazione della società — dice Walter Veltroni al Corriere —. Ha perso quel che la sinistra non può perdere: il rapporto con il popolo». E sull’attuale momento politico auspica che «il Pd dialoghi con i Cinque Stelle con la regia del capo dello Stato».
Veltroni, la sinistra italiana è al minimo storico.
«È abbastanza incredibile la rapidità con cui si è passati sopra la più grande sconfitta della sinistra nella storia del dopoguerra, per ricominciare la consueta danza degli hashtag e dei tweet, per dibattere su cosa fare domani mattina; che è sicuramente un problema, ma prima ancora occorre capire perché siamo al bipolarismo tra 5 Stelle e Lega, e il Pd ha perso metà dei 12 milioni di voti che prese nel 2008».
Che fare?
«Sottrarci al presentismo assoluto che domina ormai ogni segmento del nostro discorso pubblico. Gramsci definiva il partito come intellettuale collettivo. Pare un ossimoro: l’intellettuale è pensato come un individuo solo con le sue speculazioni. Per me significa la meraviglia del capire insieme. Insieme si capisce molto di più che da soli».
Lei cos’ha capito?
«Questa sconfitta non nasce per caso. Non è un accidente. La sinistra non ha colto la trasformazione della società. È stata forte quando la società era strutturata, organizzata per classi, con forti elementi unificanti. Nella società liquida la sinistra si è persa. Ha perso la sua capacità di essere se stessa, di rappresentare dentro il tempo della precarietà e della coriandolizzazione dell’esperienza umana il proprio punto di vista. Ha perso quel che la sinistra non può perdere: il rapporto con il popolo. Senza il popolo non esiste la sinistra».
Il Pd ha vinto nei centri storici ed è stato travolto in periferia.
«Invece dovrebbe stare dove c’è più disagio, più povertà, più disperazione, più angoscia. La vera questione oggi è questa: come si interpreta il punto di vista della sinistra, che è sempre esistito? La sinistra non è nata con i parlamenti; è nata con la rivolta degli schiavi. C’è sempre stato nella storia umana un sentimento, un punto di vista della sinistra: sempre dalla parte dei più deboli, nei suoi momenti migliori armonizzando libertà e giustizia sociale, nei momenti peggiori separandoli. Oggi il sentimento della sinistra deve rispondere alla grande inquietudine del nostro tempo, alla sensazione di solitudine dell’esistenza. Mi ha colpito che in campagna elettorale il Pd sia stato impegnato a dire quanto era stato bravo nei mille giorni di governo; sideralmente lontano dallo stato d’animo di un Paese uscito da questi anni di crisi profondamente stordito».
Stordito?
«Il 40% delle famiglie è composto da una sola persona. Il 23% vive con meno di 830 euro almese; tra gli under 45 la percentuale sale al 30, al Sud al 40. Il reddito medio delle famiglie italiane è 11 punti sotto l’inizio della crisi. Si aggiunga il mutamento della condizione di vita degli esseri umani, segnato dalla precarizzazione di ogni aspetto dell’esistenza: il lavoro, le relazioni tra le persone, il tempo successivo al lavoro; tutto è dominato dalla precarietà e dalla paura».
Il Pd rivendica che l’Italia si sia rimessa in moto.
«Vero. Ma la preoccupazione per il futuro dei figli è fortissima. Ricordo una trasmissione degli anni 60: Enzo Biagi intervistava un contadino con la camicia a scacchi che parlava dialetto. Dietro c’era il figlio, tutto elegante, con gli occhiali alla Gino Paoli. Il padre diceva: gli ho fatto prendere la licenza superiore. C’era in quella frase il senso di una vita: io mi sono spaccato la schiena nei campi, ma mio figlio starà meglio di me. La rottura di questa certezza è qualcosa che cambia l’esistenza umana».
Non accade solo in Italia.
«Infatti la sinistra è sconfitta in tutto l’Occidente. Ora deve trovare le politiche che consentano di dare nuova stabilità e nuove garanzie, per far sì che la vita non sia una giungla: se un ragazzo sta in un call center e guadagna 33 centesimi all’ora è roba da schiavismo. E la sinistra deve immaginare forme di democrazia più robuste di quelle che abbiamo conosciuto. L’errore drammatico è stato togliere alla nostra comunità le emozioni e la memoria».
Cosa c’entrano le emozioni?
«Le emozioni sono molto importanti in politica, e sono il principale antidoto alla paura. Senza l’idea di partecipare a qualcosa di grande, la politica si riduce a pura macchina di potere, fredda e repellente».
E la memoria?
«Togliendo la memoria, la sinistra ha tolto alla sua comunità il desiderio di futuro. Ma non possiamo vivere al ritmo concitato di tweet che si contraddicono, senza la consapevolezza che la storia non comincia con te; comincia con Spartaco, ed è una storia fatta di sangue, di generosità, di sacrifici, di libertà negate, di persone che ci hanno rimesso la vita. Noi siamo il prodotto di tutto questo, delle contraddizioni e delle tragedie. La nostra forza, diversamente da “Noi con l’Italia” o consimili, è essere un elemento permanente della storia».
A dire il vero sembrate sull’orlo di sparire.
«L’altro giorno per gioco ho chiesto a Siri, voce del cellulare: tu sei di destra o di sinistra? Mi ha risposto: “Francamente me ne infischio”».
Lei pensa invece che destra e sinistra esistano ancora?
«La sinistra non può non esserci. La storia ha bisogno che ci sia qualcuno dalla parte degli ultimi e dei diritti: il mondo è andato avanti grazie a questo. Lo dimostra in queste ore il sacrificio di Marielle Franco in Brasile. E lo dimostrano, per converso, i dazi e i muri».
Concretamente cosa dovreste fare?
«Ho visto quei circoli Pd chiusi in un tristissimo e bel servizio di «Piazzapulita»; si riaprissero subito, per convocare migliaia di persone a discutere. Ricordo quando Berlinguer propose il compromesso storico: milioni di persone si trovarono in luoghi fisici per parlarsi; il calore, lo scambio meraviglioso, l’incontro di punti di vista diversi. A me piacerebbe che il Pd ora avesse l’ambizione di capire, più che di dire».
Cos’è cambiato rispetto al 2008?
«Il Pd è stato il Pd per un breve periodo. Poi è somigliato troppo ai Ds, quindi troppo alla Margherita. Il Pd ha bisogno di apparire ciò che è: una forza della sinistra con ambizioni maggioritarie. Ha bisogno di partecipare al dolore delle persone, di un sogno, di un’idea della democrazia oltre la disintermediazione».
Il Pd non è finito secondo lei?
«No. Al contrario: è l’unica soluzione possibile. Non possiamo rimettere in discussione un’idea che abbiamo impiegato dieci anni di troppo a fare, ma abbiamo fatto dieci anni prima degli altri. Sarebbe un errore gigantesco. L’esito di Leu dimostra che la soluzione non è tornare al passato; è fare il Pd come l’abbiamo immaginato, portandolo al 34%».
Con Berlusconi sopra il 38. Quelle elezioni le avete perse, non vinte.
«Nessuno poteva seriamente pensare di vincerle. Fu un miracolo: partivamo dal 22%. Lo disse Gentiloni: non confondiamo il sogno dell’Ulivo con l’incubo dell’Unione; e noi venivamo dall’incubo dell’Unione. Bisognerebbe recuperarla, quell’idea che poi fu giustiziata dal potere interno».
Cosa pensa di Renzi?
«A Renzi non riserverò nessuna delle parole che furono riservate da Renzi alle persone che in altri momenti avevano avuto responsabilità di guida della sinistra. Rispetto il suo lavoro, lo rispetto come persona. Il problema non è lui; è molto più serio, più profondo, più sconvolgente. La sinistra ha perso tutte le elezioni dal 2014. È come il conte Ugolino, ha divorato i suoi figli uno dopo l’altro; e ciascuno che arrivava pensava che tutto cominciasse con lui. È il momento di ricostruire una comunità che si è perduta, fatta anche dalla pluralità dei punti di vista e dal confronto con chi la pensa diversamente».
Il Pd deve stare all’opposizione?
«All’opposizione sì. Ma deve esserci un governo. È giusto che a fare proposte siano altri, chi ha avuto un successo elettorale».
Una maggioranza Lega-5 Stelle?
«Non la auspico, non ho mai condiviso la logica del tanto peggio tanto meglio. Il Pd sia un interlocutore non degli altri partiti, ma del presidente della Repubblica. Sarebbe sbagliato, per evitare le elezioni, rispondere di sì a chiunque chieda al Pd, dopo averlo insultato, di sostenere il proprio governo. Ma può darsi si creino le condizioni, attorno a un’iniziativa del presidente, per dare al Paese un governo che eviti il ricorso alle urne e affronti la legge elettorale e la questione sociale».
Dialogo con i 5 Stelle?
«Dipende se i 5 Stelle insistono nel pretendere l’appoggio al governo scritto prima del voto, oppure concordano che non è tempo d’imposizioni. Se a fine crisi, sotto la regia del capo dello Stato, emergesse un’ipotesi a certe condizioni programmatiche — adesione chiara all’Europa, politiche sociali, ius soli, qualità e indipendenza dell’esecutivo —, il Pd farebbe bene a discuterne».
Meglio i 5 Stelle della Lega?
«Una parte del nostro elettorato è finita ai 5 Stelle; una piccola nella Lega, il resto, tanto, nell’astensione. Il Pd fa bene per ora a stare dov’è. All’opposizione».
Ogni tanto si evoca il suo ritorno. Potrebbe essere lei il nuovo leader?
«Vale quello che ci siamo sempre detti: ho fatto una scelta di vita diversa. Quel Pd fu impedito da gran parte dei maggiorenti del partito: un errore di cui paghiamo ancora il prezzo. La mia passione politica si può esercitare senza potere; e io avrò passione politica fino a quando avrò gli occhi aperti. È sbagliata l’idea che la passione politica e il potere siano la stessa cosa. Milioni di italiani hanno cambiato questo Paese senza essere consiglieri regionali».

Repubblica 18.3.18
Il reportage
Torino. Nel circolo di Borgo San Paolo
I dem dell’ex quartiere rosso torinese “C’è voglia di superare la scissione”
di Paolo Griseri


TORINO Niente foto alle pareti. Di questi tempi passano di moda troppo in fretta.
Solo la bandiera del Pd.
Ma quel che più conta per l’identità è l’indirizzo: «Ci siamo trasferiti qui, in questo negozio, perché è in via Di Nanni e ci tenevamo», dice Francesca, ex segretaria del circolo di Borgo San Paolo, già quartiere rosso di Torino. Già. Dante di Nanni, classe 1925, partigiano gappista, trucidato a 19 anni dopo due ore di resistenza ai fascisti, abbarbicato nel suo alloggio al primo piano di via San Bernardino, a due passi dal circolo. Giovanni Pesce, compagno di azioni, racconta che Dante, finite le munizioni, «si gettò dal balcone con il pugno chiuso». Gli storici accerteranno che venne trucidato in cantina.
Comunque un eroe, un pezzo dell’identità antifascista del quartiere di Giancarlo Pajetta, Diego Novelli, Piero Fassino. Oggi a rappresentare borgo San Paolo alla Camera c’è una deputata di Fratelli d’Italia, nella sua biografia una gioventù universitaria trascorsa nel Fuan. Se fosse vissuta nel 1944 l’avremmo probabilmente trovata sotto il balcone di via San Bernardino ad assediare il partigiano del primo piano.
Ecco, com’è stato possibile?
Questo, in fondo, è l’oggetto della riflessione del dopo voto. I numeri danno la risposta: la candidata del Pd ha perso per 150 voti, il candidato di Leu ne ha presi 6.758. Ma sarebbero bastati, per sconfiggere la deputata postfascista, anche un decimo dei 1.975 voti di Potere al Popolo. Siete arrabbiati con Leu? Gianmarco, giovane segretario del circolo, risponde, sorprendentemente, di no: «Ho sperato fino all’ultimo che la scissione non si facesse. E anche la notte delle elezioni, mentre giravo tra i seggi, incontravo quelli di Leu e ci dicevamo, soprattutto con quei risultati, che avremmo dovuto tornare insieme».
La divisione non è stata semplice.
Ma in fondo, a livello di quartiere, nemmeno tanto consumata.
Laura parla subito. Non può aspettare la fine della riunione: «Scusate se parlo adesso. Vado all’Eliseo a vedere ‘Lady Bird’.
Sapete, ho una figlia grande». Che cosa dice Laura, l’unica nella sala ad aver conosciuto il Pci? Parla con il cuore in mano: «Non si può pensare di litigare con persone con cui hai condiviso tutto per quarant’anni. Mi ha fatto un grande effetto. Una mattina al mercato mi sono trovata a volantinare fianco a fianco con un amico. Per la prima volta distribuivamo volantini per partiti diversi. Come avrei potuto litigarci?». È possibile tornare insieme? Alberto, presidente del quartiere, è un orlandiano possibilista: «Abbiamo già visto ritorni nel partito. Dobbiamo unirci già per l’anno prossimo alle regionali che devono decidere il successore di Chiamparino». E sulle differenze di programma si può ricucire «perché in fondo il Jobs Act e la Fornero l’ha votati anche Leu».
Non c’è insomma un clima depresso in via Di Nanni, nonostante la sconfitta elettorale e la pioggia che gocciola sui banchi del mercato del sabato pomeriggio e sulle borse della spesa. Tocca a Maria Antonietta, dirigente di banca in pensione, spiegare perché: «Da quando abbiamo perso, due settimane fa, sono arrivati in tanti ad iscriversi.
Persone di tutte le età, anche giovani». Forse tornano nel partito perché Renzi non è più segretario..Pensiero maligno ma non del tutto infondato, almeno a sentire quel che racconta Laura: «Sono venuti alcuni a dirci che si iscrivevano perché pensavano che adesso, dopo la sconfitta, c’era più possibilità di discutere».
In pochi giorni i nuovi iscritti sono una trentina, un bel numero.
«Anche io mi sono iscritto dopo una sconfitta, quel del referendum del 4 dicembre. L’ho fatto perché pensavo che si dovesse dare una mano per riforme in cui io credevo», racconta Marco.
Ma il motivo delle 30 nuove iscrizioni dal 4 marzo ad oggi lo spiega ancora Maria Antonietta: «Vengono perché vogliono parlare di politica guardandosi in faccia, confrontandosi bevendo una birra. Vengono perché sono stufi della politica dello sfogo sui social, vengono perché ci dicono che non hanno più voglia di delegare. Ecco perché vengono».
Il fascino del perdente? Forse. Ma anche la speranza, dicono sottovoce, che con il rimescolamento seguito alla sconfitta, tornino a contare nel partito le idee e non solo i pacchetti di tessere, inevitabilmente decisivi quando gli iscritti sono pochi. «La nostra scommessa - dice Gianmarco - è di riuscire a trasformare i titolari delle tessere in militanti. Abbiamo bisogno di persone con cui confrontarci». «Così - promette Francesca - riusciremo a riconquistare il quartiere di Dante Di Nanni».

La Stampa 18.3.18
L’ambizione globale del Cremlino
di Maurizio Molinari


Leader incontrastato in patria, spietato contro gli avversari interni ed abile stratega nel portare scompiglio in Occidente, Vladimir Putin affronta oggi le urne sicuro di una rielezione alla presidenza che lo proietta nella sfida più difficile: riassegnare alla Russia un ruolo stabile di potenza globale.
Aver indetto le elezioni il 18 marzo, quarto anniversario dell’annessione della Crimea strappata all’Ucraina, serve a celebrare la rinascita dell’orgoglio nazionalista russo che ha finora distinto la sua presidenza. Arrivato al Cremlino nel 2000, ereditando da Boris Eltsin una Federazione russa assediata dall’allargamento della Nato ad Est e umiliata dagli interventi militari guidati dagli Usa nel Golfo e nei Balcani, Putin è riuscito in questi 18 anni - complice la breve stagione del fidato Dmitry Medvedev al Cremlino - a sorprendere più volte l’Occidente fino a metterlo sulla difensiva.
Gli interventi militari in Georgia, Ucraina e Siria, la corsa al riarmo convenzionale e nucleare, la «guerra ibrida» teorizzata da Valery Gerasimov e le incursioni nel cyberspazio per indebolire dal di dentro un Occidente segnato dalle crisi, hanno consentito alla Russia di riacquistare terreno strategico in Europa, Medio Oriente ed Africa durante la presidenza Obama e di conservarlo durante quella di Donald Trump. A dispetto delle sanzioni economiche Usa-Ue e di crisi aspre come quella in corso con la Gran Bretagna sul possibile uso di gas nervino per uccidere un’ex spia assai scomoda.
Tali e tanti risultati hanno trasformato Putin nel protagonista del riscatto russo dallo smacco della Guerra Fredda, nel leader più temuto e osteggiato, ammirato e corteggiato sulla scena internazionale. Ma è lui per primo a rendersi conto che si tratta di un risultato parziale perché la sua Russia è un gigante vulnerabile. Un Pil inferiore a quello dell’Italia, la popolazione in costante calo demografico e l’assenza di leader digitali paragonabili ad Amazon o Alibaba, descrivono una fragilità interna che costituisce il primo e più serio ostacolo per il Putin rieletto. Sicuro di restare al Cremlino almeno fino al 2024 – diventando il leader russo più longevo dai tempi di Josif Stalin – Putin deve riuscire a pianificare il dopo-Putin ovvero far crescere la propria nazione per consentirle di affrontare le sfide del nuovo secolo. Qualche accenno in proposito lo ha già fatto negli ultimi tempi, indicando nell’intelligenza artificiale «il terreno decisivo per la leadership del futuro» e guardando ai «siloviki» – l’establishment della sicurezza – in cerca della necessaria capacità di produrre innovazione tecnologica nei settori più diversi. Volersi distinguere in maniera decisiva dagli altri leader dell’Urss-Russia, per Putin significa riuscire dove fallirono Leonid Breznev e Mikhail Gorbaciov: avere degli eredi capaci di affrontare, e vincere, le sfide della generazione successiva. Per questo a Mosca c’è chi assicura che Putin, affrontando una sorta di sfida personale con la Storia russa post-rivoluzionaria, non vorrà solo crearsi uno status ad hoc nel lungo termine – dal precedente cinese di Xi Jingping titolare di un mandato a vita, a quello turco di Recep Tayyip Erdogan, ideatore di una Costituzione con poteri modellati su se stesso – ma punterà su economia e tecnologie per entrare a testa alta nel duello per la leadership globale che vede al momento due soli contendenti: Stati Uniti e Cina.
Insomma, dopo essere riuscito a indebolire l’Occidente grazie alla «guerra ibrida» ed a creare un nuovo legame con Pechino nello scacchiere dell’Eurasia, Putin avrà a disposizione i prossimi sei anni per tentare di sorpassare entrambi lì dove si sentono imbattibili: sulla creazione di prosperità e innovazione. Riuscendo nell’impresa può diventare il modernizzatore della nazione più grande del Pianeta, fallendo rischia invece di finire come l’anziano dittatore africano Mugabe, travolto dalle faide di un potere che lui stesso aveva creato.

Corriere 18.3.18
la storica Hélène Carrère d’Encausse
«Perché Putin vincerà»
di Stefano Montefiori


PARIGI «Oggi Putin sarà rieletto perché la maggioranza dei russi condivide la sua visione. E la crisi con Mosca sembra una risposta allo smarrimento europeo: c’è grande nervosismo, il paesaggio è cambiato, siamo in una fase di transizione interessante. Oltre alla Brexit i Paesi dell’Est vogliono meno integrazione, anche quelli del Nord guidati dall’Olanda frenano, e le elezioni italiane sono state vinte da partiti che difendono la sovranità nazionale. Mobilitarsi contro la Russia può dare la sensazione di recuperare una certa unità, si danno tutte le colpe a Putin e si annunciano sanzioni. E allora? E dopo?».
Negli appartamenti dell’Académie Française, davanti alla Senna, la grande storica Hélène Carrère d’Encausse parla dell’oggetto delle ricerche di una vita, la Russia e i suoi rapporti con l’Europa. Ha scritto decine di libri tra cui biografie di Caterina II, Lenin e Stalin, nel 1978 ha pronosticato la fine dell’Unione sovietica sotto la rivolta delle nazioni nel celebre L’impero spaccato e pochi mesi fa, a 88 anni, ha pubblicato Il generale De Gaulle e la Russia (Fayard). «Immortale» di Francia dal 1990 e prima donna a essere eletta «Segretario perpetuo» (al maschile, così preferisce) dell’Accademia, Hélène Carrère d’Encausse è una delle poche figure intellettuali di peso che, in Francia e in Europa, chiedono di trattare Putin con più comprensione.
Lo scontro comincia con l’avvelenamento in Inghilterra di un oppositore.
«L’Unione sovietica aveva una tradizione di avvelenamenti, le storie di agenti doppi o tripli tra Mosca e Londra sono un classico, John Le Carré le racconta molto bene. Anche per questo forse i britannici hanno reagito in modo così deciso. Comprendo la loro sensibilità, ma nel passato anche recente ci sono stati altri casi. Mi domando perché aprire una crisi grave adesso».
Non può essere che Putin abbia voluto testare le reazioni europee alla vigilia delle elezioni in Russia?
«I suoi consensi cresceranno, con ogni probabilità, ma Putin non ne aveva alcun bisogno perché le elezioni le avrebbe vinte comunque, a meno di sorprese oggi impensabili. Vedo un grande nervosismo europeo, una escalation mediatica che i politici assecondano».
Perché secondo lei c’entra il voto in Italia, con la vittoria di partiti in modi e gradi diversi favorevoli a Putin?
«Esiste un blocco conservatore in Europa spaventato da qualsiasi cambiamento e dalla minima mossa laterale. Soprattutto se questa è compiuta da un Paese fondatore come l’Italia. Il voto italiano è interessante perché mostra una volontà di sovranità. I popoli dicono “malgrado tutto noi esistiamo, e non solo nel disegno che viene preparato per noi”. È una delle lezioni dell’inizio del XXI secolo».
Questo incoraggia la visione nazionalista di Putin?
«Probabilmente sì. È chiaro che Putin sta pesando tutto, vede la linea “America First” di Trump e il momento di pausa europeo. Nel discorso del 1° marzo ha un po’ ripetuto quel che aveva detto a Monaco nel 2007: noi siamo russi ed è il nostro interesse nazionale a contare. Nei primi anni Duemila Putin pensava a una democrazia all’occidentale. Tutto è cambiato con le rivoluzioni “colorate” in Georgia e Ucraina. Ha capito che doveva difendere la potenza russa e una via autonoma».
Putin gioca sulla divisione politica nata in tanti Paesi tra nazionalisti contro globalizzati, società chiusa contro società aperta?
«Sì anche se, in Francia almeno, abbiamo l’abitudine di bollare i nazionalisti come “populisti”, termine che non vuole dire niente se non che non ci piacciono. Tanti Paesi ripensano a quanta sovranità preservare. Ma siamo fissati sui populisti e su Putin il cattivo».
A capo di un regime autocratico, o no?
«Putin è convinto che la stabilità politica intorno a un capo sia fondamentale. Rivendica un potere forte, in politica interna e estera. Si può amarlo o no. È coerente, anche in Medio Oriente».
E le violazioni dei diritti umani, in particolare di quelli degli omosessuali?
«Molti russi siano d’accordo con Putin sul fatto che la loro società non debba scivolare nel modello individualista occidentale, al quale associano i diritti dell’uomo. L’epoca sovietica ha formato l’abitudine a un inquadramento rigoroso, e Putin ha capito che i russi chiedono stabilità, regole, valori tradizionali anche nella famiglia».
Come dovrebbero comportarsi gli europei?
«Forse abbandonare la pretesa di spiegare “ecco, questa è la democrazia, si fa così”. Anche perché il mondo non li sta ascoltando. Ci sono tanti modelli possibili. Tutto l’Est europeo dice che la democrazia non è questa, il presidente cinese Xi Jinping segue un’altra strada, e le elezioni italiane sono un segnale importante. Un popolo di grande civiltà, che ha fondato l’Europa, adesso dice che bisogna fermarsi e ripensare l’integrazione. Nel XXI secolo il mondo è cambiato, e che cos’è l’Europa? Non molto. Non abbiamo lo stesso modello neanche tra Italia, Germania o Francia. Uno sforzo di riflessione si impone».

Repubblica 18.3.18
La “demokratura” russa
Il nuovo Politbjuro del colonnello Vladimir
di Paolo Garimberti


Nella sua ossessiva opera di clonazione dell’Urss, che non ha mai nascosto di rimpiangere definendo la sua fine “una tragedia della Storia”, l’ex colonnello del Kgb Vladimir Putin ha creato un modello politico, che riproduce il sistema di gestione del potere del Pcus, il partito unico dei tempi sovietici. Le elezioni di oggi diventano così un referendum su quello che è stato definito il “putinismo”: un potere assoluto mascherato da democrazia pluralista, la “demokratura”, crasi tra democrazia e dittatura.
Il vincitore del voto di oggi è largamente scontato in mancanza di alternative credibili (l’unica con un seguito popolare, il blogger Aleksej Navalnyj è stato escluso per precedenti penali molto pretestuosi). La vera incertezza per l’esito del referendum riguarda l’astensione. Alle elezioni parlamentari del 2016 l’affluenza fu inferiore al 48 percento. Un’astensione così alta per il presidente sarebbe una bocciatura solenne, quasi un affronto. Tanto più che oggi vota una generazione che non ha conosciuto altro leader politico all’infuori di lui: i nati nel 2000, quando subentrò a Eltsin al Cremlino. L’Economist li ha chiamati “the Puteens”. È anche per prendere i loro voti (potenzialmente più attratti dall’astensionismo predicato su Internet da Navalnyj) che Putin si è separato dal suo partito di riferimento, Russia Unita, presentandosi da indipendente. Secondo i sondaggi più recenti soltanto il 19 percento dei russi crede nei partiti politici, mentre il 75 percento ha piena fiducia nel presidente.
Putin conta di trasformare i sondaggi in voti per legittimare il suo modello di potere e perpetuarlo oltre la sua sopravvivenza politica (se non sarà cambiata la costituzione questo sarà il suo ultimo mandato, fino al 2024). Per questo ha ricreato una sorta di Politbjuro. Ma ai tempi dell’Urss contavano l’esperienza nel partito e la clientela politica.
Quello di Putin è un assemblaggio di boiardi di Stato, dove conta esclusivamente l’appartenenza ai clan del potere (il più solido e rappresentato è quello dei “siloviki”, gli uomini della forza provenienti dai servizi o dalle forze armate, come il ministro della Difesa Sergej Shoigu, inseparabile compagno di Putin in partite di hockey su ghiaccio). Oppure l’amicizia personale e di affari con il presidente: come i fratelli Rotenberg, il violoncellista Roldugin, emerso nei Panama Papers come titolare di un patrimonio nei paradisi fiscali, o Igor Shuvalov, vice primo ministro, nome di spicco di quella Londongrad di cui si è parlato in questo giorni per la vicenda delle spie.
Il perno di questo sistema è Igor Sechin, ex capo di gabinetto di Putin e ora a capo di Rosneft, il gigante dell’energia che produce più barili di petrolio al giorno dell’intera produzione dell’Iraq ed è dunque un fondamentale asset economico per il Cremlino. È stato Sechin (il cui patrimonio personale in azioni Rosneft è valutato 83 milioni di dollari) a distruggere il potere degli oligarchi proliferati negli anni di Eltsin.
Come ha scritto un ex ambasciatore americano a Mosca è stato capace di «confiscare e amalgamare i loro asset in società di Stato controllate dai siloviki». È la sorte che è toccata a Mikhail Khodorkovskij (Yukos), Vladimir Yevtushenkov (Bashneft), petrolieri finiti agli arresti, le cui società sono state confiscate e poi acquistate proprio da Rosneft. L’ultimo oppositore eliminato con metodi giudiziari è stato il ministro dell’economia Aleksej Ulyukaev, finito in trappola per corruzione proprio nell’ufficio di Sechin.
Ma in un Paese immenso come la Russia il controllo del potere centrale non basta. Perciò lo zar ha avviato un gigantesco ricambio generazionale tra i governatori delle regioni e delle province: negli ultimi tre anni ne ha cambiati 36 su 85 e ben 20 hanno meno di cinquant’anni (tra cui l’ex guardia del corpo del presidente, Aleksej Dyumin, governatore di Tula). Oltre a essere giovani, i nuovi sono tutti figli di amici di Putin o di amici dei suoi amici più fidati.
Putin sa che non può essere presidente a vita, come Xi Jinping in Cina. Ma vuole continuare a controllare la Russia anche quando non sarà più al Cremlino. Per questo prova a legittimare il “putinismo” attraverso il voto popolare. E il successo di questo referendum (come ha capito Navalnyj che ha fatto campagna per l’astensione) non dipende da quanti voteranno per lui. Ma da quanti andranno a votare.

Repubblica 18.3.18
Generazione P.
Le testimonianze
“Noi, ventenni russi abbiamo visto un solo zar”
Oggi votano per la prima volta, ma al potere hanno conosciuto solo lui La maggior parte di loro lo difende. Ecco le storie, le voci, le speranze
di Rosalba Castelletti


MOSCA Quando Vladimir Putin debuttò al Cremlino nel 2000, erano in fasce. Oggi votano per la prima volta per scegliere il presidente. Sono i giovani della cosiddetta “Generazione Putin”: non conoscono altro leader che Vladimir Vladimirovic. Non hanno vissuto il trauma del crollo dell’Urss né le privazioni dei “terribili” Anni ’90. Non guardano la tv, s’informano sui social network. Sono scesi in piazza in migliaia la scorsa primavera, ma la maggior parte sostiene il leader 65enne. Oltre l’85 percento, secondo i sondaggi. Ed è comprensibile perché hanno fatto il loro ingresso nella vita con lui. Se la gioventù scesa in piazza non rappresenta un’intera generazione costituisce comunque una sfida a lungo termine per il governo. Ecco perché i teenager sono diventati il mito della campagna elettorale. Quattro corrispondenti dell’alleanza giornalistica “Lena” hanno viaggiato per tutta la Russia alla ricerca dei volti e delle storie che si nascondono dietro l’etichetta coniata dai sociologi. Li hanno incontrati nella capitale; a Kazan, cuore della cultura tatara; a Makhachkala, capoluogo più musulmano e multietnico e, infine, ai due limiti opposti del Paese: Kaliningrad ed Estremo Oriente Russo. Ecco le loro storie.
Egor Cherniuk, 20 anni, attivista pro-Navalnyj di Kaliningrad
« I miei genitori hanno divorziato nel 2004. Nel 2009 mia madre è morta di alcolismo. Ho sempre vissuto a Kaliningrad. Quando sono stato a Mosca per la prima volta mi ha sorpreso il fatto che non ci fossero confini. Qui la regione finisce e c’è un confine. Vorrei specializzarmi in Scienze informatiche in America e poi tornare in Russia con le competenze necessarie a combattere il regime. Se vuoi essere un leader del futuro devi saper usare la tecnologia. Il 12 giugno sono diventato il più giovane coordinatore locale della campagna di Aleksej Navalnyj. È carismatico, aperto all’Occidente e high-tech. È triste che la Russia, che ha dato i natali a Mendeleev e Pushkin, venga guidata da un ex agente del Kgb».
Aigul Taighipova, 19 anni, studentessa di Makhachkala (Daghestan)
« Mi sto specializzando in disegno sul tessuto e in produzione di tappeti. Un giorno voglio aprire uno studio tutto mio da designer. Non ho ancora deciso chi votare. Non m’importa che ci sia una donna candidata. Penso che il potere è più forte quando c’è un presidente uomo. Se Vladimir Putin fosse candidato ( lo ignorava, ndr), voterei per lui. Ha migliorato il Paese. Di Navalnyj non ho mai sentito parlare. M’informo guardando la tv, ma soprattutto su Instagram. Spero che il futuro porti sviluppo, ma soprattutto pace. Voglio vivere in un Paese senza guerre».
Elisa Mukhametshina. 19 anni, studentessa di Kazan (Tatarstan)
«Voterò, ma mi costerà un lungo viaggio. Studio a Nanjing, quindi dovrò viaggiare fino all’ambasciata russa di Pechino. Non voterò per Putin. Per tutta la mia vita, da che ho ricordi, c’è sempre stato lui al potere. È quasi un monarca. Sarebbe bello vedere un rinnovamento. Sfortunatamente, molti miei amici hanno paura dei cambiamenti perché pensano che porterebbero rivolte e violenze, che causerebbero una guerra civile. Visto che non hanno ammesso la candidatura di Navalnyj, per protesta voterò Ksenija Sobcjak».
Danil Shlik, 20 anni, macchinista di Mosca originario di Jalta (Crimea)
« Voterò per il comunista Pavel Grudinin. È l’unica via per uscire dalla crisi e dal capitalismo oligarchico. Sono cresciuto a Jalta, in Crimea. Ho sostenuto l’unione della nostra penisola alla Russia, ma la mafia russa ha sostituito quella ucraina. I salari medi sono di 15mila rubli al mese (230 euro), ma i prezzi sono diventati uguali a quelli moscoviti. Come può vivere così un ragazzo come me? Come macchinista della metropolitana di Mosca, guadagno 60mila rubli (900 euro), non abbastanza. Dobbiamo lottare per la giustizia e l’uguaglianza! Putin è bravo in politica estera, ma un fallimento in politica interna».
Dmitrij Zavialov. 19 anni, studente di Khabarovsk (Estremo Oriente Russo)
« Studio Economia presso l’università federale dell’Estremo Oriente. Ho una borsa di studio statale di 4.500 rubli al mese (poco più di 64 euro) che uso per pagare la residenza. Mia madre mi passa tra i 10mila e i 12mila rubli al mese. Quando tardano a pagarle lo stipendio, dobbiamo indebitarci. Sono apolitico, non mi piace seguire la massa. Anche se non ho alcuna voglia di andare alle urne, voterò Putin. La sua politica estera è molto buona. In politica interna non sta andando molto bene, ma ci prova » .
Storie raccolte insieme a Pilar Bonet ( El Pais), Pavel Loshkin ( Die Welt) e Benjamin Quenelle

Il Fatto 18.3.18
Il Nobel infangato dai crimini di Lady Birmania
Aung San Suu Kyi - L’ex paladina dei diritti umani da primo ministro sposa la politica dei generali
di Antonio Carlucci


Ogni giorno che passa l’eroina della democrazia del Myanmar, il premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi, è sempre meno l’icona che è stata dipinta quando era all’opposizione di un governo militare e parlava di diritti negati e di democrazia esponendo così se stessa all’esilio, agli arresti, alla persecuzione dei suoi figli cui veniva negata anche la cittadinanza perché il padre non era birmano.
Adesso che è al potere, premier di fatto e allo stesso tempo ministro degli esteri, Aung San Suu Kyi appare in sintonia con i militari con i quali governa, e politicamente non indipendente dalla cultura dei generali. Lo ha dimostrato chiaramente con le posizioni assunte rispetto alla tragedia del popolo Rohingya, centinaia di migliaia di uomini donne e bambini di religione islamica, cacciati dal paese, vittime di stupri di massa da parte dei militari e di civili di religione buddista.
Suu Kyi, nelle poche parole dette in pubblico sulla questione ha negato la situazione, pur ribadendo: “Noi condanniamo tutte le violazioni dei diritti umani e le violenze” e attribuendo l’origine dei fatti alle attività dei gruppi armati creati dai Rohingya.
Questo approccio di chiusura a riccio nella difesa del potere costituito è apparso ancor più visibile quando due giovani giornalisti birmani, Wa Lone Kyaw Soe Oo, sono stati arrestati a dicembre scorso in base a una legge che risale ai tempi del colonialismo inglese – l’Official Secret Acts – e sono attualmente in carcere e sotto processo. I due hanno realizzato un reportage esclusivo, pubblicato dalla Reuters, sulla scoperta di fosse comuni con una quindicina di cadaveri in un villaggio Rohingya, con le testimonianze di un attacco di militari e civili e dei corpi fatti sparire. Aung San Suu Kyi non ha detto una sola parola sulla vicenda.
Strano, perché solo pochi anni fa per una vicenda simile (giornalisti arrestati e condannati a 10 anni in base all’Official Secret Acts perché avevano raccontato come i militari birmani costruissero armi chimiche in una fabbrica da loro controllata) il premio Nobel per la pace aveva giudicato “assolutamente esagerata” quella condanna. Stando a quanto pubblicato dal quotidiano Irrawady a proposito di una manifestazione di protesta del luglio 2014 durante a quale Suu Kyi aveva preso la parola, lei disse: “È discutibile che il diritto dei giornalisti di raccontare i fatti venga sottoposto a controllo”. Concludendo: “Non è che io rifiuti i timori riguardo alle questioni sulla sicurezza nazionale, ma in un sistema democratico la sicurezza deve trovare un punto di equilibrio con la libertà”. Parola sagge, atteggiamento fermo nella difesa dei diritti democratici e al tempo stesso del diritto di uno stato a tutelarsi. Ma quello era il tempo dell’opposizione, Aung San Suu Kyi non aveva ancora vinto le elezioni del 2015 e non era premier e ministro degli esteri.
Adesso che guida un governo dove i militari occupano molte poltrone, non una parola sull’equilibrio da trovare tra diritto all’informazione e tutela della sicurezza dello stato. Men che mai un sospiro sul fatto che una legge di origine coloniale sia ancora in vigore.
Per sapere che cosa pensa la premier birmana dell’arresto dei giornalisti in carcere c’è voluto il racconto dell’ex governatore del New Mexico, Bill Richardson, che era stato chiamato dal governo di Yangoon a far parte di una commissione che si doveva occupare dei problemi dello stato del Rakhine, l’area dove i Rohingya vivono.
Richardson ha detto di aver posto la questione dei giornalisti alla premier durante un incontro. La sua reazione? “È esplosa”. Con il risultato che subito dopo a Richardson è stato tolto il gradimento “perché aveva anteposto la sua agenda a quella del Myanmar”. Capita spesso di invocare i diritti quando ti vengono negati e negarli agli altri quando sei al potere. Capita anche a un premio Nobel per la pace protetta e coccolata dall’Occidente come l’eroina del sud est asiatico. Ma era tanto tempo fa. Oggi è tutta un’altra storia.


Corriere La Lettura 18.3.18
Versi e scienze
Una Teogonia moderna: l’astrofisica


Ben prima che la seconda ondata di Sapiens , i nuovi migranti, arrivassero dall’Africa, i Neanderthal, frutto evolutivo di una migrazione più antica, già 50-70 mila anni fa popolavano molte zone dell’Europa. Organizzati in piccoli clan di una dozzina di individui, abitavano anfratti che oggi ci restituiscono prove inequivocabili di un complesso universo simbolico. Pareti affrescate con simboli e disegni di animali, cadaveri sepolti in posizione fetale, ossa e grandi stalattiti disposte in cerchi rituali. Sono innumerevoli le testimonianze di una civiltà che aveva, con tutta probabilità, un linguaggio sofisticato che non conosceremo mai.
Ed ecco che immagino il racconto delle origini del mondo che riecheggia già in quelle caverne, alla luce fioca delle fiaccole, con gli anziani che tramandano ai piccoli, potenza della parola e magia della memoria, l’eco di un mondo che sovrasta la realtà quotidiana, da cui tutto ha preso forma. Occorrerà attendere migliaia di generazioni prima che Esiodo, o chi per lui, con la Teogonia , ci lasci la prima testimonianza scritta di questo legame fra poesia e cosmologia. Quel grande racconto delle origini continua oggi con la scienza moderna. Le equazioni che usiamo non hanno la potenza evocativa del linguaggio poetico, ma i concetti della moderna cosmologia, un universo che nasce da una fluttuazione del vuoto o l’inflazione cosmica, ci lasciano ancora senza fiato, come accadeva ai nostri progenitori.

Corriere La Lettura 18.3.18
A caccia del nazista Mengele senza guardarmi l’ombelico
di Stefano Montefiori

In casa di Olivier Guez ci sono due giradischi con il mixer e i vinili di «disco» teutonica, mobili vintage, ricordi dei viaggi nei grandi alberghi storici, dal Waldhaus nell’Engadina di Nietzsche al Parco dei Principi progettato da Gio Ponti a Sorrento, dove Guez si è sposato con la giornalista franco-tedesca Annabelle Hirsch; e poi tanti libri sul calcio e sul Brasile (Guez ne ha scritto uno sul dribbling e Garrincha, Eloge de l’ésquive ), sul resto del Sudamerica, l’ebraismo, la Germania, il dopoguerra. Qualcuna di queste passioni e ossessioni è finita in La scomparsa di Josef Mengele , pubblicato ora in Italia da Neri Pozza, dopo il Prix Renaudot e uno straordinario successo in Francia.
Nato nel 1974 in una famiglia ebrea di Strasburgo, Guez è scrittore, giornalista e sceneggiatore ( Lo Stato contro Fritz Bauer ). Ha dedicato il suo secondo romanzo al «pascià» e al «ratto»: l’ufficiale delle SS Josef Mengele, il medico che ad Auschwitz torturava i bambini per i suoi esperimenti mentre viveva piacevolmente con la moglie e che, grazie a Juan Domingo Perón, fu trattato da pascià con villa e limousine anche a Buenos Aires; quindi, a partire dal 1960, l’uomo mai pentito ma finalmente vinto, costretto a nascondersi come un ratto in una fattoria brasiliana aspettando la morte, giunta nel 1979. Il romanzo di Guez è il racconto iper-documentato e secco del Mengele sudamericano, protagonista per molti anni di una surreale nazi society argentina.
Perché la forma del romanzo?
«Lavoro da molti anni su questi temi, per esempio ho scritto il saggio L’impossible retour, “L’impossibile ritorno ” degli ebrei in Germania dopo il 1945, e conosco bene l’America del Sud: a un certo punto ho sentito che era il momento di raccontare la storia dei nazisti in Sudamerica e il personaggio di Mengele si è imposto come un’evidenza. Ma non sono uno storico, e poi volevo evitare l’inchiesta giornalistica».
Come mai ha voluto evitare il genere dell’inchiesta?
«Non volevo mettermi in scena. Non mi piace quel genere letterario-giornalistico nel quale l’autore espone le sue ricerche e intanto ne approfitta per parlare di altro, essenzialmente del suo ombelico. Penso che sia accettabile solo se vai veramente fino in fondo, insomma funziona solo se sei Emmanuel Carrère. Il mio modello è stato A sangue freddo di Truman Capote, un romanzo di non-fiction. La scomparsa di Josef Mengele è un romanzo di non-fiction grazie al quale il lettore può farsi un’idea precisa di chi era Mengele e della sua psicologia».
Ha fatto molte ricerche?
«Dietro al romanzo ci sono circa 12 anni di letture, da quando nel 2005, mi sono trasferito a Berlino e ho cominciato a lavorare sulla Germania del dopoguerra. Mi sono abbuffato di Germania, ho letto letteratura, saggi, storia, tutto».
E poi?
«Ho visitato la città dei Mengele, Günzburg, in Baviera. C’è una piscina con una targa, la data del 1957 e i ringraziamenti alla famiglia Mengele. Hanno finanziato tutto, in città, e ancora alla fine degli anni Cinquanta erano considerati dei notabili da omaggiare».
Quanto tempo in Sudamerica?
«Oltre ai molti viaggi in passato, circa un mese e mezzo per le ricerche specifiche. A Buenos Aires sono stato accolto molto gentilmente dal club tedesco, ho mentito dicendo che dovevo scrivere una tesi sugli anni Cinquanta, poi appena ho fatto il nome di Mengele tutti hanno perso la parola. Ho visitato i luoghi dove ha vissuto, i bei quartieri».
La «nazi society»?
«Era un universo completo. I nazisti riparati a Buenos Aires avevano il loro giornale, “Der Weg” , i loro negozi. L’incontro tra Eichmann e Mengele, che c’è stato davvero, l’ho ambientato al ristorante ABC, che esiste ancora: stemmi dei Länder tedeschi, servizi di piatti con il logo scritto in caratteri gotici, atmosfera da anni Trenta. Ci ho mangiato, il gulasch non è tanto buono ma l’esperienza straordinaria. Poi ho trovato l’ultimo nascondiglio di Josef Mengele in Brasile».
Nella prima parte c’è un’ottima descrizione dell’Argentina di Perón.
«Di quel mondo abbiamo un’immagine infantile, molto legata al musical Evita e al film con Madonna. Ma Perón aveva una visione strategica. Come i nazisti che proteggeva, Perón pensava che la terza guerra mondiale imminente avrebbe spazzato via Usa e Urss. E sperava che il suo Paese ne avrebbe preso il posto».
La caccia ai nazisti sembra poco convinta.
«Di solito si pensa che subito dopo la guerra sia cominciata la ricerca dei criminali. Non è così, anche il Mossad aveva altre priorità. Mengele passa in Sudamerica trent’anni, è convinto di essere braccato dai servizi segreti di tutto il mondo ma in realtà, ed è qui la parte romanzesca, gli danno la caccia per davvero solo negli ultimi tre anni, ovvero un decimo del suo soggiorno tra Argentina, Brasile e Paraguay».
Anche la presa di coscienza nell’opinione pubblica arriva negli anni Settanta, con lo sceneggiato televisivo americano «Olocausto» e con «Shoah» di Claude Lanzmann.
«Ero un bambino e ne sentivo parlare per la prima volta ma anche gli adulti hanno scoperto con me quella tragedia. Fino a quel momento l’impatto dei campi di concentramento nell’immaginario europeo e mondiale è stato molto ridotto».
Voglia di rimozione?
«Fino a quando i quadri del nazismo non sono andati in pensione, sì. Ci sono stati i processi, Norimberga, ma la prima commemorazione della Notte dei Cristalli è del 1978. Il vero lavoro di memoria comincia allora, non prima. Anche in Germania si è preferito non mettere in pericolo le strutture economiche, giudiziarie e accademiche della società».
I tedeschi dell’Est accusavano la Germania Ovest di essere erede morale del regime nazista, avevano ragione?
«Avevano ragione sulla mancata epurazione, solo che la Germania Ovest a un certo punto un lavoro di memoria lo ha pur fatto, mentre la Ddr si è sempre autoassolta vantando un antifascismo che in realtà gli è piovuto in testa».
Il nazismo è al centro di molta letteratura francese degli ultimi anni: Jonathan Littell, Laurent Binet, Éric Vuillard vincitore dell’ultimo Goncourt e lei vincitore dell’ultimo Renaudot. Perché?
«Facciamo parte più o meno della stessa generazione, ci saranno al massimo 10 anni di scarto tra noi. Siamo ancora figli del dopoguerra. Il periodo 1914-1945 è la seconda grande guerra civile europea dopo la guerra dei Trent’anni, e non è passato ancora abbastanza tempo per uscirne del tutto. Poi i testimoni vengono a mancare, la letteratura prende il testimone».
Il libro è dedicato alla memoria di Ada e Giuditta Spizzichino, Grazia di Segni e Rossana Calò, e il primo nome nella bibliografia è Dante. Perché?
«Per qualche mese, quando ho abitato nel ghetto a Roma, ho letto tutti i giorni i loro nomi sulle lapidi vicino a casa. Sono morte ad Auschwitz. Quanto a Dante, certe scene della Divina commedia corrispondono all’universo concentrazionario. Cito anche Bosch, fanno entrambi parte del patrimonio culturale europeo. Ne è espressione anche lo spregevole Mengele. Che aveva fatto ottimi studi, come la moglie storica dell’arte a Firenze, del resto. Mengele non è un mostro ma un uomo, purtroppo».

Corriere La Lettura 18.3.18
A Vichy il primo asse franco-tedesco
Petain e i suoi pensavano ad una stretta integrazione con la Germania
di Sergio Romano


Benito Mussolini dichiarò guerra alla Francia e all’Inghilterra nel giugno del 1940 per riparare a un errore commesso qualche mese prima. Nel settembre del 1939, quando la Germania invase la Polonia, era giunto alla conclusione che il Terzo Reich e la Francia avrebbero combattuto, come cinque lustri prima, dietro le rispettive linee fortificate (Maginot e Siegfried), una lunga e logorante guerra di posizione. L’Italia perciò sarebbe stata a guardare e avrebbe fatto le sue scelte non appena le sorti del conflitto fossero divenute più chiare. Dunkerque e la clamorosa avanzata tedesca, nel maggio e giugno del 1940, lo colsero di sorpresa. Entrò in guerra per partecipare alla spartizione del bottino e soprattutto per diventare il condomino mediterraneo di un’Europa destinata a essere in larga parte germanica.
Non fu il solo a sbagliare. Con motivazioni diverse la Francia, dopo la vittoria tedesca del 1940, giunse a conclusioni simili. Il maresciallo Philippe Pétain, gli ambienti industriali, molti uomini politici e parecchi intellettuali erano convinti che la sconfitta fosse una meritata punizione per lo stato politico e morale del loro Paese. Pensavano che il regime parlamentare avesse reso la Francia rissosa, ingovernabile e corrotta, che le leggi sociali adottate dal Fronte popolare (una coalizione formata nel 1936 da socialisti, comunisti e radicali) avessero regalato potere ai sindacati e intaccato l’autorità dei patron . Per qualcuno di loro (Charles Maurras ad esempio) la morte dello Stato repubblicano era addirittura una «divina sorpresa», una occasione da cogliere per ripulire il Paese dalle impurità che la rivoluzione francese e il regime parlamentare avevano depositato sulle istituzioni nazionali.
In questo clima presero corpo anche nuove politiche economiche. Riapparve sotto nuove spoglie la Francia colbertista e dirigista di Luigi XIV, il Re Sole. Una nuova generazione di tecnocrati sostenne che alla crisi del capitalismo, dopo il grande naufragio di Wall Street nel 1929, occorreva dare una risposta ispirata dalle economie corporative che alcuni regimi autoritari (Italia e Portogallo in particolare) stavano applicando in quegli anni. Il risultato fu la creazione di numerosi enti governativi per la gestione dei diversi settori economici e di associazioni professionali che il governo avrebbe usato per inquadrare le energie della nazione. Il nuovo sistema avrebbe avuto il merito di sintonizzare l’economia francese con l’economia tedesca e di gettare fra i due Paesi una sorta di ponte economico. Qualcuno si spinse sino a proporre che Francia e Germania divenissero membri di una grande unione doganale.
È arrivata nelle librerie francesi in queste settimane una Histoire économique de Vichy , pubblicata dall’editore Perrin, in cui tre studiosi (Fabrice Grenard, Florent Le Bot, Cédric Perrin) descrivono il volume e l’importanza degli scambi franco-tedeschi che si svilupparono sotto il regime collab0razionista. Chi ancora lo ignorava apprende così che la Francia, durante l’occupazione tedesca, fornì alla Luftwaffe parecchie migliaia di aerei da trasporto, che il Vallo Atlantico, voluto da Hitler quando gli Stati Uniti entrarono in guerra nel dicembre 1941 («la più grande fortificazione militare costruita dopo la grande muraglia cinese»), fu realizzato da imprenditori francesi; che lo stesso accadde per le basi sottomarine tedesche della costa atlantica; che il Servizio del lavoro obbligatorio forniva alla Germania, nel giugno 1944, 750 mila operai francesi; che le risorse economiche dell’impero coloniale francese furono messe a disposizione dell’occupante; che Biserta, in Tunisia, fu offerta dalla Francia per rifornire l’Afrika Korps di Erwin Rommel durante la campagna condotta insieme alle forze italiane nell’Africa del Nord.
Dietro l’economia, naturalmente, vi era un disegno politico. I vertici della Francia di Vichy erano convinti che Hitler avrebbe vinto la guerra mondiale, che l’Europa sarebbe stata in gran parte «germanica» e che la collaborazione con gli occupanti avrebbe permesso a Parigi, dopo la fine del conflitto, di recitare accanto al Terzo Reich il ruolo del comprimario. La Carta del Lavoro, pubblicata sul «Journal Officiel» del 26 ottobre 1941 fu un omaggio ai fascismi europei e l’arianizzazione della Francia, in questa prospettiva, fu anche la rivendicazione di una comune cultura razziale.
Anche se Hitler sembrò spesso trattare le aperture francesi con cautela e diffidenza, esisteva ormai, verso la fine della guerra, un asse franco-tedesco. Il suo cervello fu un «Centro francese di collaborazione economica e culturale europea», creato nel settembre 1941. Aveva la sua sede al numero 92 dei Champs Élysées, nella casa abitata da Thomas Jefferson durante la sua missione diplomatica a Parigi dal 1785 al 1789, e aveva duemila soci che rappresentavano l’intellighenzia, la finanza e l’industria francese. Molti appartenevano alla nidiata europeista di Aristide Briand, il grande ministro degli Esteri dell’anteguerra. Altri finirono di lì a poco di fronte a un magistrato o a un plotone di esecuzione.
Quell’asse non è morto. Il generale Charles de Gaulle ha fatto con la Germania di Konrad Adenauer ciò che il maresciallo Pétain e Pierre Laval avevano cercato di fare con Adolf Hitler. Lo spirito delle due politiche è alquanto diverso, ma in entrambi i casi la Francia aveva capito che i due Paesi, se non volevano distruggersi a vicenda, dovevano andare d’accordo.

Corriere La Lettura 18.3.18
Michelangelo, tentazioni luterane
Dopo di lui credere diventa teatro
di Arturo Carlo Quintavalle


Due concezioni del divino, due modi di pensare il rapporto fra uomo e Dio attraversano il Cinquecento, il secolo dove è più duro il confronto fra religiosità diverse: Chiesa cattolica e chiese protestanti. Nella Vita di Michelagnolo Buonarroti , Ascanio Condivi nel 1553 scrive: «Fece anco, per amor di lei (Vittoria Colonna, ndr ), un disegno d’un Gesù Cristo in croce, non in sembianza di morto, come comunemente s’usa, ma in atto divino col volto levato al Padre».
Nella mostra L’Eterno e il Tempo tra Michelangelo e Caravaggio , curata da Antonio Paolucci e Gianfranco Brunelli e aperta fino al 17 giugno ai Musei San Domenico di Forlì, due dipinti di Marcello Venusti (1550) sembrano muovere dai disegni di Michelangelo dove il corpo di Gesù evoca il sublime della statuaria antica nel vuoto del paesaggio. Esposto c’è il grande Cristo Portacroce di Michelangelo ritrovato a Bassano Romano (1513-1515), prima versione del Cristo di Santa Maria sopra Minerva : il corpo che evoca l’antico, in una mano i simboli del martirio, un braccio lungo il corpo come nel David dell’Accademia, a Firenze. Il confronto che, fin dal secondo decennio, contrappone Michelangelo e Raffaello (meditazione sul divino da una parte, messa in scena e racconto di storia dall’altra) ricompare ancora ne La pesca miracolosa , l’arazzo vaticano disegnato (1515-1519) dall’urbinate.
Sono oltre duecento i capolavori esposti a Forlì: dall’ultimo Michelangelo a Caravaggio, passando per Rosso Fiorentino, Lorenzo Lotto, Pontormo, Sebastiano del Piombo, Bronzino, Vasari, Daniele da Volterra, El Greco, Federico Barocci, Veronese, Tiziano, Federico Zuccari, Domenico Beccafumi, Giuseppe Valeriano. Il racconto delle passioni è evidente nella Deposizione (1524) di Correggio recitata come in Niccolò dell’Arca, mentre Giorgio Vasari, in un’altra imponente Deposizione (1539-1540), cerca di unire storia, ritratto, paesaggio, insomma Raffaello, e vigore, densità dei corpi di Michelangelo. Ma il confronto fra le due concezioni delle immagini è chiaro dopo la presentazione del Giudizio di Michelangelo alla Sistina (1534-1541): spazio di nudi, spazio sospeso fuori della storia.
È tempo ormai di scontri frontali. Per rispondere alle critiche di Lutero, il Concilio di Trento (1545-1563) concepisce una nuova funzione delle immagini, Bibbia dei poveri, e la Compagnia di Gesù (1540), con Ignazio di Loyola, e la Congregazione di San Filippo Neri chiedono agli artisti una rappresentazione quasi tangibile delle passioni dei santi. Dunque, per i luterani, la giustificazione per fede, il diretto rapporto col divino, quel divino che Michelangelo rappresentava, evocando Savonarola, lontano da ogni orpello, il corpo umano come segno stesso di Dio; di contro una grandiosa macchina narrativa che diventa dominante dalla metà del secolo.
Le tracce di questi «conflitti» si ritrovano nel percorso della mostra. Così Marco Pino propone un Battesimo di Cristo (1564) ricco di citazioni della Maniera, così Federico Barocci racconta l’ Istituzione dell’Eucaristia (1607) come grandioso teatro di gesti e passioni; così Giovanni Battista Pozzo narra il Martirio di Santa Caterina (1588) con dovizia di corpi muscolosi e angeli volanti in azzurri cieli. Ma è verso la fine del secolo che la sintesi dei Carracci propone un nuovo modello dove il realismo dei dettagli si sposa alla simbologia della luce. Certo, a monte de La caduta di San Paolo di Ludovico Carracci (1587-1588) c’è sicuramente l’affresco di Michelangelo della Cappella Paolina, ma il sentiero di luce dell’affresco vaticano, che simboleggia la Grazia individuale, diventa qui luce diffusa, spazio per una messa in scena di gesti e moti d’animo.
Ormai il racconto della pittura usa le figure come statue, come nell’ Annunciazione di Giuseppe Valeriano e Scipione Pulzone (1586-1588) e, mentre tramonta la «maniera» del Cavalier d’Arpino come nel correggesco San Sebastiano di Napoli (1605-1608), Guido Reni nella Trinità (1607-1608) ripropone il corpo sublime del Cristo come una statua antica ormai velata di polvere. Certo Caravaggio, nella Madonna dei Pellegrini (1605), inventa una luce che viene da lato e che illumina, insieme, Madonna, Bambino e i due poveracci in ginocchio, ma ormai la vulgata narrazione cattolica la propone Peter Paul Rubens nell’ Adorazione dei pastori (1608), raffinata messa in scena di un controllato teatro. È lontana ormai la visione dell’assoluto di Michelangelo, è lontano il dialogo diretto col divino dei luterani. Credere è, da adesso e per due secoli, teatro di figure. E la mostra di Forlì lo prova con forza.

Corriere La Lettura 18.3.18
L’arrivo di Trump ci ha dato la sveglia nel sogno di King
Parla Jesse Jacson
di Giuseppe Sarcina


«Ehi Ben, stasera mi suoni Take my Hand, Precious Lord ? Ah, ecco Jesse. Ehi Jesse, sei in ritardo…». Un colpo di fucile interrompe l’allegria di quella mattina e la vita di Martin Luther King. Cinquant’anni fa: il 4 aprile 1968. «Sono una delle ultime persone con cui ha parlato il dottor King», racconta a voce bassa quel «Jesse» cioè Jesse Jackson, 76 anni, nato a Greenville nella Carolina del Sud, leader storico della comunità afroamericana, candidato alle primarie democratiche per le presidenziali del 1984 e del 1988.
Il 3 aprile 1968 Martin Luther King era arrivato a Memphis, nel Tennessee. C’è una foto che lo ritrae sul balcone dell’hotel Lorraine, con due uomini al suo fianco: il reverendo Ralph Abernathy e Jesse Jackson. Sullo stesso terrazzino fu assassinato il giorno dopo da James Earl Ray, un fanatico suprematista bianco. La gigantografia di quell’immagine domina l’atrio della «Rainbow Push Coalition», l’organizzazione fondata da Jackson nel 1984. Un edificio basso sulla 50ª strada nel South Side di Chicago. A poche centinaia di metri c’è la casa di Barack Obama. Dalla 66ª strada comincia la terra degli omicidi e delle gang afroamericane: uno dei quartieri più pericolosi d’America.
In questi giorni Jackson è impegnato a sostenere i candidati in corsa per venti cariche: un senatore dell’Illinois, i deputati, il governatore, lo sceriffo e altri funzionari statali e comunali. Riceve «la Lettura» in jeans e maglia scura nel suo piccolo ufficio. Sulle pareti immagini degli anni Sessanta e Settanta. Qua e là scatoloni pieni di volantini, una pila di cappellini da baseball e un pallone da basket.
Ci racconta quella foto del 3 aprile 1968?
«Eravamo appena arrivati a Memphis. Era una delle nostre tappe per organizzare la “Campagna per i poveri”, una grande marcia da tenere più avanti a Washington. Molte persone, molti attivisti erano venuti davanti all’hotel Lorraine per salutare King. Lui si fermò sul balcone a rispondere. Si trovava più o meno nello stesso punto dove fu assassinato il giorno dopo, alle 18. Quella sera mi vide arrivare, stavo attraversando il cortile. Mi gridò: “Jesse, sei in ritardo”. In realtà era lui che aveva fatto tardi. Abbiamo riso. Poi si sporse verso una macchina parcheggiata lì sotto. Dentro c’era un amico musicista, con il suo sassofono. “Ehi Ben (Ben Branch, ndr ) stasera me la suoni la mia canzone preferita? Suonala bene, eh...”. A quel punto si sentì un colpo di fucile. Cominciai a urlare: “Stai giù, stai giù”. Corsi di sopra, tutti si disperavano: “Non ci lasciare ora, non ci lasciare”. Ma era già morto. Telefonai io a sua moglie: “Miss King, hanno ucciso Martin”».
Come lo aveva conosciuto?
«All’aeroporto di Atlanta nel dicembre del 1964. Stava andando a Oslo a ritirare il premio Nobel per la Pace. Io facevo parte del movimento studentesco, avevo letto i suoi scritti ed ero appena uscito di prigione per aver partecipato alle proteste. Gli dissi che volevo lavorare per lui e così cominciai. Poi nel 1966 venne a Chicago e mi chiamò per aprire e dirigere una Sclc (Southern Christian Leadership Conference, ndr ). Ma, mi scusi, ha detto che lei è italiano?».
Sì…
«Molte lingue, uno stesso messaggio. Era quello che diceva spesso King. Dobbiamo trovare un minimo comune denominatore di civiltà. Noi abbiamo globalizzato i capitali, le tecnologie, lo sport. Ma non abbiamo globalizzato i diritti umani, i diritti dei lavoratori e delle donne, la tutela dell’ambiente. L’opera della globalizzazione non è terminata. Ricordo uno degli ultimi compleanni che ho passato con King. Erano le nove del mattino del 15 gennaio. Convocò una mezza dozzina di noi collaboratori nel suo ufficio della chiesa. In quella stanza c’erano bianchi poveri dei monti Appalachi, afroamericani del profondo Sud, latinos del Sud Ovest, nativi americani, un ebreo di New York. Ci disse: “Siamo un gruppo multirazziale e multiculturale, lavoriamo insieme per pianificare la Campagna contro la povertà”. King non credeva nella supremazia di alcuna razza, di alcuna cultura sull’altra. Nel frattempo arrivò la torta e ridemmo, festeggiammo tutti insieme. Alle due del pomeriggio di quello stesso giorno mi disse che aveva intenzione di schierarsi contro la guerra in Vietnam».
E prese forma la dottrina dei «tre mali»: il razzismo, la povertà e il militarismo, formalizzata in un discorso del 10 maggio 1967. King stesso notò come molti attivisti lo criticarono per aver esteso la sua battaglia alla guerra nel Vietnam…
«King pensava che le bombe sganciate in Vietnam colpissero anche le parti più abbandonate delle nostre città. Voleva far rivivere la lotta alla povertà nella guerra in Vietnam, perché la spesa militare sottraeva risorse alla battaglia contro la miseria. È una lezione che vale anche oggi. Eccoci qui, cinquant’anni dopo, con circa il 50% del bilancio federale assorbito dalle spese militari (886 miliardi di dollari, la metà delle “spese discrezionali”, ndr ). Da una parte abbiamo ordigni sofisticati, direi esotici, per uccidere le persone, oltre a 8 milioni di armi semiautomatiche nelle mani della popolazione; dall’altra il 44% di tutti gli americani guadagna meno di 15 dollari all’ora; il 54% dei latinos e degli afroamericani meno di 15 dollari all’ora; c’è chi non arriva a 10 dollari all’ora. Le differenze sociali sono diventate ancora più profonde. I pochi hanno sempre di più e i molti hanno sempre di meno».
Nel 1963, nella lettera dalla prigione di Birmingham in Alabama, King descriveva la segregazione come fenomeno congenito nel sistema economico e sociale. Pochi giorni fa, il 27 febbraio 2018, durante l’audizione alla Camera del neopresidente della Federal Reserve, Jerome Powell, diversi deputati hanno chiesto perché le banche respingano più frequentemente le domande per un mutuo presentate da cittadini neri rispetto a quelle dei bianchi.
«È un problema reale. Durante la recessione le case dei neri e dei latino s sono state le più colpite. Il sabato i neri e i bianchi si trovano negli stadi: giocano insieme e insieme guardano le partite. Ma le comunità black non si sono ancora riprese dalla recessione. Donald Trump si vanta di aver ridotto il tasso di disoccupazione degli afroamericani, ma la percentuale è sempre il doppio rispetto a quella dei bianchi. Ciò significa meno risorse per le case, l’istruzione, la salute».
In questi cinquant’anni la battaglia degli afroamericani è sempre stata intensa come era nei piani di King?
«Quando fu ucciso, provammo la sensazione che sarebbe andato perso il momento per ridefinire le istituzioni della moralità e della politica americane. E quell’enorme responsabilità si scaricò su di noi. Non potevamo arrenderci. Non potevamo restare indifferenti. Ci concentrammo nella lotta contro la povertà, contro la guerra, organizzammo convention con migliaia di persone ad Atlanta, Detroit, Los Angeles, Cleveland e altre città. Organizzammo il campo della “Resurrection City” (accampamento sulla Mall di Washington, ndr ). C’era un clima difficile. Il governo era stato contro King e ora era contro di noi. Poi arrivò l’assassinio di Robert Kennedy. Boom, boom. Fu un doppio colpo in pochi mesi».
Sono arrivate altre epoche…
«Certo, e qualcuno delle nostre comunità si è trovato anche in condizioni più favorevoli. Io mi sono presentato due volte alle primarie del Partito democratico. Nel 1988 abbiamo fatto una grande campagna per provare a cambiare le regole del gioco e dare più peso al voto popolare. Ma non ci siamo riusciti. Poi abbiamo appoggiato Obama, che abita qui dietro l’angolo…»
E oggi Trump è alla Casa Bianca…
«Trump ha risvegliato la minaccia della supremazia bianca. Con la sua ristretta visione del mondo fondata sull’isolazionismo, con l’esaltazione delle forze a favore della guerra, simili a quelle che sostenevano l’intervento in Vietnam. Ma in realtà sta tornando il nostro momento, il “momento” degli anni di King. Nella storia queste cose vanno e vengono. All’epoca avevamo soprattutto la speranza. Ora abbiamo anche il voto, che cinquant’anni fa non avevamo. E abbiamo imparato come usarlo, adesso sappiamo che cosa dobbiamo fare per registrarci prima di ogni elezione. Abbiamo la coalizione: siamo con il movimento delle donne MeToo, siamo con i latinos che si battono per i Dreamers (i figli degli immigrati irregolari che il governo vorrebbe espellere, ndr ) . E inoltre abbiamo i dollari. Molti afroamericani sono manager nella Silicon Valley e in altre grandi aziende. Possiamo contare su più risorse finanziarie. Abbiamo vinto la competizione per il governatore della Virginia. Abbiamo sconfitto Roy Moore, il candidato di Trump per il seggio del Senato in Alabama. Sì, è il nostro “momento”».
King si confrontò e si scontrò con alcune correnti che ammettevano anche l’uso della forza, se non della violenza, come metodo politico. È una discussione ancora attuale?
«Non credo. Il metodo della non violenza, che King ricavò da Gandhi, è la strada maestra. E King come Gandhi si è sacrificato e ha sofferto, non ha mai avuto paura della prigione e della morte. Gandhi come King aveva la capacità di risolvere i conflitti senza la necessità non solo dello scontro fisico, o del linguaggio violento. La violenza è controproducente: serve solo a dare più forza a chi ha le armi, alla polizia che spara contro i neri, che porta i tank nelle strade. Lo ripeto: noi oggi sappiamo che c’è più potere nelle urne che nelle pallottole».

Corriere 18.3.18
Martin Luther King
Nella storia Il grande predicatore nero raccolse l’eredità di lunghe battaglie per l’emancipazione
Un pastore battista coerente discepolo di Cristo e Gandhi
di Tiziano Bonazzi


Ai primi di aprile del 1968 Martin Luther King era a Memphis, nel Tennessee, per sostenere lo sciopero dei lavoratori neri della nettezza urbana. Il 3 aprile tenne uno dei suoi discorsi più famosi: «Sono stato in cima alla montagna», quasi una profezia, nel quale disse che, al pari di Mosè che aveva visto la Terra promessa dal monte Nebo, ma non aveva potuto entrarvi, forse neppure lui vi sarebbe entrato; ma Dio gli aveva consentito di salire in cima alla montagna e di vederla, la Terra promessa del popolo nero, per cui: «Sono felice stasera. Non ho paura di nulla e di nessuno». Il giorno dopo King, che aveva ricevuto molte minacce di morte, venne ucciso da James Earl Ray, un assassinio ancora in parte avvolto nel mistero.
Martin Luther King con la sua azione e la sua morte è diventato l’icona della lotta degli afroamericani per la libertà e i diritti civili. Tuttavia non so fino a che punto siamo pronti ad accettare che King sia stato un afroamericano, con una visione che da lì è partita, dalla cultura nera americana nata dalla distruzione delle tante tradizioni ed etnie degli africani ridotti in schiavitù. Una enorme devastazione culturale alla quale schiavi e neri liberi risposero creando una cultura nuova che era nera e americana assieme, perché i neri nella quasi totalità hanno sempre voluto essere americani, liberi negli Stati Uniti. Fare di King un simbolo universale implica l’esigenza di non togliergli la sua storia specifica di afroamericano e di americano.
Nel nostro Paese ateo e cattolico non si ama neppure ricordare che King fu, innanzitutto e sempre, un pastore battista, figlio e nipote di pastori battisti, la Chiesa nera per eccellenza, con una fede estatica e poca teologia; la Chiesa che ha sempre visto nel ritorno di Israele a Canaan la figura della raggiunta libertà dei neri e questa come un’uscita dal peccato e un ritorno a Cristo. Battendosi per i diritti civili King si batteva per Cristo e così lottava per l’America. Voleva essere il pastore della nazione come hanno detto tanti che lo hanno conosciuto. Intendeva redimere l’anima dell’America. Parole che Oltreatlantico pesano.
King incarna il movimento per i diritti civili, che, però, non si riduce a lui, anzi, egli ne è il frutto perché il movimento era già vivo molto tempo prima, con la resistenza silenziosa alle cosiddette leggi di Jim Crow, che a fine Ottocento stabilirono la segregazione razziale negli Stati del Sud e subito vennero dichiarate costituzionali dalla Corte suprema. L’impegno continuò con la nascita nel 1909 della National Association for the Advancement of Colored People (Naacp), un’associazione di neri e bianchi per garantire l’uguaglianza di tutti i cittadini. Quel movimento crebbe e si divise fra un’ala integrazionista, sotto la guida di Booker T. Washington, e una radicale, con il grande attivista e intellettuale W. E. B. Dubois. Negli anni Trenta il giamaicano Marcus Garvey gettò ad Harlem, quartiere afroamericano di New York, le basi del nazionalismo nero che sarebbero state riprese trent’anni dopo dal Black Power di Stokely Carmichael.
Una storia di cui il movimento per i diritti civili degli anni Cinquanta e Sessanta è un capitolo fondamentale, ma solo un capitolo. La storia, soprattutto, di un movimento di base, una rete di attività e associazioni locali che a centinaia apparivano, scomparivano, tornavano continuamente in vita.
Nel 1954, a 25 anni, King divenne pastore della chiesa battista di Dexter Avenue a Montgomery, in Alabama, una delle città dove la segregazione e la resistenza nera erano più aspre, e venne subito assorbito dalle attività politiche degli afroamericani in quella situazione difficile. Nello stesso anno un caso giudiziario di test promosso dalla Naacp portò la Corte suprema, nella causa denominata Brown contro Board Education («ufficio scolastico»), a dichiarare incostituzionale la segregazione nelle scuole. Fu la prima grande vittoria del movimento. Nel dicembre 1955 a Montgomery la sarta e attivista nera Rosa Parks rifiutò di cedere il posto a un bianco su un autobus segregato della città e venne arrestata. Le organizzazioni afroamericane guidate dal pastore Ralph Abernathy diedero allora vita a un boicottaggio dei bus cittadini a guidare il quale fu chiamato King, che venne a sua volta arrestato, ebbe la casa incendiata da una bomba, ma non arretrò. Dopo oltre un anno di lotta, gli autobus di Montgomery furono desegregati e King era diventato una figura di rilievo nazionale.
Mentre maturava come leader politico, egli elaborò la teoria della non violenza a partire dalle parole di Gesù: «Chi di spada ferisce di spada perisce» arricchite dall’incontro con il pensiero di Gandhi già propalato da altri attivisti neri. Gesù, Gandhi e David Thoreau, il grande filosofo e poeta antischiavista che scelse il carcere pur di non appoggiare la guerra di aggressione contro il Messico del 1846, furono i pilastri del suo pensiero. Vari leader afroamericani come Robert F. Williams, prima delle Pantere nere degli anni Sessanta o anche di Malcolm X, praticavano invece la resistenza armata come forma di autodifesa.
King li contrastò; ma non fu un pacifista assoluto. La non violenza era per lui un sistema di vita, un atteggiamento etico che lo portò a non rispondere mai alle ripetute aggressioni che subiva; ma, come per Gandhi, essa era uno strumento di lotta, uno strumento dei forti per ottenere risultati. Fu il metodo che seguì in tutte le manifestazioni che organizzò, come, ad esempio, le marce del marzo 1965 da Selma a Montgomery per il diritto di voto ai neri, in cui le violenze della polizia contro migliaia di manifestanti pacifici suscitarono una tale protesta da consentire l’approvazione nello stesso anno del Voting Rights Act, la legge che pose fine alla discriminazione razziale che impediva ai neri di votare alle elezioni.
King, con Gandhi e Nelson Mandela, è l’icona di un conflitto che ha posto i bianchi faccia a faccia con la loro eredità politica più preziosa e non di rado dimenticata, quel principio di uguaglianza delle Rivoluzioni americana e francese che abbiamo ormai capito non essere il portato necessario del progresso o di un atto rivoluzionario. Sono conquiste che si perdono facilmente e per le quali occorrono una lotta, pacifica ma vera, e una sorveglianza continua.