Repubblica 16.3.18
Aldo Moro. Cronache di un sequestro / 2
Via Fani ore 9,05 tutto è già finito
È
il 16 marzo 1978. I brigatisti si sono svegliati presto, hanno fatto
colazione e hanno ripassato il piano È un’operazione militare “
perfetta”: il presidente della Dc e la scorta finiscono in trappola.
Cadono cinque agenti Sull’asfalto, 93 bossoli e un paio di baffi finti.
In tre minuti l’Italia piomba nell’incubo. E in quarant’anni di misteri
di Ezio Mauro
Alle
sette del mattino Valerio Morucci e Franco Bonisoli avevano fatto
colazione nell’“ufficio”, come le Br chiamavano le due stanze e cucina
di via Chiabrera, covo dell’ultima notte. Poi avevano indossato le
divise azzurre da aviere che Adriana Faranda aveva comperato da quindici
giorni per 42 mila lire da Cardia, un negozio specializzato in via
Firenze 57. Mentre Raffaele Fiore si calava in testa il berretto blu con
la visiera uscendo in maglione e camicia bianca dalla casa di Bruno
Seghetti, Prospero Gallinari nella base di via Montalcini controllava le
mostrine dorate che Anna Laura Braghetti aveva cucito due giorni prima
sulla sua divisa. Le armi a canna lunga erano dentro un borsone scuro
sul quale i brigatisti avevano appiccicato una scritta verde
autoadesiva: Alitalia. Infilarono gli impermeabili blu, per nascondere
le pistole che portavano addosso. Gallinari si versò ancora una tazza di
caffè, in piedi nella cucina schermata dalle grandi tende chiare.
Uscirono alle 7,45, come ordinava il piano, calandosi nella mappa
stradale che portava alla tragedia e trasformava quel giovedì di marzo
in una carneficina. Erano i quattro del gruppo di fuoco.
Adesso,
quarant’anni dopo, ogni volta che incontra gli assassini di suo padre e
dei cinque uomini della sua scorta Agnese Moro parte da una domanda:
«Come avete potuto mettervi la sveglia, dormire, alzarvi per andare a
uccidere?». Lo hanno fatto, quel giorno. Escono dai covi dove Adriana
Faranda accende subito la radio sulle frequenze delle pattuglie di
polizia e carabinieri, per cogliere allarmi, sorprese, conferme, mentre
la Braghetti si sintonizza immediatamente sui notiziari radio e tv,
tutti accesi a basso volume, aspettando la notizia. Moretti e Balzerani
si sono mossi prima, lasciato il covo di via Gradoli hanno percorso
ancora una volta via Fani, senza registrare nessun intoppo. Alle 8 e
mezza ciascuno è al suo posto, per l’ultimo ok di Moretti. Rita
Algranati più indietro di tutti, su in alto, per avvistare per prima le
due auto, dare il segnale e andarsene subito con la Vespa già
posteggiata sul marciapiede. Barbara Balzerani a due metri dallo stop
decisivo, con paletta e Skorpion sotto il giaccone, pronta a fermare il
traffico che sale su via Stresa, Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri già
sulla 128 blu che dovrà bloccare la strada mettendosi di traverso con
via Madesimo, i quattro attentatori in attesa dietro la siepe del bar
Olivetti (sbarrato dopo il fallimento) come se aspettassero un pullman,
ma con le armi pronte nel borsone già aperto.
La 130 blu
ministeriale targata Roma L59812 ha appena svoltato in via Fani. Ha
87.176 chilometri, un bollo fino ad agosto, l’assicurazione Alle sette
del mattino Valerio Morucci e Franco Bonisoli avevano fatto colazione
nell’“ufficio”, come le Br chiamavano le due stanze e cucina di via
Chiabrera, covo dell’ultima notte. Poi avevano indossato le divise
azzurre da aviere che Adriana Faranda aveva comperato da quindici giorni
per 42 mila lire da Cardia, un negozio specializzato in via Firenze 57.
Mentre Raffaele Fiore si calava in testa il berretto blu con la visiera
uscendo in maglione e camicia bianca dalla casa di Bruno Seghetti,
Prospero Gallinari nella base di via Montalcini controllava le mostrine
dorate che Anna Laura Braghetti aveva cucito due giorni prima sulla sua
divisa. Le armi a canna lunga erano dentro un borsone scuro sul quale i
brigatisti avevano appiccicato una scritta verde autoadesiva: Alitalia.
Infilarono gli impermeabili blu, per nascondere le pistole che portavano
addosso. Gallinari si versò ancora una tazza di caffè, in piedi nella
cucina schermata dalle grandi tende chiare. Uscirono alle 7,45, come
ordinava il piano, calandosi nella mappa stradale che portava alla
tragedia e trasformava quel giovedì di marzo in una carneficina. Erano i
quattro del gruppo di fuoco.
Adesso, quarant’anni dopo, ogni
volta che incontra gli assassini di suo padre e dei cinque uomini della
sua scorta Agnese Moro parte da una domanda: «Come avete potuto mettervi
la sveglia, dormire, alzarvi per andare a uccidere?». Lo hanno fatto,
quel giorno. Escono dai covi dove Adriana Faranda accende subito la
radio sulle frequenze delle pattuglie di polizia e carabinieri, per
cogliere allarmi, sorprese, conferme, mentre la Braghetti si sintonizza
immediatamente sui notiziari radio e tv, tutti accesi a basso volume,
aspettando la notizia. Moretti e Balzerani si sono mossi prima, lasciato
il covo di via Gradoli hanno percorso ancora una volta via Fani, senza
registrare nessun intoppo. Alle 8 e mezza ciascuno è al suo posto, per
l’ultimo ok di Moretti. Rita Algranati più indietro di tutti, su in
alto, per avvistare per prima le due auto, dare il segnale e andarsene
subito con la Vespa già posteggiata sul marciapiede. Barbara Balzerani a
due metri dallo stop decisivo, con paletta e Skorpion sotto il
giaccone, pronta a fermare il traffico che sale su via Stresa, Alvaro
Lojacono e Alessio Casimirri già sulla 128 blu che dovrà bloccare la
strada mettendosi di traverso con via Madesimo, i quattro attentatori in
attesa dietro la siepe del bar Olivetti (sbarrato dopo il fallimento)
come se aspettassero un pullman, ma con le armi pronte nel borsone già
aperto.
La 130 blu ministeriale targata Roma L59812 ha appena
svoltato in via Fani. Ha 87.176 chilometri, un bollo fino ad agosto,
l’assicurazione scaduta il 31 dicembre ’77. La guida come sempre
l’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, di 43 anni, che è andato a
prenderla stamattina presto nel garage del governo a piazzale della
Radio, seduto di fianco c’è il maresciallo Oreste Leonardi, 52 anni,
detto “Judo”. Moro è dietro, accanto a due fascicoli pieni di fogli
posati sul sedile e una 24 ore appoggiata sul pianale, con un’altra
cartella marrone dove sono le carte del suo capolavoro politico, le
larghe intese. Pochi giorni prima le aveva spiegate con queste parole in
un lungo incontro con Eugenio Scalfari: «Se continua così, questa
società si sfascia, le tensioni sociali non risolte politicamente,
prendono la strada della rivolta anarchica, della disgregazione. Se
questo avviene, noi continueremo a governare da soli, ma governeremo lo
sfascio del Paese, e affonderemo con esso».
Adesso sta sfogliando i
giornali sull’auto che corre verso la sua profezia: legge i titoli
dello scandalo Lockheed, sono state appena depositati gli atti di 5 mila
pagine, un ex diplomatico dice che proprio lui è Antelope Cobbler,
donna Vittoria Leone, moglie del presidente della Repubblica, è stata
interrogata dal giudice istruttore per rendere conto dell’assegno
4/9006991 ad Antonio Lefebvre per 140 milioni. Moro scorre il titolo su
Beirut bombardata da Israele in risposta al raid dei fedayn, sfoglia la
pagina su Mstislav Rostropovich che non potrà più tornare in Urss perché
privato della cittadinanza sovietica per il suo «impegno
antipatriottico», vede la polemica del sindaco Argan col Vaticano:
«Basta con Roma città sacra, mi interessa solo che sia una città colta
». Volta pagina mentre una 128 familiare bianca, targata CD 19707, entra
in strada e si mette proprio davanti alla 130: la guida Mario Moretti,
il capo delle Brigate Rosse.
Tre auto stanno correndo in colonna
verso quei settanta metri finali d’asfalto che i terroristi hanno scelto
come teatro del loro attacco e che diventeranno il paesaggio fisso
della più grande tragedia politica italiana del dopoguerra. La 130 di
Moro, l’Alfetta beige targata Roma S93393 che la segue con tre uomini di
scorta, la guardia Giulio Rivera di 24 anni, l’agente Raffaele Iozzino
di 25, il brigadiere Francesco Zizzi, 30 anni, che è al suo primo giorno
di lavoro nel “servizio di tutela”: davanti, quella 128 con la targa
diplomatica si muove come se guidasse il convoglio, è l’unica che sa
cosa sta per accadere, sembra un’auto di famiglia e tra poco farà da
innesco a un vero e proprio piano di battaglia. Rallenta per creare il
vuoto con le macchine che la precedono, accelera perché le due auto di
Moro non la superino. Deve arrivare per prima nel luogo dell’agguato:
per prima e con le due scorte a brevissima distanza. Mancano pochi
metri, la strada scende, si vede l’incrocio, ecco il punto. È qui.
Moretti
mette l’auto leggermente di sbieco per occupare più spazio sulla
strada, poi frena di colpo. Le due macchine dietro inchiodano, l’autista
di Moro, Ricci, fa in tempo a gesticolare per quella manovra
improvvisa. Ma dalla siepe verde davanti al bar Olivetti stanno già
venendo fuori i quattro avieri, arrivano, è il momento dell’inferno, le
9,02.
Hanno preso i mitra dalla borsa, hanno tolto la sicura,
stanno correndo per attraversare la strada. Non c’è tempo per reagire,
forse neppure per capire, nemmeno per afferrare il microfono della
ricetrasmittente e lanciare un allarme. Parte una raffica per l’Alfetta,
dall’alto in basso, prima davanti poi dietro. In contemporanea, scatta
l’attacco alla 130, un’altra raffica per colpire Leonardi, il
caposcorta, che si volta all’indietro per tentare di proteggere Moro e
viene freddato in quella posizione da nove colpi, l’ultimo arriva al
cuore bucando il portafoglio nella tasca della giacca, senza che il
maresciallo possa impugnare la sua Colt 38 Cobra. C’è un urto, doppio:
l’autista dell’Alfetta, Rivera, mentre si accascia colpito a morte da
otto proiettili toglie il piede dalla frizione, l’auto tampona la 130 e
la manda a sbattere contro il parafango della 128 brigatista. Groviglio a
tre, il convoglio è paralizzato. Balzerani ha imbracciato la Skorpion e
sta bloccando il traffico in basso, Casimirri e Lojacono, coi baffi
finti, chiudono lo spazio in alto, con le armi in pugno in mezzo alla
strada. Sono i due “cancelletti” brigatisti che recintano la zona della
morte.
In quel rettangolo d’asfalto c’è spazio solo per gli spari.
Nel massacro Moro è paralizzato, schiacciato contro lo schienale
dell’auto in mezzo al fuoco, con la mano alzata per proteggersi dalle
pallottole, che non sono per lui, e dalla grandinata dei cristalli fatti
a pezzi che volano ovunque, insanguinandogli superficialmente le dita.
Ha visto tutto, non si è accovacciato, forse il maresciallo Leonardi è
riuscito a dirgli qualcosa prima di scivolare morto sul sedile davanti,
proteso verso di lui e voltato verso gli assassini, dentro
quell’abitacolo attraversato dai proiettili, trasformato in trappola.
Morucci
si avvicina all’autista, Ricci, rompe il vetro della portiera ma quando
preme il grilletto non sente più il mitra vibrare, si è inceppato, come
quello di Bonisoli. Anche Fiore non riesce a sparare col suo M12 che si
era portato da Torino in valigia. Allora Ricci tenta di portar via la
130 cercando a colpi di coda e di punta di aprirle un varco nel
tamponamento a tre che la blocca. Avanti e indietro sbattendo tra le
lamiere. Ma proprio lì di fianco c’è una Mini familiare (si scoprirà che
è di una società collegata ai servizi) che occupa spazio: e Moretti,
che nel piano avrebbe già dovuto essere sceso armi in pugno per aiutare
il commando, sta tirando il freno a mano della 128 familiare e schiaccia
fino in fondo il freno a pedale per bloccare la 130, impedirle la
manovra. Finché Morucci cambia il caricatore del suo FNAB-43, si
avvicina e scarica una raffica mortale su Ricci. Tutto si ferma, i
motori si spengono.
Tra gli spari, si apre la porta posteriore
destra dell’Alfetta e l’agente Raffaele Iozzino si getta in strada con
la pistola in pugno. Non si ripara dietro l’auto, cerca i terroristi,
punta la Beretta calibro 9 e riesce a sparare due colpi. Bonisoli, che
ha il mitra inservibile, prende la pistola, tende il braccio e lo
colpisce da due passi. Cade sull’asfalto con le braccia spalancate, il
volto verso il cielo grigio, il revolver a un metro di distanza. Mentre
Gallinari lascia il mitra TZ45, prende la pistola che portava alla
cintura e spara verso gli agenti riversi nelle due auto che si muovono
ancora, Moretti e Fiore spalancano la porta posteriore della 130 (sul
pianale resterà l’impronta della mano di Fiore), afferrano Moro per il
braccio sinistro e lo fanno scendere dall’auto. Arriva Bruno Seghetti
alla guida della 132 blu rubata tre giorni prima, apposta per la fuga.
Caricano Moro sul sedile posteriore, non dice una parola, Fiore è
accanto a lui, Moretti davanti. L’auto parte, accelera e risale via
Stresa, concludendo l’azione dopo tre minuti esatti. Sono le 9,05 quando
Morucci torna indietro, afferra le due borse di Moro appoggiate sul
pianale posteriore e le porta via. Resta sospeso il rombo di una moto
Honda che due testimoni vedono partire per via Stresa subito dopo
l’agguato, con due persone a bordo che forse sparano per copertura, mai
identificate. Così come non si è mai saputo più nulla di un rullino di
fotografie scattate da un appartamento che si affacciava su via Fani,
consegnato al giudice Infelisi e andato perduto.
In via Fani
adesso c’è il silenzio della morte, rotto solo dal rantolo di Francesco
Zizzi, il vicebrigadiere, che respira ancora. Sull’asfalto, attorno al
cadavere di Iozzino rimangono nel sangue 93 bossoli (49 sono di un’unica
mitragliatrice, e fanno pensare a un killer professionista, 22 di
un’altra) il borsone vuoto delle armi, un cappello da pilota Alitalia
capovolto, un paio di baffi finti, l’impronta di una tragedia umana e
politica che durerà per sempre ma che è appena incominciata, con cinque
morti nel suo primo atto.
Hanno sparato per ammazzare,
l’“operazione Fritz” ha un impianto militare che innesca un meccanismo
politico, il prelevamento dell’ostaggio prevede l’annientamento totale
della scorta. Si sono addestrati nei fossi di campagna, in montagna
nelle cave, in qualche grotta, nel giardino di una casa fuori mano a
Velletri, in riva al mare. Per costituire il gruppo di fuoco hanno
scartato le reclute, scegliendo soltanto chi aveva già preso parte ad
assalti terroristici armati. Sorpresa, rapidità, ma anche disponibilità
ideologica al massacro: basta guardare la carcassa delle due auto di
Moro oggi, quarant’anni dopo, passare le dita tra la ruggine sui fori
dei proiettili che hanno fatto saltare i vetri, bucato il parabrezza,
attraversato la carrozzeria.
Adesso stanno scappando. C’è un ex
appuntato di polizia, Antonio Buttazzo, che li insegue con la sua auto,
li tallona per 500 metri, vede nel lunotto un uomo che si dimena sul
sedile posteriore, gli sembra di distinguere una mano che gli appoggia
qualcosa di bianco sul viso: forse un tampone. Alle 9,03 era arrivata la
prima telefonata alla polizia per segnalare gli spari in via Mario
Fani, un minuto dopo un’altra chiamata avvertiva che Moro era stato
rapito, le “volanti” stanno convergendo sul posto, s’incrocia il suono
delle sirene. Ma la 132 con Moro sta già correndo in piazza Monte
Gaudio, è in largo Cervinia, arriva in via Trionfale, poi si lancia
dentro la scorciatoia individuata da Morucci in via Belli, tranciando la
catenella di chiusura per deviare dal percorso naturale, sbucare da
un’altra parte. Stop di un attimo in via Massimi dov’è pronto in attesa
Raimondo Etro per raccogliere le armi a canna lunga che ingombrano la
fuga e farle sparire, poi il primo trasbordo in piazza Madonna del
Cenacolo. Qui un furgone 850 bianco è stato appena portato da Morucci
davanti al muro dell’istituto Don Orione. La 132 targata Roma P79560 lo
affianca. Moro viene fatto scendere ricoperto da un plaid e con gli
occhiali neri da saldatore, in modo che non veda nulla.
Lo fanno
rannicchiare dentro una cassa di legno traforata, lunga 120 centimetri
ma larga solo 80, che Germano Maccari si era fatta costruire da un
falegname, con due maniglie e la serratura con la chiave, dicendogli che
serviva per una spedizione, e che aveva ritirato con Laura Braghetti
due giorni prima del sequestro, per consegnarla a Morucci in un incontro
nel quartiere di Monteverde. I brigatisti fecero le prove,
accovacciandosi all’interno. Adesso, dietro le porte sbarrate del
furgone, in quella cassa viaggiava un uomo, catturato perché leader
politico, trasformato in ostaggio. Con Moro, era chiuso a chiave in
quella gabbia di legno anche l’ultimo capitolo della Prima Repubblica.
Moretti
guida il furgone, munito di sirena per ogni emergenza, la Dyane di
Morucci e Seghetti fa l’accompagnamento, per vedetta e copertura. Per
dieci chilometri, attraverso una città sottosopra che sta impazzendo per
lo shock dell’agguato, della strage e del sequestro, il prigioniero e
l’uomo che lo ucciderà sono soli nell’ 850, uno con la paura di quel che
ha appena fatto, l’altro con l’angoscia di quel che deve ancora
accadere. Moretti guida con prudenza, nel timore di essere fermato e
scoperto, Moro bendato e rinchiuso affonda nel buio senza risposte del
sequestro. C’è un secondo passaggio, nel parcheggio sotterraneo della
Standa di via Newton. Qui la cassa viene trasportata sulla Citroën Ami
familiare di Laura Braghetti e parte per l’ultima tappa della vita di
Moro, in via Montalcini.
E qui, affiorano i dubbi, nascono le
domande, crescono le dietrologie. Il racconto dei terroristi e il
memoriale di Morucci sono diventati realtà processuale, ma molti punti
oscuri rimangono, raccolti dal fratello di Moro, Alfredo Carlo,
magistrato, rilanciati dall’ultima commissione parlamentare d’inchiesta,
quarant’anni dopo: come mai quei due trasbordi dell’ostaggio avvengono
in luoghi così pubblici? Chi erano i due sulla moto Honda subito dopo
l’agguato? E cosa faceva in via Fani il colonnello del Sismi Camillo
Guglielmi? L’operazione militare non è troppo complessa per un commando
di soli quattro uomini? I legami accertati tra il bar Olivetti (dietro
la cui siepe si nascondono i killer) la ‘ ndràngheta e il traffico
d’armi si incrociano in qualche modo con il sequestro? C’è un
collegamento operativo tra le Br e la Raf, l’organizzazione terroristica
che in Germania aveva appena rapito — sei mesi prima — il presidente
della Confindustria tedesca, Hanns-Martin Schleyer? E ancora, gli
avvertimenti internazionali che Moro ha ricevuto per la sua politica di
apertura al Pci, denunciati dalla moglie e dai suoi collaboratori, che
peso hanno in quel marzo 1978? Infine: possibile che non ci sia stata
una prigione di passaggio, vicina a via Fani, magari « con carattere di
extraterritorialità » , come ipotizzò il questore di Roma De Francesco?
L’appartamento al numero 8 di via Montalcini, interno 1, è davvero
l’unico carcere di Moro per tutti i 55 giorni?
I dubbi durano da
quarant’anni. «Il fantasma di mio padre è prigioniero di due pregiudizi —
dice oggi Giovanni Moro —: la dietrologia, per cui tutto quel che
appare non è vero ed è vero solo quel che non appare, e il revisionismo,
per cui tutto è chiaro, anche ciò che non spiega nulla». Ma a via Fani,
in quel primo momento, non funzionano nemmeno i telefoni, tutta la zona
non può comunicare per un blackout, la Sip non si spiega quel che
succede, il sostituto procuratore Infelisi che arriva sul posto parla di
«sabotaggio». Ma qualcuno ha fatto in tempo a portare la notizia nella
parrocchia di San Francesco. Quirino Di Santo, il parroco, avverte
Eleonora Moro, che è nella sala del catechismo. A piedi, da sola, la
moglie di Moro arriva in via Fani, vede l’auto blu, i corpi insanguinati
di Leonardi e di Ricci, i due cadaveri di Zizzi e Rivera rovesciati
sull’Alfetta, un prete che congiunge le mani davanti al corpo di
Raffaele Iozzino coperto dai fogli di giornale, china il capo in una
preghiera, poi fa il segno della croce nell’aria che sa di piombo, di
polvere da sparo, di sangue.
Sono le 10,15. I brigatisti che erano
venuti da fuori per l’“operazione Fritz”, Bonisoli e Fiore, sono già
alla stazione, dove aspettano il primo treno per tornare nelle loro
basi, a Milano e a Torino. Mentre tutta Roma è risucchiata in via Fani,
dall’altra parte della città l’auto con il prigioniero chiuso nella
cassa, bendato, ha già svoltato in via Montalcini. Maccari che vigilava
all’angolo sale a bordo, Gallinari segue a piedi, Moretti sta già
infilando la rampa per scendere nel garage dove tutto finirà, tra 55
giorni. Ma adesso, per Moro si è appena aperta la porta della prigione.