Repubblica 17.3.18
La storia
Bisanzio brucia nella crociata dimenticata
di Silvia Ronchey
Nel
1204, due secoli prima di cadere in mano turca, Costantinopoli fu presa
dai “fratelli” latini. Parte del suo patrimonio di arte e cultura passò
a Venezia. Ora nuovi studi ricostruiscono quell’episodio drammatico
Il
13 aprile 1204, in una fredda giornata di primavera, una colonna di
profughi dall’aspetto di fantasmi si incamminò fuori dalla grande città
di Costantinopoli. Era “gente vestita di stracci, emaciata dal digiuno,
trascolorata, cadaverica, con gli occhi così rossi che parevano colare
sangue anziché lacrime”.
Erano stati torturati, depredati delle
loro case e dei loro beni, avevano visto rapite le loro mogli,
violentate le loro figlie. Non erano stati i turchi a compiere quello
scempio, come sarebbe accaduto due secoli e mezzo dopo, nel 1453.
Erano
stati i crociati occidentali. E non era contro gli infedeli che lo
avevano portato, ma contro i loro correligionari, i bizantini.
La
ferocia di quella singolare guerra santa ebbe tra i suoi testimoni
oculari il più acuto, spregiudicato e disincantato degli osservatori
politici dello Stato più prospero del medioevo: lo storico Niceta
Coniata, massimo intellettuale della sua generazione, segretario del
basileus fino a poco prima in trono ma anche suo indomabile critico,
pensatore indipendente e non certo corifeo del potere, della cui opera è
ora stata completata dalla Fondazione Lorenzo Valla l’edizione italiana
( Grandezza e catastrofe di Bisanzio — Narrazione cronologica,
traduzione
di A. e F. Pontani, testo greco a cura di J.-L. van Dieten,
introduzione di G. Cavallo, Fondazione Valla Mondadori, tre volumi).
Come
ha scritto Steven Runciman, le crociate furono “le ultime invasioni
barbariche”. I “barbari”, nelle frasi di Niceta, non sono gli islamici,
che anzi i bizantini difesero strenuamente quando fu attaccata la locale
moschea, ma quell’“accozzaglia di stirpi oscure e disperse” che erano
gli eserciti latini, quei “precursori dell’Anticristo” che “portavano la
croce cucita sulle spalle” e che in quei giorni di aprile del 1204
avevano devastato la culla stessa dell’impero romano cristiano, la città
che ne custodiva da nove secoli l’identità religiosa oltre che
l’eredità artistica, culturale, bibliografica così come la vocazione
politica: un modello di Stato multietnico, meritocratico e
sostanzialmente egualitario, dotato di una struttura diplomatica
rivolta, come l’aquila bicipite, tanto a oriente quanto a occidente.
I
profughi che si incamminavano “come una colonia di formiche” stanata
dal fuoco avevano assistito al “più grande saccheggio della storia del
mondo”, come lo definì lo stesso cronista francese Goffredo di
Villehardouin che vi aveva partecipato al seguito di Bonifacio di
Monferrato. Le atrocità perpetrate dai cavalieri della quarta crociata
sono testimoniate non solo dagli storici bizantini ma anche dai cronisti
occidentali, nonché dal papa che l’aveva indetta, Innocenzo III,
inorridito nel suo epistolario. La Città traboccava di capolavori d’arte
e di inestimabili libri. Ma ad attrarre gli incolti latini era il fatto
che, secondo i loro calcoli, contenesse i due terzi delle ricchezze del
mondo conosciuto. Portarono “abominio e desolazione” nel Sacro Palazzo
del Boukoleon, coprirono di sterco i marmi policromi della Grande Chiesa
di Santa Sofia. Si precipitavano furiosi e urlanti per le strade
distruggendo ogni cosa non apparisse trasportabile, fermandosi solo per
trucidare gli abitanti e per spalancare le cantine e dissetarsi con il
loro vino. Non risparmiarono monasteri, né chiese, né antichi monumenti,
lasciarono bruciare gli archivi e le biblioteche. Una parte dei
classici greci oggi perduti sarebbe arrivata fino a noi, non fosse stato
per quella vandalica insipienza. Nel viaggio degli antichi testi la
presa di Costantinopoli del 1204 segnò un naufragio paragonabile
all’incendio della biblioteca di Alessandria.
Ciò che i veneziani
non portarono a casa i francesi distrussero. I cavalli di bronzo dorato
dell’Ippodromo sono oggi noti come Cavalli di San Marco, altre
inestimabili opere d’arte formano il ricco bottino oggi conosciuto come
Tesoro di San Marco. Ma le altre antiche statue bronzee dell’Ippodromo e
quelle del Foro di Costantino furono fatte a pezzi e fuse. Nella stessa
Santa Sofia si potevano vedere soldati ubriachi saccheggiare le
reliquie, strappare i paramenti, svellere le suppellettili, calpestare i
libri sacri e le icone, dilaniare gli arazzi.
L’orrore continuò
per giorni, finché la capitale dell’ortodossia fu ridotta, scrivono i
testimoni, a un macello. Perfino i saraceni, annotò Niceta, sarebbero
stati più misericordiosi: “Dalla gente latina, ora come allora, Cristo è
stato di nuovo spogliato e deriso, e le sue vesti sono state spartite, e
il fiume del Sangue Divino ha di nuovo inondato la terra”, lamenta alla
fine della sua opera.
La presa latina di Costantinopoli del 1204 è
l’esempio più notevole di quella cruda verità economica delle crociate
di cui, al di là dell’ideologia o della retorica confessionale, un libro
dello storico oxfordiano Christopher Tyerman, in uscita in traduzione
italiana, spiega in dettaglio mentalità, pragmatismo, finalità materiale
e obiettivi strategici (C.
Tyerman, Come organizzare una
crociata, Utet). Si parla di “deviazione” della Quarta Crociata, quasi
fosse stata un’idea repentina e non un preciso piano di conquista, già
prospettato da Federico Barbarossa e da Enrico VI. Ben prima di entrare a
Costantinopoli gli alleati avevano minuziosamente discusso e
patteggiato tra loro, e soprattutto con Venezia, la spartizione
dell’impero che avrebbero sostituito a quello bizantino, istituendo
anche una gerarchia ecclesiastica cattolica al posto di quella ortodossa
e insediando sul soglio patriarcale un veneziano.
L’alleanza
della Realpolitik dei papi di Roma con l’Europa dei traffici, del
protocapitalismo delle repubbliche mercantili, portò, con il successivo
aiuto dei turchi, alla distruzione di una realtà politica che aveva
garantito per secoli benessere e pace governando i conflitti fra le
diverse etnie in un immenso territorio unificato dalla lingua greca,
dalla religione cristiana, dal diritto romano, dominato da un
formidabile sistema di pubblica istruzione e di cooptazione nelle
burocrazie che assicurava il dinamismo delle élite e il loro costante
ricambio sociale.
Per cinque giorni Niceta, la moglie incinta e il
loro gruppo di amici dell’intelligencija costantinopolitana rimasero
nascosti. Poi anche loro dovettero sfollare strisciando per i vicoli, i
bambini piccoli in spalla, il viso delle ragazze mimetizzato col fango,
in direzione della Porta d’Oro. Appena superate le sue torri, Niceta si
gettò a terra e inveì contro le grandi mura di Teodosio: perché si
reggevano ancora dritte in piedi? non vedevano che la civiltà che
custodivano era finita? Poi, “gettando lacrime come semi” lungo la loro
strada, si incamminarono per ricongiungersi al resto degli esuli e al
governo in esilio insediato a Nicea, in Asia Minore. Ma quella che
Niceta, partito da Costantinopoli con in mano solo il suo manoscritto,
pianse come un’irrimediabile fine si rivelò un inizio. Per più di
cinquant’anni l’impero di Nicea coltivò non solo la resistenza politica
ma anche quella culturale, ricreando un sistema scolastico e
universitario, proseguendo la produzione libraria. Quegli intellettuali
avevano imparato una lezione: i barbari esistevano. Non erano i popoli
che si diceva avessero fatto cadere l’impero romano d’occidente,
diversamente da quello d’oriente, che era stato invece capace di
assimilarli e accoglierli nella sua classe dirigente. Erano i figli del
feudalesimo, che il sistema statale di Bisanzio aveva sempre combattuto,
e di quel “satanico spirito del commercio”, per citare Baudelaire, da
sempre incompatibile con la mentalità bizantina, dove la diffidenza dei
cittadini verso il mercato e il rifiuto delle premesse etiche della
mercatura espresso dagli intellettuali si univa alla condanna teologica
del profitto e del lucro.
Anche dopo la riconquista del 1261 e
l’insediamento della nuova dinastia dei Paleologhi, la guerra tra
banchieri — genovesi e veneziani — continuerà a devastare economicamente
e militarmente Bisanzio, a scarnificare quell’istmo culturale e
strategico tra oriente e occidente. Ma per quanto cieche possano essere
le strategie finanziarie e belliche, gli intellettuali possono sempre,
discretamente, mobilitarsi.
Sempre di più si affermerà, tra i
protagonisti della cosiddetta rinascenza paleologa, la coscienza
dell’insopprimibilità di un’arma incruenta: la cultura. Il duello dei
governanti, il risentimento delle masse, lo scontro delle chiese saranno
trascesi da una simmetrica e inversa, silenziosa e superiore
solidarietà tra umanisti orientali e occidentali. Sarà l’inizio di
quella sempre più fitta circolazione di maestri e libri, liberamente
scambiati dall’internazionale dei dotti, che darà vita a ciò che
chiamiamo “il” rinascimento. L’antica cultura oltraggiata dai crociati
conquisterà la loro stessa patria, la loro stessa curia, la stessa
repubblica di Venezia, dove sorgerà, per volere di un umanista
bizantino, Bessarione, la prima biblioteca pubblica della storia
occidentale moderna. Da Bisanzio verranno e si metteranno all’opera,
alacri, i copisti. Nascerà la stampa e non uno ma dieci, cento, mille
libri sorgeranno sulle ceneri di quelli distrutti, insieme alle vite dei
loro possessori, nella primavera del 1204.