sabato 17 marzo 2018

Corriere 17.3.18
Noi padri e l’algoritmo delle emozioni
Siamo diventati i migliori amici dei figli, ma non basta. È un altro il terreno su cui dobbiamo imparare a muoverci. Ed è più impervio
di Massimo Sideri


Noi padri sapiens — prima generazione dall’età della pietra capace di gestire le complesse tecnologie artificiali del pannolino, del biberon, del ciuccio e della favola a letto — siamo a metà del guado. Pensavamo di avere concluso il nostro salto darwiniano: più amici che papà, più affettuosi che autoritari. Ma ora scopriamo che non basta: la cosa più complicata è la gestione di una tecnologia naturale che tende a esplodere in una adolescenza sempre più anticipata. Le emozioni. Nulla di grave per i papà sapiens intendiamoci: non è una malattia o un difetto genetico, si tratta solo di migliorare.
Siamo una generazione che sta sperimentando per quelle future. Prima di noi si sentivano ancora sciocchezze di questo tipo: i figli non hanno bisogno dei padri fino a 8-10 anni (in sostanza fino a quando non arrivava l’età per lo stadio...).
Siamo belli — lo dico con orgoglio — quando con la nostra pancetta da papà-startupper giriamo appiccicati ai nostri figli. Siamo passati dai racconti in cui al «padre» si dava del lei a quelli in cui non ci chiamano nemmeno più papà ma per nickname. Ora però il pericolo è crogiolarsi nella soddisfazione di essere stati gli amichetti giusti: ci perderemmo una fase altrettanto importante che è la gestione dell’emotività.
Pensavamo di essere dei papà sapiens ma rischiamo di diventare dei «papà emoji», un faccino sorridente o un viso arrabbiato senza la sfumatura delle vere emozioni in mezzo. Una sorta di disturbo bipolare che, sospetto, faccia parte della psiche maschile.
La buona notizia (la fonte è una donna, dunque attendibile) è che stiamo imparando: la terapeuta dell’adolescenza Stefania Andreoli dopo aver scritto il facile (scherzo) «Mamma, ho l’ansia» si è addentrata per Bur Rizzoli su un tema molto più spinoso: «Papà, fatti sentire. Come liberare le proprie emozioni per diventare genitori migliori». Scrive la Andreoli: «Abbandonato lo stile autoritario, i padri di oggi cambiano i pannolini (fatto, ndr ), giocano con i figli (fatto, ndr ), passano del tempo libero con loro (fatto!! ndr ). Ma allora perché il loro modello è ancora percepito come fortemente in crisi?».
Provo a rispondere io: un amico di giochi non basta. Certo, per chi non ha avuto nemmeno quello è tanto. Ma verso la pre-adolescenza la sfera emotiva si fa sempre più complessa e diventa insufficiente il mito del Pleistocene (oggi si scia, si nuota, si corre e si gioca insieme con la PlayStation... magari si cucina insieme e si va anche alla Scala. Ma non cambia. È una sorta di rituale della caccia 2.0, meno cruenta e molto più divertente).
L’educazione sentimentale non finisce, al limite inizia qui. Gli adolescenti lamentano l’incapacità di comunicare emotività da parte dei padri. Se incrociamo questa informazione con il tema delicato dei social, dove la gestione (e la difesa) delle emozioni diventa di vitale importanza per non crollare sotto la cattiveria che il magma della collettività sembra sprigionare, si capisce quale ruolo cruciale possa avere il padre capace di sviluppare un algoritmo delle emozioni.
Come si fa? Il primo passo lo consiglia crudamente la Andreoli. Quando un padre, come racconta, esclama: «Ah, ma quindi posso mostrare come sto davvero?», lei gli risponde: «Guardi che si vede comunque». (Non la manda a dire).
Su una cosa non sono d’accordo: non siamo un «assemblaggio di fortuna con gli scarti trovati a disposizione». Siamo sperimentatori di frontiera che stanno facendo ciò che gli uomini hanno evitato per millenni.
Solo che dai bambini-figli-adolescenti-social non si finisce mai di imparare. Al Max Planch — istituto tedesco di ricerca — hanno chiesto a dei bimbi piccoli di entrare in una stanza piena di giochi raccomandandosi: dopo di te c’è una lunga fila di altri bambini. Cosa hanno fatto? Hanno racimolato più giochi possibili.
Lo hanno rifatto con bambini con qualche anno in più e la maggior parte di loro si è rifiutata di entrare per primo: troppe responsabilità, forse troppe emozioni relazionali da gestire. Non ci vorremo perdere questa sfida ora...