Corriere 17.3.18
Marielle uccisa con le pallottole della polizia
A due giorni dall’agguato mortale alla consigliera comunale di Rio, Marielle Franco, con migliaia di persone tornate in piazza a manifestare il proprio sdegno per quella che è apparsa subito come una brutale esecuzione, arriva la notizia che i proiettili usati per uccidere la donna erano stati venduti dall’azienda Cbc alla polizia federale di Brasilia nel 2006. Lo ha rivelato ieri una fonte della polizia di Rio, citata dalla tv Globo . La fonte ha rivelato anche che la targa di almeno uno dei veicoli usati dai killer è clonata. La polizia federale ha annunciato l’apertura di un’inchiesta interna. Le munizioni usate sono originali e di calibro 9, i colpi sparati dai sicari sono stati complessivamente 13: quattro hanno colpito Marielle Franco alla testa e tre il suo autista.
il manifesto 17.3.18
Caso Moro, è la politica il vero «rimosso» degli ultimi quarant’anni
L'anniversario di via Fani. Le parole lucide del presidente dc incarcerato furono allora e sono oggi del tutto ignorate
La strage di via Fani a Roma, 16 marzo 1978, l'inizio del sequestro di Aldo Moro
di Andrea Colombo
Il quarantesimo anniversario della strage di via Fani e del rapimento di Aldo Moro è stato celebrato ieri con la dovuta solennità, rispettando la liturgia del caso.
Il presidente Mattarella ha deposto una corona di fiori di fronte al monumento che, in via Fani a Roma, ricorda i cinque agenti uccisi. Con lui c’erano i presidenti di Senato e Camera, il governatore del Lazio e la sindaca di Roma, il capo della polizia Gabrielli.
Da giorni le reti tv sfornano speciali e dibattiti, i giornali sommano memorialistica e commenti.
Le alte cariche dello stato, dopo le note del Silenzio, hanno detto pochissimo. Il presidente Grasso ha accennato alla necessità di «non smettere di cercare la verità anche se scomoda», unica allusione istituzionale ai “misteri” che riempiono invece i media di ogni tipo.
Come se cinque processi fossero serviti solo a nascondere invece che a chiarire.
Nessuno si è scostato da un copione ripetuto infinite volte nei giorni del sequestro e nei decenni successivi.
Paolo Gentiloni ha detto che fu «il più grave attacco alla Repubblica». Tutti hanno insistito sulla necessità di «non dimenticare». Il capo della polizia Gabrielli ha usato i toni più duri: «Scrivere “dirigenti della colonna delle Br” è un pugno allo stomaco.
Riproporli in asettici studi televisivi come se stessero discettando della verità rivelata credo sia un oltraggio».
Negli studi televisivi, in centinaia di volumi sfornati a getto continuo in questi decenni, nei dibattiti sui social e sulla vetusta carta stampata, in realtà si discetta da quarant’anni di una cosa sola: di quanti misteri nascondano quei tragici giorni, di quali registi occulti manovrassero o sapientemente pilotassero le Brigate rosse.
Chi si prendesse la briga di spulciare i giornali e le trasmissioni tv dell’epoca scoprirebbe che nulla è cambiato.
I terroristi erano il male assoluto: a motivarli era solo delirante ferocia. Dietro la «geometrica potenza», che si è poi scoperto non essere affatto tale, agivano certamente intelligenze lucide e diaboliche, che di rosso non avevano proprio niente. Miravano a destabilizzare, non a rivoluzionare.
All’alta personalità dell’ostaggio, alla sua esemplare biografia fino al giorno del sequestro venivano dedicate parole commosse. Il Moro chiuso nella «prigione del popolo» di via Montalcini, con le sue lettere disperate e inutili, le sue argomentazioni lucide e inascoltate, andava invece cancellato. Lo fecero passare per pazzo e gli amici più intimi sottoscrissero.
Ora è semplicemente scomparso. Dimenticato nel tripudio dei ricordi. Rimosso.
In quei 55 giorni, solo Rossana Rossanda, su questo giornale, nei due articoli che oggi ripubblichiamo (leggi qui e qui, ndr), osò sfidare l’ordine a cui tutti obbedivano senza che nessuno dovesse neppure pronunciarlo apertamente.
Parlò di politica, non della guerra del bene contro il male.
Cercò di comprendere, non di dannare nel presente e poi nella memoria.
Mise in campo la lucidità e il coraggio necessari per rintracciare le radici delle Br e della loro cultura politica non nel limbo imperscrutabile della psicopatologia criminale ma in una componente storicamente non trascurabile del conflitto di classe in Italia.
Non lo fece per giustificare ma per capire. Fu la sola allora e lo è rimasta o quasi nei quaranta anni seguenti.
Non è stata una congiura del silenzio ma del fragore quella che da allora nasconde la verità sui 55 giorni più tragici della storia d’Italia.
Una pirotecnica sagra di scoperte clamorose, di ipotesi surreali, di presunti misteri accatastati senza parsimonia ha permesso di non chiedersi perché uno Stato pronto a concedere ai rapitori decine di miliardi, che si sarebbero inevitabilmente trasformati in potenza di fuoco e in cadaveri, preferì sacrificare Aldo Moro pur di non ammettere quel che era evidente: che le Br erano un’organizzazione politica.
Ha consentito di camuffare una scelta dettata dal calcolo politico, la necessità di evitare una crisi di governo, facendola passare per l’unica in grado di salvare la democrazia.
La stessa logica ha onorato ieri la memoria di Moro continuando a ignorare quel che scriveva dal «carcere del popolo».
Esaltando senza neppure farsi mezza domandina le scelte che lo condannarono allora.
Due articoli di Rossana Rossanda del 1978
Il 28 marzo 1978, in pieno sequestro Moro, Rossana Rossanda pubblica sul manifesto un corsivo intitolato «Il discorso sulla dc» con la celebre (e incompresa) affermazione sull’«album di famiglia» e le Br.
Nei giorni successivi piovvero critiche, e rispose con questo articolo più lungo del 2 aprile successivo intitolato esplicitamente «L’album di famiglia».
il manifesto 17.3.18
Le Br e quell’«album di famiglia»
Il corsivo del 28 marzo 1978. In pieno sequestro Moro, Rossana Rossanda scrive un corsivo polemico con le interpretazioni sulla matrice delle Brigate rosse e con un Pci non più in grado di criticare la Dc. Dunque «scoperto» di fronte alla destabilizzazione verso destra del paese. E che divenne famoso per la citazione dell’«album di famiglia»
di Rossana Rossanda
Il 28 marzo 1978, in pieno sequestro Moro, Rossana Rossanda pubblica sul manifesto questo corsivo intitolato «Il discorso sulla dc» con la celebre (e incompresa) affermazione sull’«album di famiglia» e le Br.
Nei giorni successivi piovvero critiche, a cui rispose con un articolo più lungo del 2 aprile successivo intitolato esplicitamente «L’album di famiglia».
Stampa e radio si sono piegate febbrilmente, il giorno di Pasqua, sul secondo messaggio delle Brigate rosse come su un palinsesto da decifrare.
Siccome sulle cose che contano – se Moro sia vivo, se lo libereranno e a quali condizioni – non dice niente, i commentatori ne hanno dedotto che è invece interessantissimo politicamente.
Lo hanno trovato: a) ricco di novità, b) tale da accattivarsi le simpatie della nuova sinistra (i più gentili), o da esserne senz’altro il frutto (i più maliziosi).
Perché? Perché sviluppa un vasto attacco alla democrazia cristiana, cosa che nella vecchia sinistra non è più di moda.
Ma quando mai è stato di moda nella sinistra nuova? Nel 1968 essa nacque accusando, a torto o a ragione, i partiti operai di essersi dati come solo nemico la dc, mentre era il sistema nel suo complesso che bisognava disvelare e demolire.
Nel 1977, il movimento ha avuto per nemico tutto «lo stato», e in particolare i riformisti perché vi ingabbiavano le masse. Per una sola breve fase la nuova sinistra (meglio i gruppi) scoprirono la dc, e fu nel 1972 con Fanfani.
In verità, chiunque sia stato comunista negli anni cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria.
In verità, chiunque sia stato comunista negli anni cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria.
Il mondo – imparavamo allora – è diviso in due.
Da una parte sta l’imperialismo, dall’altra il socialismo. L’imperialismo agisce come centrale unica del capitale monopolistico internazionale (allora non si diceva «multinazionali»). Gli stati erano «il comitato d’affari» locale dell’imperialismo internazionale. In Italia il partito di fiducia – l’espressione è di Togliatti – ne era la dc.
In questo quadro, appena meno rozzo, e fortunatamente riequilibrato dalla «doppiezza», cioè dall’intuizione del partito nuovo, la lettura di Gramsci, una pratica di massa diversa, crebbe il militarismo comunista fino agli anni cinquanta.
Vecchio o giovane che sia il tizio che maneggia la famosa Ibm, il suo schema è veterocomunismo puro.
Cui innesta una conclusione che invece veterocomunista non è, e cioè la guerriglia.
In quel contesto infatti essa non funziona.
Se le masse sono manipolate dagli apparati, con quale esercito si fa la rivoluzione? Se il nemico è un potentissimo partito – stato, protetto dall’estero e padrone di tutte le istituzioni, difficile pensare di abbatterlo col cecchinaggio.
E infatti quella posizione aveva, per logica conseguenza, o l’abbassamento del tiro o «Ha da venì Baffone», cioè il rinvio dell’ora X all’esplodere d’una crisi europea, d’una nuova guerra che rovesciasse il rapporto impari di forze.
Tanto è vero che, quando il problema della rivoluzione italiana tornò all’ordine del giorno nella sinistra, nei primi anni sessanta, comportò un’analisi diversa anche della democrazia cristiana, più complessa e insieme più aggredibile; si vide nell’interclassismo cattolico un terreno di disgregazione del vecchio e di riaggregazione, nella lotta di massa, del nuovo blocco storico.
Tutta la spinta a sinistra ne fu alimentata, e ne risentì la stessa Democrazia cristiana, specie nelle fasi in cui si trovò sotto sterzo, cioè nell’estate del 1963 e poi dal 1975 al 1976.
Interessi imperialisti, capitale privato e di stato, stato, partiti, confessionalismo, «luoghi» della dominazione borghese apparvero in continuità, ma non appiattiti; e nel relativo scollamento si riflette la forza d’urto dell’avanzata a sinistra.
Se oggi qualcuno scopre nel testo delle Br una efficace critica della dc, vuol dire che l’arretramento delle idee politiche s’è fatto precipitoso.
Le Br odierne, se pure di loro si tratta, ci hanno contato.
E il partito comunista farebbe bene a misurare lo spazio che ha lasciato scoperto e l’ampiezza di manovra che esso offre.
Consente infatti ai brigatisti di fare degli ammazzamenti, sequestri e ora relativa ideologia, i cardini d’una doppia operazione: far saltare la democrazia cristiana o parte di essa fuori dal «compromesso democratico» e indebolire la credibilità della sinistra, nel momento in cui si attua una destabilizzazione a destra.
da «il manifesto» del 28 marzo 1978, ripubblicato sull’edizione in edicola il 17 marzo 2018
il manifesto 17.3.18
Il veterocomunismo della lotta armata
L'editoriale del 2 aprile 1978. Il coraggio di dirsi «verità sgradevoli» anche nei momenti più difficili. Con la morte di Togliatti nel Pci cessa qualsiasi analisi della Dc. Il compromesso storico nasce dai concetti approssimativi di un partito comunista debole
di Rossana Rossanda
Il 28 marzo 1978, in pieno sequestro Moro, Rossana Rossanda pubblica sul manifesto un corsivo intitolato «Il discorso sulla dc» con la celebre (e incompresa) affermazione sull’«album di famiglia» e le Br.
Nei giorni successivi piovvero critiche, e rispose con questo articolo più lungo del 2 aprile successivo intitolato esplicitamente «L’album di famiglia».
Non soltanto la politica e la lotta di classe sembrano fuori corso di questi tempi, ma perfino il buonsenso. Non avessi mai osservato che la requisitoria delle Br contro la dc, nel loro secondo messaggio, ricalca stilemi veterocomunisti, mirando a trovare consensi nello spazio lasciato aperto dalla cessazione d’una analisi seria e d’una seria lotta del partito comunista alla democrazia cristiana.
Su questo si sono gettati come leoni tutti i partiti dell’unità nazionale. Il Pci si è sentito offeso, chissà perché. I suoi nemici sono stati felici, chissà perché. L’uno e gli altri strumentalizzano e falsificano allegramente.
Vediamo.
Non parlerò del Giornale, perché sono una veterosettaria e voglio morire senza parlarne. Il Popolo mi fa dire che non solo è veterocomunismo, ma che «affonda le radici nelle trame internazionaliste del Cominform». Povero Cominform, fiacca e spiacevole larva della defunta internazionale: scommetterei che della dc non ebbe neppure tempo di accorgersi, nella breve vita impiegata ingloriosamente a cercare di abbattere Tito.
Il Corriere fa scrivere a Ronchey che l’abbandono da parte del Pci di quel giudizio sulla dc coincide con la fine del suo leninismo.
E perché? Intanto, va a vedere come, se, quando, e in che senso Togliatti abbandonò il leninismo davvero. E poi, perché Lenin dovrebbe essere il simbolo dello schematismo? I suoi giudizi politici sono lucidamente articolati. E quanto alla dc, solo una veggente avrebbe potuto informarlo di questo squisito e tardivo prodotto del secolo.
Soltanto Enzo Forcella sembra aver letto le nostre righe sull’album di famiglia, del resto poco originali, con la consueta lucidità.
il manifesto, fin dall’uccisione di Calabresi, ha negato che il «partito armato» possa trovare appigli nel bolscevismo
QUESTA È MANCATA davvero ai compagni comunisti. Lasciamo andare l’editoriale odierno di Tortorella, dove mi accusa nientemeno che di aver detto che il terrorismo è figlio di Marx, Lenin, Gramsci e Togliatti: qui siamo proprio nella polemica deliberatamente falsificatoria, giacché Tortorella sa benissimo che il manifesto ha, fin dall’uccisione di Calabresi, ricordato come esso sia una pratica veneranda della piccola borghesia, e più recentemente abbia negato che il «partito armato» possa trovare appigli nel bolscevismo.
Ma vediamo il lungo articolo di ieri del compagno Macaluso. «Non so quale album conservi RR. È certo che in esso non c’è la fotografia di Togliatti, né l’immagine di milioni di lavoratori e comunisti che hanno vissuto le lotte, travagli, contraddizioni di questi anni».
Che importa che io abbia scritto che non tutta la politica del Pci stava in quelle formule? Che fortunatamente c’era l’intuizione del partito nuovo, la lettura di Gramsci, una diversa pratica di massa, insomma la «doppiezza» di cui più tardi Togliatti avrebbe parlato? No. La Rossanda parla come il Giornale, come gli esponenti della Dc, come i redattori del Popolo.
Diavolo. Mi domando perché il Pci si sia tenuto in seno per quasi trent’anni un serpente come me.
Ma usciamo da una polemica miserevole e ragioniamo.
PERCHÉ IL PARTITO comunista è così agitato? Perché si sente sulla difensiva? Perché sembra volersi disperatamente scrollare di dosso una paternità dell’estremismo, che nessuno, in Italia, gli attribuisce?
Galloni non spara sulla segreteria o sulla linea comunista, ma se mai su una retrovia sociale, su una base operaia non cedevole, sul sindacato. Anche Carli, a suo tempo, cercò di individuare una continuità fra insorgenza operaia, nel senso di non accettazione del patto sociale, ed eversione.
È una vecchia trappola.
Il Pci non solo farebbe bene a rispondere per le rime a chi cerca di stabilire un filo fra terrorismo e lotta di massa, ma avrebbe anche facile gioco.
Glielo offrono sia le Br, che fanno il contrario d’una lotta operaia di massa sia la risposta operaia, che le isola.
Le Br fanno il contrario d’una lotta operaia di massa. Anzi gli operai le isolano
Che cosa fa imbarazzata la replica comunista, che cosa ne spinge due esponenti ad attaccare più noi che Galloni? Indebolisce il Pci l’incertezza della sua collocazione nei confronti della democrazia cristiana.
Questa «lo fa codardo» rispetto al mio e suo album di famiglia, che è un album niente affatto da buttare.
In esso sta (e non potrebbe essere diversamente) il variare della stessa definizione del nemico storico che si oppone al partito comunista fin dalla rottura dell’unità antifascista, e la democrazia cristiana.
Nella quale esso vide, giustamente, il fronte principale, anche rispetto al fascismo.
COMPAGNO MACALUSO, prendiamo un anno qualsiasi della collezione di Rinascita, per esempio il 1952.
Siamo in piena restaurazione capitalistica. Chi la dirige? La dc. Siamo in piena guerra fredda. Chi ne è lo strumento in Italia? La dc. Siamo in pieno tentativo di mutare la rappresentatività popolare nel paese. Chi ordisce la legge truffa? La dc.
In quella fase si attenua la complessità del giudizio togliattiano su De Gasperi e la sua scelta «democratica».
Felice Platone scrive che la fascistizzazione del tempo nostro sta nel tipo di società americana, e in quel particolare unanimismo bloccato, e che «l’americanizzazione » della vita italiana è il vero veicolo d’un pericolo fascista, e il veicolo dell’americanizzazione è la dc.
Togliatti torna, a proposito di Gramsci, due mesi dopo sullo stesso giudizio: «Non nei gruppi che vivono di nostalgia» ma nel maggiore partito di governo sta il pericolo più grave, «nei rapporti sociali non svecchiati, nelle oligarchie economiche risorgenti e risorte, nella tracotanza dei ceti privilegiati, nella prepotenza e corruzione» che esso garantisce. Poco dopo, una risoluzione del Comitato centrale contro il totalitarismo clericale afferma che la dc vuole fondare «un vero e proprio regime totalitario, in connessione con manovre internazionali, appoggiandosi a forme di eccezionalità».
Gli esempi possono moltiplicarsi, ma a che vale? Vale chiedersi se quel giudizio, che forse appiattisce una ricerca iniziata durante e subito dopo la resistenza, è negli anni cinquanta giusto o sbagliato. E perché si forma.
È giusto, io credo, anche se si giovò di qualche forzatura nella propaganda e nella formazione dei quadri; la denuncia che il partito comunista faceva della dc, anche mettendo da parte l’interrogativo sulla sua natura «popolare» che pur anche allora esisteva, bloccò una svolta reazionaria nel paese e in qualche modo costrinse la stessa democrazia cristiana a quella sempre imperfetta scelta «democratica», che avrebbe fatto precipitare con la crisi prima del centrismo, poi di Fanfani, poi di Tambroni, tutte le contraddizioni interne d’una borghesia che in una società mutata e in mutati rapporti di forza cercava la sua espressione politica.
Senza questa denuncia il movimento delle masse sarebbe gravemente arretrato.
PERCHÉ TORTORELLA si giustifica: «Fummo settari, ma difendemmo sempre la costituzione»? Dovrebbe dire «Fummo settari perché dovemmo a tutti i costi e in condizioni internazionali terribili difendere la costituzione e impedire la sconfitta del movimento».
E Macaluso dovrebbe riproporre le pagine di questo album all’Unità: sono state ingiallite da una storia che il Pci ha potentemente contribuito a fare, mutando realtà e quindi schemi di interpretazione, una grande storia.
Il giudizio sulla dc che allora si venne formando non mutò finché non mutarono la fase internazionale e i rapporti di classe interni, nella seconda metà degli anni cinquanta.
Ancora nel 1956 – dove Ronchey collocherebbe, penso, l’abbandono del leninismo – il giudizio sulla dc così suona nelle Tesi: «Cedendo alla duplice pressione (dell’imperialismo e dell’unità delle classi abbienti, ndr) il partito democristiano, presentatosi all’inizio con un programma di rinnovamento, diventò lo strumento politico d’un piano di conservazione sociale all’interno e di asservimento a interessi stranieri in campo internazionale».
Anzi, allora «la democrazia cristiana diventa partito politico dirigente della borghesia».
Sono definizioni del 1956, quando si lancia la via italiana al socialismo. Che per la prima volta, contraddittoriamente all’affermazione sicuramente forzata d’una avvenuta «totale clericalizzazione della società», aggiunge la questione della dc come partito popolare, e vede in questa sua natura un principio di possibile squilibrio.
In verità, lo squilibrio sarebbe venuto dalla impossibilità della vecchia dc di integrare, nello sviluppo capitalistico, il movimento operaio italiano e da tutto il rinnovamento del quadro, e della strategia, che ne deriva agli inizi degli anni sessanta.
Allora, anzi, la questione della dc diventa un perno della discussione nel partito comunista, luogo dove si confronta una visione «democratico-laicista» e una visione di classe, che mette l’accento e sui soggetti di dominio di classe e sul tipo di aggregazione sociale che il partito cattolico rappresenta; e vede in questa aggregazione una specificità del «caso italiano», il luogo su cui passare per una ricostruzione del blocco storico.
TUTTO QUESTO, nel corsivo che ha suscitato tanti allarmi, lo abbiamo ricordato, ma sta scritto nei testi di anni recenti.
Perché così accesi nervosismi, nella dirigenza comunista, al solo ricordarlo?
Il fatto, ho scritto e ripeto, che quella fu l’ultima analisi seria della democrazia cristiana che il Pci abbia compiuta. Con la morte di Togliatti cessa.
L’ambiziosa operazione del compromesso storico è partita su concetti approssimativi (le grandi correnti, i grandi filoni) separata da un’analisi appena complessa della collocazione della democrazia cristiana nel contesto delle forze politiche borghesi, italiane e non, e della sua impossibilità a separarsi dal ruolo di «partito di fiducia della borghesia».
È PARSA VICINA a perderlo qualche anno fa, perché per un momento la borghesia ha puntato altrove; ma la conversione di tendenza s’è subito verificata. Quando già era tornata ad esserlo in modo inequivocabile e centrale il Pci è andato – in piena crisi – a un accordo politico con un corpo sociale, storico, ideologico, clientelare che non sa più bene come definire, se avversario o amico.
Che non sa «leggere» più. Che non analizza più. Che spera «diverso».
Questa debolezza presente gli fa scrollare violentemente la criniera di fronte al ricordo del passato, gli fa gridare «al terrorista» contro chiunque dica che, sì, la democrazia cristiana era ed è il partito della borghesia italiana e che il Pci, smettendo di dirlo, porta una responsabilità anche dell’oscurarsi del fronte di lotta, dell’intorbidarsi della vita politica.
Sono verità sgradevoli. Non è detto che, nei momenti difficili, bisogna astenersi dal dirle.
da «il manifesto» del 2 aprile 1978, ripubblicato sull’edizione in edicola il 17 marzo 2018
Il Fatto 17.3.18
“Il primo covo: così fu nascosto Moro tra Ior, Servizi e Usa”
Sergio Flamigni - Dopo il sequestro fu portato in via Massimi, in un palazzo “frequentatissimo”Pubblichiamo ampi stralci dell’intervista che Sergio Flamigni ha rilasciato a Vindice Lecis per “Fuoripagina”
La verità avanza troppo lentamente nelle nebbie delle complicità e delle connivenze internazionali che hanno impedito che si facesse piena luce sul rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. La vulgata ufficiale, la pax tra brigatisti e lo Stato basata sul famoso memoriale Morucci benedetto dalla Dc, è sempre meno credibile. Il protagonista instancabile della ricerca della verità è Sergio Flamigni, classe 1925, parlamentare Pci dal 1968 al 1987, e componente delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul Caso Moro, Antimafia e sulla P2. È autore di numerosi e approfonditi saggi sul caso Moro e sull’eversione. Ecco cosa dice oggi, a 40 anni da via Fani: “La verità che conosciamo è solo parziale. C’è chi non vuole che si conosca. Soprattutto da parte di chi ha avuto la gestione degli apparati di sicurezza e ha sostenuto le tesi di comodo per nascondere come si sono svolti i fatti e quali siano stati i reali protagonisti”.
Il nodo è sempre il memoriale Morucci, base di quello che lei chiama il patto di omertà. Tra chi?
Tra pezzi dello Stato e terroristi. Nel mio libro del 2014 ponevo una serie di interrogativi relativi ai buchi neri del caso Moro. Ad esempio, di quale apparato fu la regia dell’operazione del 18 aprile 1978, quella del comunicato falso del lago della Duchessa e della ‘scoperta’ del covo di via Gradoli?
La commissione presieduta dal senatore Fioroni però questa volta scioglie qualche nodo…
Scopre alcuni fatti che la inducono a non dare credito alle verità di comodo che i brigatisti e gli apparati ci hanno sempre raccontato. Ci sono anche le verità indicibili: quelle coperte dal segreto, riguardanti complicità dei servizi segreti diretti da uomini della P2, oppure relative alle ingerenze straniere che ebbero parte nella vicenda Moro. Le verità dicibili, sono le verità di comodo, del memoriale Morucci e Faranda. Quel memoriale, sollecitato dal capo del Sisde, redatto dal giornalista Cavedon, consegnato da suor Tersilla Barillà al presidente Cossiga il 13 marzo 1990, venne da lui trasmesso al ministro dell’Interno Gava tramite il prefetto Mosino solo il 26 aprile dello stesso anno. Che a sua volta lo fece pervenire finalmente alla Procura. Da allora quella è stata considerata la verità.
Invece di che cosa si tratta?
Di una sequenza di falsità. Ma la Commissione Moro che ha lavorato nell’ultima legislatura, ha accertato l’origine deviante e il contenuto menzognero del memoriale Morucci, secondo il quale l’operazione Moro sarebbe stata compiuta dalle sole Br. La verità è che l’affare Moro costituisce un’operazione internazionale su cui continua il segreto di Stato in vari Paesi. È un intrigo internazionale. Non è mai stato individuato il tiratore che in via Fani ha sparato 49 dei 90 colpi usati dai terroristi.
I punti oscuri sono numerosi. Ad esempio la gestione dei 55 giorni.
Molti dovrebbero ricordare, e anche il Corriere della Sera, che sembra non avere troppi dubbi sul memoriale di comodo, che in quei 55 giorni la P2 controllava totalmente i comitati di crisi. Piduisti erano i dirigenti dei Servizi segreti, da Santovito a Grassini a Federico Umberto D’Amato, dai generali Giudice e Lo Prete agli ammiragli Torrisi e Geraci, ai prefetti Pelosi e Guccione, che rispondevano a Licio Gelli. E almeno quella cinquantina di uomini che da loro dipendevano e facevano parte degli organi operativi. Costoro non hanno condotto indagini per scoprire la prigione di Moro e, anzi, hanno depistato. Che senso ha oggi consentire ai brigatisti, sui giornali e in televisione, di esporre le loro verità di comodo omettendo invece questioni di grande rilevanza? Con loro prevale una verità concordata con funzionari dei Servizi, dirigenti della Dc e uomini di governo.
Che cosa si vuole offuscare?
Principalmente vengono messi in ombra gli aspetti internazionali del caso Moro, il ruolo degli alleati, il ruolo svolto dall’americano Steve Pieczenik che si è vantato di avere indotto le Br a uccidere Moro e di essere così riuscito a stabilizzare l’Italia. Moro non era amato e, anzi, veniva contrastato dagli Usa che non vedevano di buon occhio la sua apertura ai comunisti.
Torniamo alle prigioni di Moro: qualcuno crede ancora a via Montalcini?
La prigione di via Montalcini descritta dai brigatisti era un angusto vano di tre metri di lunghezza e 90 centimetri di larghezza, dotato di un wc chimico. Secondo la verità ufficiale, in quella prigione, Moro immobilizzato su una brandina, avrebbe scritto le lettere e il memoriale per rispondere all’interrogatorio dei brigatisti. Dopo l’assassinio, i medici legali nel procedere alla svestizione prima dell’autopsia, rinvennero della sabbia nel risvolto dei pantaloni, nei calzini e sotto le scarpe dove vi erano anche residui di bitume, materiali dello stesso tipo erano anche nei pneumatici e nei pianali della Renault. Durante l’ispezione del cadavere, il professore Maraccino, coordinatore dei periti, constatò il colore abbronzato delle parti del corpo di solito esposte alla luce e ciò, aggiunto alla sabbia, gli fece pensare che fosse stato al mare; la muscolatura non era atrofizzata ma solida. Non erano le condizioni di un corpo che avesse sofferto una restrizione in quel bugigattolo che la tv ci ha trasmesso anche in questi giorni. Già da allora sarebbe stato utile prendere atto della bugia brigatista sull’unica prigione.
La commissione rivela che un altro covo è stato utilizzato: quello di via Massimi, in una palazzina sospetta.
Esatto. La commissione ha scoperto via Massimi 91 come prima prigione, dopo via Fani. Solo questo dovrebbe far saltare il memoriale Morucci con il florilegio di falsità, sul trasbordo di Moro in piazza Madonna del Cenacolo e trasporto fino al nuovo trasbordo nel magazzino della Standa e poi destinazione via Montalcini. La Commissione ha invece individuato con certezza l’arrivo di Moro dopo l’agguato nel compiacente garage della palazzina di via Massimi, otto minuti di auto da via Fani. Uno stabile di proprietà dello Ior, abitato anche da alcuni cardinali e frequentato dall’arcivescovo Marcinkus. Non solo: si accerta che nello stabile operava la sede di un ufficio di intelligence Usa che lavorava con la Nato. Inoltre viene rivelato che un ufficiale dell’aeronautica e sua moglie, entrambi legati all’area di Autonomia e inquilini nella stessa palazzina, hanno ammesso di avere dato ospitalita al br Prospero Gallinari nell’autunno 1978.
Dopo via Massimi, dove fu portato Moro?
In una zona del litorale romano, probabilmente a Palo Laziale. Il 21 marzo venne segnalata al Sismi la presenza di Moro in quella zona. Cossiga allertò gli incursori della Marina militare, ma alle 13 li smobilitò e di questo non fornì spiegazioni plausibili. Quella zona è adiacente al lido di Palidoro, proprio quel tratto di spiaggia che il professore Lombardi, nelle conclusioni della sua perizia, dà per certo essere il luogo di provenienza della sabbia e altri materiali rinvenuti su alcuni indumenti e sotto le scarpe di Moro e nella Renault. Preciso: Lido di Palidoro e non Lido di Ostia dove la Faranda e la Balzarani dicono di essere andate a prendere la sabbia e l’acqua di mare per inscenare un’azione di depistaggio. Ma vorrei concludere ancora sulla prigione di via Massimi…
La considera una scoperta importante?
Sì, perché conferma quanto il caso Moro avesse attori e dimensione internazionali. Solo ora scopriamo che due appartamenti di un intero piano erano occupati da monsignor Vagnozzi, il cardinale già nunzio apostolico negli Usa. Secondo un testimone, Moro avrebbe fatto visita a Vagnozzi in momenti politici delicati. Lo stabile era poi frequentato dallo stesso Marcinkus. E di costui, il brigatista Morucci era in possesso del suo recapito telefonico rinvenuto tra le carte sequestrategli in viale Giulio Cesare.
La sua tesi, e quella di altri autorevoli studiosi, è che con l’omicidio Moro si sia voluto bloccare il dialogo tra la Dc e il Pci di Enrico Berlinguer.
Sì, questo è stato lo scopo dell’operazione. Moro era stato avvertito già nel settembre 1974 durante il suo viaggio negli Usa. L’avvertimento era stato minaccioso al punto che ebbe un malore nella Chiesa di San Patrick e decise di disdire alcuni appuntamenti e anticipò il suo rientro in Italia. Nel dicembre prese la guida di un governo Moro-La Malfa che con l’apporto anche del Pci realizzò importanti riforme e giunse alle elezioni politiche del 1976 il cui risultato portò a due vincitori: la Dc che manteneva la maggioranza relativa e il Pci che ebbe la più grande avanzata e senza il suo concorso non era possibile governare il Paese. Tra Moro e Berlinguer si inaugurò la fase della solidarietà nazionale, che incontrava sospetti e ostilità di Usa e altri alleati. Nel gennaio 1978, quando Moro e Berlinguer si accordarono per un governo Dc sostenuto da una nuova maggioranza programmatica in cui entrava a fare parte anche il Pci, si misero all’erta le forze già pronte a strumentalizzare il terrorismo delle Br già infiltrate e da incanalare per l’operazione Moro, che doveva realizzare il sequestro per dividere le forze della politica di unità nazionale e uccidere Moro.
Corriere 17.3.18
Il ricordo
La mattina in aula senza Moro
di Maurizio Caprara
«Onorevole Romualdi!». Pochi secondi e poi: «Onorevole Romualdi!». Altri secondi e ancora: «Onorevole Romualdi!».
Il presidente della Camera Pietro Ingrao, comunista paziente la cui calma era sotto pressione, scuotendo la sua campanella pronunciò nove volte ad alta voce il nome del deputato missino che più disturbava la seduta. In due casi si trattò di formali richiami «all’ordine». Ma Pino Romualdi, un artefice delle prime attività clandestine fasciste successive alla Liberazione e un fondatore del Movimento sociale, non sentiva ragioni. Il democristiano Giulio Andreotti, presidente del Consiglio uscente e rientrante in seguito a una crisi durata 54 giorni, stava sforzandosi di esporre in Aula il programma del primo governo appoggiato anche dal Partito comunista dopo il 1947. Cercava di spiegare, Andreotti, come avrebbe voluto ridurre il deficit del «settore pubblico allargato» e Romualdi aveva cominciato a interromperlo gridando: «Ma non ci sono cose più importanti?».
Ce n’erano di cose importanti da affrontare, quella mattina, il 16 marzo di 40 anni fa. Appena passate le nove le Brigate rosse avevano rapito Aldo Moro e colpito a morte i cinque uomini della sua scorta. Alle dieci la seduta della Camera dei deputati, alla quale il presidente della Dc sequestrato avrebbe dovuto partecipare, era stata aperta e sospesa in un minuto. A dominare erano le incertezze, si resisteva a credere che le notizie in circolazione fossero vere. Ingrao non addusse motivazioni: «Su richiesta del presidente del Consiglio la seduta è rinviata a ora da destinarsi. Convoco tra mezz’ora la conferenza dei capigruppo. Prego i colleghi di tenersi in contatto con i presidenti dei loro gruppi».
Esistono momenti nei quali la macchina dello Stato sembra bloccata, quasi tutti si domandano che cosa sia successo e che cosa accadrà. Fu così, come dopo un terremoto o un’altra calamità. La seduta riprese alle 12.40. È il ripetersi di «Onorevole Romualdi!» il dettaglio che se ci ripenso mi suona ancora nelle orecchie di quella mattina, mentre assistevo da una delle tribune che sovrastano l’emiciclo di Montecitorio. Per un ragazzo di quasi 17 anni purtroppo non era insolito ascoltare al telegiornale che un agente di polizia o un magistrato erano stati ammazzati. Ma Moro? Davvero è stato rapito Moro? Se lo domandavano in tanti alle dieci e le notizie da via Fani arrivavano spezzettate.
Intorno all’una, in Aula Andreotti dava per indubbio «un preciso movente politico» del massacro avvenuto. Però definiva ancora «da controllarsi» l’autenticità dei messaggi con i quali «le cosiddette “Brigate rosse” rivendicano la paternità del misfatto». Lo diceva a un’assemblea tesissima, attonita, alla quale descriveva lo stato dell’Italia così: «Anche prima di stamane, eravamo consapevoli dell’attuale stato di eccezionalità, per l’attivismo di spietati terroristi, per il numero dei disoccupati, per il caotico disordine in molte scuole, per la depressione nel Sud, specie nelle maggiori città, per la fragilità del nostro sistema economico-finanziario, gravato, tra l’altro, da un massiccio indebitamento con l’estero». Presto, le interruzioni dei missini.
Ingrao: «Onorevole Romualdi, la invito a tacere!». Sandro Pertini, ex comandante partigiano: «Pensate a Giacomo Matteotti!». Romualdi insisteva. Ingrao: «Onorevoli colleghi, vi invito tutti ad avere chiara coscienza della gravità del momento».
Ripercorrere nella memoria quelle ore turba, e per paradosso può anche rassicurare. Il Paese ci rimise sotto il profilo dell’evoluzione del suo sistema politico, delle vite brutalmente spezzate a innocenti. Ma l’Italia non precipitò in un’involuzione irreversibile, e non sembrava scontato.
«Quanto è avvenuto rappresenta la punta più alta di attacco allo Stato», ammise in Aula Benigno Zaccagnini, il segretario della Dc. Ugo La Malfa, repubblicano, chiese misure «di emergenza». Anche se lì non citò la pena di morte, affermò: «Si è proclamata guerra allo Stato democratico. Ma lo Stato democratico risponde con dichiarazione di guerra». Fu Enrico Berlinguer, segretario del Pci, a sottolineare che operai stavano «confluendo nelle piazze» contro i terroristi. Tra i comunisti il sequestro aveva ridotto fino a estinguerle le ritrosie a votare la fiducia ad Andreotti con Dc, Psi, Pri, Psdi (e Democrazia nazionale, uscita dal Msi) senza poter raggiungere la legittimazione piena, l’assegnazione di ministeri al Pci.
Il dibattito fu compresso in un giorno. Il governo ricevette 545 «sì», 30 «no», tre astensioni. Senza il voto di Aldo Moro, catturato da assassini.
Il Fatto 17.3.18
Il convegno a Torino
Zagrebelsky, Grossi, Settis e altri: il ricordo di Stefano Rodotà
A Torino,nelle giornate di oggi e domani, si conclude il convegno Legacy – Codex e civitas, in memoria del giurista, politico e accademico italiano Stefano Rodotà a quasi nove mesi dalla scomparsa. Si parte alle 9.30 di questa mattina, al Circolo dei Lettori di via Bogino 9 con una conferenza dal titolo Ideologie e tecniche della (ri)codificazione del diritto privato presieduta dal giurista Antonio Gambaro dell’Università di Milano cui seguirà poi, alle 12.30, un inedito Gustavo Zagrebelsky al pianoforte, con Arpeggione per Stefano Rodotà, accompagnato dal violoncello di Relja Lukic. Per le 17.30, Salvatore Settis ricorderà Rodotà con una lectio nell’Aula Magna della Cavallerizza Reale. Tra gli appuntamenti di domani, invece, va segnalato il dialogo, tra Luciano Violante e Gustavo Zagrebelsky dal titolo Città, povertà e inclusione alle 15; alle 18, la “Lezione Magistrale” conclusiva dell’ex presidente della Consulta Paolo Grossi: La città del Sole di Stefano Rodotà. Proprietà privata e funzione sociale. Entrambi gli incontri si terranno presso l’Aula Magna della Cavallerizza Reale di via Verdi 9.
Repubblica 17.3.18
Il convegno a Torino fino a domani
Politica, diritti e musica per ricordare Stefano Rodotà
di Francesca Bolino
Uno degli appuntamenti clou è in programma oggi alle 12.30, quando Gustavo Zagrebelsky - giurista, ma anche musicista d’eccezione - si siede al pianoforte al Circolo dei lettori di Torino per ricordare, tra note ed emozioni, l’amico Stefano Rodotà, accompagnato dal violoncellista Relja Lucik.
Ma la celebrazione torinese del grande intellettuale scomparso lo scorso anno è cominciata l’altro ieri, con testimonianze di colleghi o compagni di battaglia. Come Ugo Mattei, che racconta di quando, in una mattinata romana nel cuore di piazza Farnese, fu redatto il manifesto che poi portò al referendum sull’acqua pubblica. O come Salvatore Settis, che rievoca la comune origine calabrese: «Abbiamo parlato molte volte di quanto il Sud sia stato emarginato dalla politica degli ultimi trent’anni».
Tutto questo e molto altro accade a Torino in occasione di “Legacy. Giornate in memoria di Stefano Rodotà”, in corso da giovedì a domani. Una quattro giorni promossa da Università degli studi di Torino, Collegio Carlo Alberto e International University of Turin, con il supporto di Aboca. Per ragionare sui temi più cari allo studioso del diritto e dei diritti, nonché storico editorialista di Repubblica.
Nel mare di racconti e ricordi, quelli di Mattei sono molto vivi: «L’ho conosciuto nel 1983 quando era parlamentare e presentava un progetto per l’abolizione del piombo e della benzina: da quella rossa a quella verde. E mi chiese aiuto perché all’epoca ero nel movimento ambientalista. Da quel momento i nostri destini si sono spesso incrociati. Anche dopo la battaglia referendaria per l’acqua che ebbe esito positivo, continuammo a lavorare poiché ci fu l’occupazione del teatro Valle. Usammo uno slogan particolare: “Come l’aria e come l’acqua, anche la cultura è un bene comune”».
Nei racconti degli amici, Rodotà appare come una persona sempre disponibile a viaggiare, incontrare e ascoltare tutti.
«Una volta — prosegue Mattei — venne a Chieri partendo da solo da Roma e rimase tutta la sera a chiacchierare con persone anche modestissime di tutte le estrazioni sociali. Non aveva mai fretta, tutti lo riconoscevano e lui si fermava con tutti.
Sembrava avesse un tempo infinito per le relazioni umane».
Ma non ci sono solo le testimonianze personali: la quattro giorni torinese è anche un’occasione per riflettere sui temi di studio di Stefano Rodotà. Tra i relatori che si alternano, oggi e domani, ci sono Alberto Quadrio Curzio, Franco Bassanini, Francesco Profumo, Maurizio Molinari, Luciano Violante in dialogo con Gustavo Zagrebelsky. Conclude l’evento, domani alle 18, il presidente emerito della Corte costituzionale Paolo Grossi.
La Stampa 17.3.18
L’ex Pci Cervetti, il voto e quel paragone col 1924
di Chiara Beria Di Argentine
Mosca, 8 marzo 1958. Ricorda Gianni Cervetti: «Alla sede comunale del nostro quartiere c’erano 3 stanze: gli uffici nascite, matrimoni e morti. Con Franchina abbiamo prima registrato nostro figlio Andrea di un mese, ci siamo sposati e siamo subito tornati a studiare. Lei, figlia di un operaio dell’Alfa era a Mosca dal 1955; anch’io milanese ma d’origini piemontesi (i miei erano del Monferrato; papà, colono parziario del marchese Faà di Bruno, per la crisi del 1929 aprì a Milano una osteria) a 16 anni mi ero iscritto al Pci e venni mandato dal partito a Mosca nel 1956. XX congresso del Pcus, tempo delle aperture di Krusciov, disgelo, destalinizzazione. Alla Casa dello Studente c’erano amici cinesi e anche già alcuni americani. Per 6 mesi dovevamo seguire lezioni intensive di russo; m’iscrissi a economia. Anche Franchina studiava: Andrea venne depositato alla Casa del bambino. Siamo rimasti in Urss per 5 anni e mezzo. Rapporti con le nostre famiglie? Solo epistolari».
Milano, 8 marzo 2018. Subito dopo le elezioni che hanno segnato la più netta sconfitta della sinistra dal 1948, nel giorno del 60° anniversario di matrimonio Gianni Cervetti, il «Compagno del secolo scorso» (così s’intitola l’autobiografia, pubblicata da Bompiani) ha regalato fiori e un anello alla sua sempre amata Franchina Canuti. Sobrietà, zero feste. L’uomo che è stato il più autorevole esponente del Pci in Lombardia, il dirigente «migliorista» che dell’Urss ben conosceva uomini e un sistema irriformabile, che ai tempi di Berlinguer era membro della segreteria nazionale e responsabile dell’organizzazione, al Parlamento europeo guidò il gruppo comunista con vice Altiero Spinelli ed è stato indagato per Mani Pulite e assolto dopo 5 anni non è tipo da negare colpe e sconfitte del suo mondo («Una comunità dissolta malamente», scrive Paolo Franchi nella prefazione del libro) ma neanche tipo da rassegnarsi.
A 84 anni portati assai bene («Mai fatto sport. Sempre tifato Juve») Cervetti che presiede l’Istituto per la storia dell’età contemporanea (archivi di grandi fabbriche come Breda e Falck ormai scomparse), la Fondazione Corrente e la Fondazione orchestra e coro Giuseppe Verdi, ha idee nette: «Non c’è stata la capacità di rispondere in maniera seria al desiderio di cambiamento. Renzi pur combattendo D’Alema ne ha assorbito alcune caratteristiche: “Faccio io, Sono io”. Nel Pci a far da contrappeso al segretario generale c’era una direzione formata da personalità d’alto livello che non le mandava certo a dire!».
Tessera del Pd ma voto all’amico Bruno Tabacci della lista +Europa, Cervetti è ben più preoccupato che della sorte personale di questo o quello: «Paragono le elezioni 2018 a quelle del 1924 che videro la vittoria dell’alleanza nazionale dei fascisti e nazionalisti. Se sovrapponiamo le due cartine elettorali le somiglianze sono impressionanti: la destra si prese tutto il Sud, il Pci era una piccola forza, il Psi frantumato tenne solo a Milano. Oggi? I 5 Stelle sono una destra particolare; quanto a Salvini se ci fosse un liberale come Malagodi la contrapposizione sarebbe netta. Per fortuna, abbiamo 2 punti di tenuta: veniamo da 70 anni di processi democratici e c’è l’Europa».
Capitolo Putin. Il compagno che su mandato di Berlinguer trattò con Boris Ponomariov la fine dei finanziamenti sovietici («Con la crescita elettorale e 1 milione e 800 mila iscritti potevamo permettercelo; nel 1979 il Pci oltre agli immobili aveva quasi 10 miliardi liquidi») sull’affaire spie dice che «come sempre ci sono di ogni parte e molto più di quello che appare» ma non crede a elezioni taroccate dal Kgb: «Ammesso che ci sia stato qualcosa Trump ha vinto nettamente. E’ l’ondata populista che arriva fino in Polonia». Quanto alle sanzioni: «Sono un grave errore anche tecnico. Chi è sanzionato tende a chiudersi mentre va favorito il dialogo». Anche tra Putin e Salvini? Cervetti sbotta: «E’ sbagliato, persino tremendo. Un conto aprirsi altro è inserirsi in vicende che non li riguardano. Mosca deve guardare all’Italia, all’Europa non alle singole parti».
Il Fatto 17.3.18
Aiutiamo Salvini a casa sua: ora è chiaro che comanda Elisa
“Una donna deve dar luce al suo uomo” - First Lady? Gli omaggi al maschio Alfa servono soltanto a una cosa: far dimenticare il flirt estivo
di Selvaggia Lucarelli
L’antefatto, probabilmente, lo conoscete. Due giorni fa, in un’intervista a Oggi, Elisa Isoardi nota per essere la fidanzata di Matteo Salvini, ha dichiarato: “Sono orgogliosa dei risultati e dei successi di una persona che fa parte di me. È il suo momento. Ho il dovere di non confondere i piani. Per rispetto. Per amore. (…) Una donna, per quanto in vista, deve sempre dare luce al suo uomo. E la luce, il sostegno, la vicinanza spesso si danno arretrando. Stando nell’ombra”. La Isoardi, con questa intervista, sperava forse di interpretare il ruolo della donna generosa, che valorizza il compagno, e ha rimediato quello dell’anello di congiunzione tra una sposa afghana e la moglie di Mario Adinolfi.
Nell’epoca del #metoo, quasi tutte le donne – dalla cassiera di Brugherio alle sue colleghe conduttrici e showgirl – si sono domandate se non sia il caso di aiutarla a casa sua, come i clandestini cari al fidanzato. Di portarle viveri, conforto e una paio di edizioni tascabili de I Monologhi della vagina ma va pure bene Concita De Gregorio, tutto, purché questa ragazza comprenda che la nostra missione non è dare luce a un uomo – noi donne non siamo abat jour – ma prenderci la luce e il buio che vogliamo. E che no, non bisogna arretrare come gamberi in giarrettiera se si ha accanto un uomo in vista.
Immaginate una Michelle Obama invitata a pronunciare una frase simile dall’entourage del marito: piuttosto si sarebbe messa a cercare il pulsante dell’atomica e l’avrebbe sganciata sulla bifamiliare del capo-ufficio stampa della Casa Bianca. Per Elisa, invece, dire che per-rispetto-di-un-uomo-si-deve-arretrare è un ammirevole slancio da first lady ideale. Roba da far sembrare i silenzi imbronciati di Melania Trump una marcia femminista da anni 70. Del resto, se una si limona un tizio che sale su un palco con una bambola gonfiabile e la paragona a Laura Boldrini, non può certo essere l’erede di Emma Bonino, direte voi. Sarebbe anche vero e logico, se non fosse che la storia tra la Isoardi e Salvini presenta molti punti oscuri, nonché un equilibrio che non è poi così facile da individuare. Lui è il maschio alfa, lei la femmina sottomessa e obbediente, si potrebbe concludere con un giudizio affrettato. E però, se si va ad analizzare la loro love story non è che Salvini ne esca proprio da uomo con la clava.
La storia tra Matteo ed Elisa viene ufficializzata a marzo del 2016: un fotografo li immortala mentre lui la bacia per strada stringendo in mano un libro di Matteo Renzi, cosa che regala un’immediata mestizia allo scatto tipo il controluce nelle foto al mare o il tizio burlone che dietro di te in posa ti fa le corna. Sarebbero arrivate pure quelle, ma andiamo per gradi.
Il mondo guarda la foto della bella Elisa che sfiora le labbra di questo tizio in jeans e un orrido piumino blu e scopre che Elisa Isoardi, al contrario del suo neo-fidanzato, ama gli scappati di casa. Le foto dei due, scrivendo Isoardi+Salvini su Google, sono una visione disturbante: lei sempre carina, casual, moderna, lui con improbabili polo verde prato in vacanza, con camicie sgualcite fuori dai pantaloni, i pinocchietti da calciatore a Ibiza, col colbacco in Russia e l’aria di quello strappato da una conceria di pelliccia di renne in Siberia. Oppure senza maglietta con la panza di fuori mentre fanno il picnic ad agosto a Ponte di Legno, una vacanza più mesta della crociera a dicembre nel Mediterraneo con Smaila al piano-bar.
Poi ci sono i baci tra i due. Sempre un po’ tirati, un po’ posati, col tipico slancio con cui si bacia il morto prima che chiudano la bara. E fin qui, tutto sembrerebbe confermare la teoria della bella ragazza che sta con l’uomo di potere e se lo fa andare bene pure con la felpa “Trentino” e un social media manager che Rocco Casalino in confronto è Berlinguer. Poi il fattaccio.
Ai primi di luglio del 2017 Matteo è in giro per l’Italia a fotografare clandestini che dormono sulle panchine e dimostrare che i marocchini vengono qui per invadere le nostre panchine e quindi dovremmo aiutarli finanziando panchine nei Paesi loro. Nel frattempo Elisa – quella che la donna non deve fare ombra e sempre un passo indietro – sotto al sole di Formentera fa un passo in avanti e finalmente si limona uno che ha una camicia decente. Ed è la prima volta, tra parentesi, in cui sembra pure metterci la lingua. Con lui che le afferra il collo, i capelli, in uno slancio passionale che Salvini ha avuto solo quando ha ringraziato i suoi follower per il primo milione di like. A quel punto, dall’uomo che giura fedeltà alla patria col Vangelo in mano, dall’uomo che vive nel mito di Putin – uno che se la compagna va con un altro le infila il polonio nelle mutande – ci si aspettava tutti un gesto netto, una rottura categorica. E invece Salvini non solo le corna se le tiene, ma accetta di diventare lo zimbello nazionale per una settimana buona. I meme della sua foto con la felpa “Cervia” sono tuttora leggenda.
Da quel momento, il gioco lo conduce lei. Matteo va in vacanza nel paese di Elisa in Piemonte e conosce la suocera che immaginiamo felicissima di trovarselo davanti col pinocchietto e la t-shirt blu “Lombardia”. Poi va alla Fiera del porro di cui lei è madrina. Fa un blitz negli studi tv in cui lei lavora e porta una pastiera napoletana o “diversamente italiana”, come direbbe lui. Va a Sanremo con lei e per l’occasione si infila la camicia nei pantaloni, dichiara che senza Elisa non può vivere e quando Elisa dice ai giornali “Matteo è un tenerone!” non ne chiede un decreto di espulsione. Altro che maschio alfa che chiede alla sua donna di starsene nell’ombra. Elisa è quella che porta i pantaloni in casa Salvini e le frasi polverose da donna sottomessa servono solo a una cosa: a farci dimenticare le corna e a regalarle, furbescamente, la parte della donna angelicata che toglie a se stessa per regalare al suo uomo. Che immola la sua popolarità all’altare della Lega. Insomma, Salvini non l’ha capito, ma la Isoardi è esattamente l’incarnazione del suo nemico più temuto: il finto buonista.
Corriere 17.3.18
Governo M5S-Lega, sì dal 37% Per l’incarico «vince» Di Maio
Gli elettori del Carroccio per il 59% favorevoli all’alleanza, i pentastellati per il 46%
Sostenitori pd divisi: lo scenario va bene al 22%, uno su tre vuole l’intesa con i 5 Stelle
di Nando Pagnoncelli
Stiamo attraversando una fase di stallo post elettorale, peraltro ampiamente prevista, caratterizzata da tatticismi, veti incrociati, solenni dichiarazioni di indisponibilità ad alleanze, alternate a prove di accordo e timide aperture. In attesa di sapere se i leader delle tre minoranze emerse dal voto del 4 marzo daranno seguito all’appello al senso di responsabilità e all’esortazione a considerare gli interessi generali del Paese, espressi dal presidente della Repubblica, abbiamo voluto conoscere le opinioni degli italiani rispetto agli scenari prossimi venturi.
Innanzitutto emerge una disponibilità «condizionata» a possibili intese, più o meno larghe: infatti, quasi 6 elettori su 10 vorrebbero un’alleanza solo con le forze disponibili a condividere il programma del proprio partito, il 21% preferirebbe rinunciare ad un’alleanza, rimanendo quindi all’opposizione, e solo il 14% opterebbe per le larghe intese, a sostegno di un governo di scopo.
Tre quarti degli elettori pentastellati e dei leghisti e poco più della metà di quelli di Forza Italia auspicano che sia il programma della propria parte politica ad avere la meglio, il che significa assegnare ai potenziali alleati un ruolo gregario. Al contrario, due elettori del Pd su tre, ritengono opportuno stare all’opposizione.
Rispetto alla scorsa settimana aumenta il consenso per l’alleanza tra M5S e Lega, preferita dal 37% degli intervistati (+4%); a seguire quella tra M5S e Pd (18%, in calo del 3%) e, da ultimo, quella tra centrodestra e Pd, scelta solo dal 12% (-3%), mentre un elettore su tre non ha un’opinione in proposito. I leghisti sono più favorevoli all’alleanza con i 5 Stelle (59%) di quanto non lo siano gli elettori pentastellati (46%). I dem, dovendo scegliere, sono divisi tra coloro che sostengono un’intesa con i 5 Stelle (34%) o il centrodestra (14%) e quelli che preferirebbero un’alleanza 5 Stelle-Lega (22%) o si dichiarano indecisi (30%).
Tra il leader della forza politica più votata (Di Maio) e quello del principale partito della coalizione vincente (Salvini), il 42% degli elettori ritiene che il presidente Mattarella dovrebbe dare l’incarico per verificare la possibilità di formare un nuovo governo al primo (preferito anche tra gli elettori del Pd), mentre il 28% opterebbe per il secondo e il 30% non si esprime. Rispetto alla scorsa settimana il vantaggio del leader 5 Stelle su quello leghista è salito di 6 punti, passando dall’8 al 14%. Da ultimo la durata del futuro governo: il 43% auspica un governo che possa durare per tutta la legislatura (+9% rispetto alla scorsa settimana), il 28% ritiene che si debba modificare la legge elettorale per poi votare (-8%) mentre l’11% vorrebbe ritornare quanto prima alle urne con il Rosatellum. Sono soprattutto gli elettori dei partiti vincenti ad auspicare un governo duraturo, anche se non manca una consistente minoranza che vorrebbe tornare al voto non appena approvata una nuova legge elettorale, sperando di poter aumentare il proprio consenso.
Da queste elezioni emerge un Paese multipolare, frammentato. Basti pensare che il centrodestra, pur vincendo quest’anno, ha ottenuto 1,6 milioni di voti in meno del centrosinistra che perse sonoramente la sfida nel 2008 e il primo soggetto politico (M5S) ha avuto 1,5 milioni di voti in meno del Pd di Veltroni, sconfitto dieci anni fa.
Dunque i cittadini faticano ad adattarsi ad uno scenario indeterminato come quello attuale. La maggior parte degli elettori delle forze vincenti vorrebbe portare l’acqua al proprio mulino, escludendo a priori un futuro ruolo da comprimari; tra gli sconfitti prevale l’idea di stare fermi un turno, evitando compromessi. Francamente, cosa avremmo potuto aspettarci di diverso al termine di una campagna «proporzionalista», caratterizzata da un clima di «tutti contro tutti», alleati compresi? E che dire degli annunci palesemente destinati ad essere smentiti dai fatti? Dalle promesse che avrebbero dovuto fare i conti sia con la sostenibilità economica sia con gli inevitabili compromessi da realizzare nel caso di alleanze post elettorali, al nome dei candidati premier inseriti nel simbolo di alcuni partiti, al roboante impegno a non fare alleanze post elettorali, foss’anche davanti ad un notaio. Insomma una fake campaign, di cui ora si vedono le conseguenze. Infine, aver illuso in anni recenti i cittadini di poter votare direttamente la maggioranza di governo e il premier, nonché di poter conoscere la sera stessa delle elezioni chi governerà il Paese per l’intera legislatura, complica ulteriormente la situazione. In questo scenario, nel quale ciascuno vorrebbe presidiare il proprio perimetro, convincere gli elettori ad accettare maggioranze di larghe intese risulta un’impresa improba. Come pure saldare la frattura tra cittadini e politica che, alla luce di questi dati, appare sempre più profonda.
Il Fatto 17.3.18
Violenza sulle studentesse Usa.
I carabinieri: “Ci siamo comportati da maschietti”
“Ci siamo comportati da maschietti”: sarebbe questa la risposta data durante l’interrogatorio alla pm Ornella Galeotti da uno dei due carabinieri accusati di aver violentato due studentesse americane a Firenze il 7 settembre scorso, dopo averle accompagnate a casa con l’auto di servizio. Entrambi i militari – l’appuntato Marco Camuffo e il militare scelto Pietro Costa – hanno affermato davanti al pubblico ministero che sarebbero state le ragazze a prendere l’iniziativa, e di non essersi accorti che erano ubriache. A far partire le indagini era stata la denuncia delle due studentesse, di 20 e 21 anni: raccontarono di aver subito violenza nell’androne delle scale del palazzo dove vivevano nel centro di Firenze da parte dei due carabinieri che si erano offerti di riportarle a casa con l’auto di servizio. Una volta arrivati sotto la casa delle giovani, i militari, secondo quanto raccontato al momento dell’interrogatorio da uno dei due, avrebbero deciso di accompagnarle dentro ma senza secondi fini: “Si è sempre fatto così, anche per una cosa di galanteria – hanno detto – perché magari le aggrediscono nel portone”. Entrambi, inoltre, avrebbero affermato di essere consapevoli di aver violato il regolamento decidendo di farle salire sull’auto di servizio per portarle a casa: “Ci siamo consultati… eravamo titubanti” avrebbe detto uno dei militari. Intanto, la procura di Firenze ha concluso le indagini, e l’avviso di chiusura, firmato dalla pm Galeotti, è stato notificato ai legali dei due. Le studentesse risultarono – alla rilevazione effettuata alle 6.51 del mattino del 7 settembre – in quello che viene definito “stato di ebbrezza alcolica”, con 1.68 grammi di alcol per litro una e 1.59 per l’altra. Secondo il capo d’imputazione notificato a conclusione delle indagini, i due carabinieri avrebbero violentato le due ragazze agendo in modo “repentino e inaspettato”. Ora si dovrà decidere se chiedere il rinvio a giudizio.
Corriere 17.3.18
Kseniya la star contro Putin «La sua Russia è pericolosa»
di Fabrizio Dragosei
«Le elezioni? Un casinò truccato»
di Fabrizio Dragsei
MOSCA Kseniya Sobchak è decisa. La candidata alle elezioni presidenziali di domani sostiene che se dietro l’attentato di Salisbury c’è la Russia, allora nuove sanzioni saranno inevitabili. «Ci vogliono misure restrittive personalizzate contro le élite statali corrotte, gli amici di Putin e le grosse corporation statali, come Gazprom e Rosneft». A guardare il suo sito e le dichiarazioni rilasciate in questi giorni, sembra difficile inquadrarla come «marionetta del Cremlino». Molti sostengono che la figlia dell’uomo che lanciò il giovane Putin a San Pietroburgo è scesa in campo per dare una patina di regolarità a un voto del tutto privo di incertezza. Ma la giovane ex stella televisiva non fa una campagna elettorale morbida: «Ue, Gran Bretagna e Stati Uniti puniscano i responsabili delle guerre che la Russia sta conducendo nel mondo».
Pensa che potrebbe diventare la prima presidente donna e cambiare questo stato di cose? (Alla domanda del Corriere Kseniya risponde con un ampio sorriso) :
«Questa volta certamente no, perché qui la poltrona è abbinata stabilmente a una persona. È un casinò nel quale non si può vincere. È sempre lui ad avere la meglio».
E lei?
«Continuerò la mia battaglia, ora abbiamo fondato un partito e, se riusciremo a entrare in Parlamento, tra 6 anni potremo influire seriamente sulla situazione russa».
Sul suo sito lei denuncia come personaggi pubblici cavalchino la campagna dei media contro «i nemici e i traditori della patria» e affermino che i cosiddetti traditori «non meritano altro».
«Da un punto di vista giuridico, ciò è del tutto sufficiente per addossare alla Russia, come minimo, la responsabilità di istigazione all’omicidio».
Dopo un dibattito tv l’hanno aggredita in strada. Teme per la sua vita nel caso prendesse tanti voti?
«Già ora sono preoccupata per la mia sicurezza. Ma che dobbiamo fare? Viviamo in un Paese dove far politica è pericoloso: è il risultato di 18 anni vissuti con questo potere, con Vladimir Putin».
A parte quell’episodio, è stata una campagna elettorale regolare?
«Regolare? Non abbiamo libertà di parola, Aleksej Navalny è stato escluso dalle elezioni e le persone che lavorano con me vengono arrestate. Mercoledì è toccato a otto del mio staff a San Pietroburgo».
Lei ha proposto che il risultato di questo voto valga come se si fossero tenute le primarie per scegliere il leader del campo democratico. E Navalny, che non è in corsa ma è molto popolare?
«Ho già cercato di stabilire un contatto con lui e alcuni suoi uomini fidati mi hanno detto che quando il partito sarà formato effettivamente, potremo parlare. Spero proprio che ciò avvenga».
Le accuse di molestie sessuali contro il presidente della commissione esteri della Duma Leonid Slutsky sono state accolte in maniera più che tiepida dai parlamentari. Che ne pensa?
«Che è una cosa tipica di questo potere: copre in tutto e per tutto quelli che ci stanno dentro. Putin copre i suoi corrotti, i suoi uomini che sono negli offshore panamensi. E alla Duma il presidente e gli altri difendono Slutsky. È lo stesso principio. Come è possibile che quell’uomo rimanga in Parlamento dopo le registrazioni audio che dimostrano le molestie nei confronti di alcune giornaliste? L’ennesimo schiaffo in faccia alle donne. Si vuole dimostrare ancora una volta che le donne devono solo stare in cucina».
Il femminismo non è molto amato in Russia.
«Viene associato all’immagine di donne che si vestono da uomini, sputano per terra e bevono boccali di birra. Ma non siamo così. Io amo i vestiti eleganti; mi piace essere attraente, adoro mio marito ma mi batto per la parità. Essere donna non vuol dire dover avere uno stipendio del 30% più basso. Vorrei tanto che il signor Putin diventasse femminista!».
Corriere 17.3.18
Le elezioni di domani
I piedi d’argilla della Russia di Putin
di Franco Venturini
Vladimir Putin l’ex agente del Kgb, il Putin accusato di aver ordito l’avvelenamento di Salisbury, il Putin ardimentoso che tutto può nel bene e nel male, non avrà domani il coraggio politico di affrontare nelle urne una nascente opposizione. E i russi potrebbero decidere di punirlo, con una affluenza tanto bassa da rendere fragile la sua scontata rielezione. Va detto subito che il blogger Navalny, anche se una controversa condanna non gli avesse impedito di partecipare alla contesa per il Cremlino, sarebbe stato comunque facilmente battuto. Troppo debole è ancora in Russia la classe media giovane e liberale che in lui si è riconosciuta. Ma le elezioni presidenziali avrebbero guadagnato in legittimità, il risultato sarebbe parso meno scontato, e di sicuro un maggior numero di elettori, filo e anti Putin, sarebbe andato a votare. Invece il capo del Cremlino, che con un suo ordine avrebbe potuto facilmente aggirare la sentenza in questione, ha deciso di andare sul sicuro. Anche a costo di rischiare una ripetizione di quanto è accaduto alle legislative del 2016, quando l’affluenza, inedita nella storia russo-sovietica, fu del 48 per cento (28 a Mosca). Il motivo è presto detto: al confronto democratico Putin ha preferito un tentativo di mobilitazione che ricorda da vicino quelli in gran voga nell’Urss. Il nazionalismo e la sicurezza prima di tutto, con la clamorosa esibizione delle nuove «armi invincibili».
Poi il valore supremo della stabilità accanto al ritorno dello status di grande potenza, dalla Crimea (non è una coincidenza che si voti nell’anniversario dell’annessione) alla Siria. Forse anche l’avvelenamento di un traditore in terra britannica non danneggerà il candidato del potere. E nel contempo, la tradizionale offensiva del «potere amministrativo»: nelle fabbriche, nelle campagne, nei ministeri, persino nelle scuole con messaggi diretti ai genitori. Senza contare la Chiesa ortodossa, con la sua considerevole influenza.
Sforzi giustificati, va detto. Non perché a Putin manchi il consenso, tuttora vicino al 70 per cento secondo i sondaggi locali, ma piuttosto perché queste elezioni si giocheranno sull’unica cosa che non è scontata: la partecipazione di un popolo che mostra segni di stanchezza e che trova troppo sicuri i risultati elettorali per dover contribuire a disegnarli. L’affluenza minima che serve a Putin è del 60 per cento, al limite delle previsioni dei sondaggi. E c’è una pericolosa aggravante: Navalny ha chiesto per domenica uno «sciopero elettorale», mettendosi in grado di gridare vittoria se l’affluenza sarà davvero bassa.
L’errore strategico di Putin, perché a questo potrebbe averlo indotto una insicurezza davvero paradossale in un leader russo-sovietico che è meno longevo soltanto di Stalin, avrà un peso rilevante sulla legittimità interna e internazionale della sua conferma presidenziale. Ma peserà anche, e molto, sulla durata della sua permanenza al Cremlino. Alcuni osservatori ritengono che questa per Putin sarà l’ultima volta, che a medio termine ci sarà una transizione, un passaggio di poteri come avvenne nel 2000 tra Boris Eltsin e l’allora giovane premier. Scenario possibile, ma non probabile nelle mutate condizioni della Russia e del potere che la guida.
Semmai, nella Mosca di oggi appare più verosimile una importazione della sindrome cinese: una presidenza come quella di Xi Jinping, senza limiti di calendario. A spingere in questa direzione c’è l’identificazione ormai completa tra la persona Putin e il sistema che lo sorregge. Se il genio di Gogol’ fosse ancora tra noi, forse produrrebbe una nuova versione dell’ Ispettore Generale concepito nell’Ottocento zarista. Perché nella Russia di oggi tutto passa da Putin, tutto viene da Putin, di tutto Putin è l’Arbitro ultimo, tutto è merito (o colpa, più raramente) di Putin, e chiunque, se viene soltanto sospettato di rappresentare il Capo, si vede riconoscere autorevolezze degne di una satira.
Il Presidente non è peraltro l’unico responsabile di questo culto della Persona. Nel suo primo mandato Putin si trovò a dover ricostruire lo Stato che Eltsin aveva regalato alla banda degli oligarchi. Nel secondo riuscì ad elevare il disastroso livello di vita di buona parte della popolazione. Poi vennero lo scambio di poltrone con Medvedev, la mazzata della crisi economico-finanziaria, e più di recente la doccia scozzese di Trump, possibile interlocutore sulla carta e avversario durissimo nella realtà. In ognuna di queste e di altre circostanze lunghe diciotto anni, piaccia o non piaccia all’Occidente, Putin ha fatto con bravura gli interessi della Russia. E il risultato è che oggi la sua identificazione con il potere è tale che una uscita di scena anche parziale provocherebbe prima feroci lotte di potere, e poi il crollo dell’intera struttura statale. Lasciando via libera non ai Navalny, come si tende a credere a Washington, ma più verosimilmente a un nazionalismo aggressivo e militaresco.
Personificato e indivisibile, il potere russo è peraltro anche una camicia di forza. Putin ha mostrato di sapere che la sua Russia ha urgente bisogno di riforme economiche e sociali. Non è più ragionevole, a Mosca più che altrove, affidare il futuro ai prezzi del greggio. Ma riformare significa urtarsi di volta in volta a componenti del potere, significa rischiare di destabilizzare la «democrazia sovrana» inventata dall’ideologo Vladislav Surkov. E così la modernizzazione non avviene, e la Russia che promette missili «invincibili» ha sempre di più i piedi d’argilla. Semmai, sarà per questo e per la connessa protesta delle giovani generazioni che Putin preferirà un giorno passare la mano. Ma alla luce di quel che potrebbe venire dopo, e non è facile dirlo mentre Mosca viene accusata di avvelenare ex spie con il gas nervino in territorio britannico, l’Occidente rischia di rimpiangere l’esistenza di un potere stabile dietro le mura del Cremlino. Lo si diceva spesso durante la Guerra fredda: l’unica cosa più pericolosa di una Russia forte, è una Russia debole.
Repubblica 17.3.18
Le elezioni in Russia
Lo zar putin più forte del veleno
di Bernardo Valli
La notizia dell’avvelenamento di Salisbury accompagna la scontata rielezione di Vladimir Putin per un quarto mandato.
I 110 milioni di russi che votano domani non riserveranno sorprese, non influenzati da quel che è accaduto in Gran Bretagna. Gli altri 7 candidati (tre liberali, due comunisti, due ultranazionalisti) sono e restano inevitabili comparse di un sistema autoritario, indipendentemente dai loro sentimenti e intenzioni. Più dei voti conterà la partecipazione.
Dal numero delle schede riempite Putin misurerà la sua popolarità. Gli elettori di Mosca e di Pietroburgo ignorano per lo più la sorte delle spie di Salisbury. Sulla nuova, non certo sorprendente, conferma di Putin al potere, i più pessimisti sentono soffiare il vento della Guerra fredda.
Ma il ricorso a questa vecchia espressione, usata puntualmente a torto e a traverso, è in questo caso inappropriata, perché all’origine riferita allo spirito ideologico, militare, geopolitico dell’Unione Sovietica, con il quale la Russia d’oggi ha poco a che vedere.
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Alla vigilia del voto, la sfiducia tra Mosca e le potenze occidentali ha raggiunto toni insoliti, anche rispetto alle passate, quasi croniche polemiche. È accaduto in seguito all’accusa, simultanea alle elezioni, di avere tentato il 4 marzo l’avvelenamento con gas nervino dell’agente doppio Sergei Skripal, 66 anni, e della figlia, Yulia, 33 anni. Accusa prima lanciata dall’Inghilterra, poi seguita da Stati Uniti, Germania e Francia. Il fatto essendo avvenuto a Salisbury, nel Sud dell’Inghilterra, era da considerare secondo il governo di Londra un attentato alla sovranità britannica. L’uso offensivo del neurotossico di qualità militare, di un tipo prodotto in Russia, sarebbe stato il primo dalla Seconda guerra mondiale in un paese occidentale. Quindi una violazione del territorio britannico che ha provocato l’espulsione in massa di diplomatici russi e una concertazione tra i principali alleati in vista di sanzioni, da aggiungere a quelle già esistenti in seguito alla crisi Ucraina e all’annessione della Crimea.
Oltre alle accuse sempre più categoriche delle autorità inglesi, condivise da americani, tedeschi e francesi (gli italiani impacciati dalla incerta situazione interna si sono associati in ritardo), pesa su Vladimir Putin il suo passato nel Kgb, del quale ha fatto parte dall’età di ventitré anni. Le abitudini di quel periodo non lo avrebbero mai del tutto abbandonato, e quindi la sua biografia appesantisce i sospetti.
I fatti di Salisbury aprono una terza crisi tra la Russia e i paesi occidentali. La prima, irrisolta, è l’Ucraina, la cui insubordinazione verso la Federazione russa ha fatto fallire il progetto, tentato da Putin, di un’alleanza euroasiatica che avrebbe ricreato in qualche modo l’impero perduto. Da quella crisi Putin ha ricavato un bottino importante anche se costoso, quale è la Crimea. La dimenticata, sempre micidiale, instabilità del confine russo-ucraino, è rimasta un tumore nel cuore dell’Europa. Ma è nel Medio Oriente che Vladimir Putin è riuscito ad imporsi. Giocando gran parte della sua potenza militare ha sostenuto Bashar al Assad, considerato un criminale di guerra ( a volte frequentabile perché utile) dagli occidentali. Ha aiutato il rais di Damasco nella riconquista di Mosul e di Raqqa, ed è diventato un suo alleato indispensabile, tanto da progettare con lui una spartizione della Siria. Nel groviglio di alleanze mediorientali tenta di eliminare i ribelli nemici di Assad ma alleati degli americani. Con i quali cerca però di avere buoni rapporti. E lascia fare i turchi che cercano di eliminare le milizie curde, anch’esse alleate degli americani ormai distratti e sempre meno interessati al Medio Oriente, da quando sono autosufficienti per quanto riguarda il petrolio. I turchi, vecchi alleati nella Nato, godono di qualche riguardo e ispirano molte perplessità. Fino all’allarme inglese, per l’uso del gas nervino a Salisbury, Donald Trump aveva trascurato l’attivismo di Vladimir Putin nella valle del Tigri e dell’Eufrate.
Per ora, con l’Inghilterra, dopo qualche esitazione, si sono impegnati contro Putin la Germania, gli Stati Uniti, la Francia. L’Italia è apparsa più impacciata. L’incerta situazione interna le impedisce di muoversi con decisione. I successori di Gentiloni hanno posizione diverse. Il leghista Salvini ha già espresso in più occasioni la sua simpatia per Vladimir Putin. La sua alleata Meloni, durante la campagna elettorale in Italia, ha fatto visita a Budapest, capitale euroscettica di un paese membro dell’Unione europea. E con lo sguardo spesso rivolto alla Mosca di Putin. Non è facile distinguere gli alleati dagli avversari. Le affiliazioni contano poco e così Putin può anche dividere l’Europa. È amico dei populisti. E questa è la loro stagione.
Il Fatto 17.3.18
Cassino, la destra omaggia i parà nazisti del 1944
Il monumento - Domani gli albergatori e il sindaco della città inaugurano una stele nella grotta che ospitò il comando tedesco
di Vittorio Emiliani
Ancora un po’ e inaugureranno una stele commemorativa per i soldati tedeschi caduti sul fonte italiano, sulla Linea Gotica, magari a Marzabotto o a Sant’Anna di Stazzema. Domenica pomeriggio, l’Associazione Albergatori (?) “Parco di Montecassino e Linea Gustav” in collaborazione con la giunta di centrodestra del Comune di Cassino inaugura una stele “a ricordo delle vite stroncate dall’assurdità e dalla violenza della guerra”. Decine di migliaia di vite umane, in questa terra, fra civili e militari, in specie inglesi, americani, polacchi, indiani e altri che stavano liberando l’Italia dai nazifascisti.
Gli albergatori di Cassino organizzano questa cerimonia alla Grotta di Foltin, alle pendici di Montecassino, sede del comando nazista e sul manifesto appare un paracadute aperto a ricordo evidente della 1ª Divisione paracadutisti che operò nella zona. Puntualmente fra gli invitati d’onore ecco il generale Hans-Werner Fritz presidente della Confederazione tedesca dei paracadutisti. È chiaro il progetto: “Riconciliare” tutti i caduti in un clima di vaga perdonanza. Tant’è che la locandina prevede che l’abate di Montecassino, don Donato Ogliari, sia lì a benedire. Ma ci sarà?
Però c’è chi non ci sta, a cominciare dall’Anpi e da quanti a Cassino e altrove ancora ricordano le stragi compiute dai paracadutisti tedeschi al di fuori degli scontri a fuoco. Elenco spaventoso redatto da uno dei maggiori studiosi della “Battaglia di Cassino”, Alberto Priero. Citerò soltanto alcuni di questi eccidi: i 12 civili fucilati a Barletta, i 17 di Rionero in Vulture, i 110 civili di Acerra con donne e bambini, i 25 di San Clemente di Caserta, altri 25 ancora nel Casertano, entro i primi di ottobre del 1943. Poi, quasi in vacanza premio, la 2ª Divisione Paracadutisti partecipa all’agghiacciante rastrellamento del Ghetto di Roma (16 ottobre 1943): 1.259, di cui 689 donne, 363 uomini e 207 tra bambini. Deceduti durante il viaggio verso Auschwitz, morti o gasati in quel lager. Tornati, appena 16.
Fra ottobre 1943 e maggio 1944, altri eccidi: 21 civili a Teano, 18 a Conca della Campania, addirittura 122 con donne e piccoli nell’Aquilano, altri 10 a Pizzoferrato, 33 a Ortona facendo saltare un villino stipato di rifugiati, 20 fucilati per rappresaglia a Francavilla a Mare sicuramente dalla 1ª Divisione paracadutisti, altri ancora fra Capua e Afragola uccisi da militari della Hermann Göring e infine 11 civili messi al muro sempre dalla Divisione paracadutisti a Collecarino e ad Arpino in provincia di Frosinone. Se non erro, sono più di 400 vittime civili, di ogni età, fucilate a freddo.
Certo, girando fra le tombe dei soldati tedeschi sepolti a Cassino e leggendo le loro date di nascita, non si può non provare pietà per tanti adolescenti mandati al macello da un regime liberticida e omicida. Ma un conto è provare quella pietà e un altro porre questi caduti e quanti scamparono alla morte rendendosi spesso responsabili, nella ritirata, di altre rappresaglie, sul piano dei caduti italiani e alleati.
“Quanto sta accadendo a Cassino è una cosa gravissima”, si legge in un comunicato dell’Anpi di Roma, “uno sfregio alla guerra di Liberazione in un territorio dove c’è stato un numero altissimo di appartenenti alle truppe alleate che si sono sacrificati per la libertà. Uno scandalo che non si può tollerare e, assieme all’Anpi nazionale, siamo pronti a fare denuncia come abbiamo già fatto per Affile con il mausoleo a Graziani”. Così Fabrizio De Sanctis, presidente dell’Anpi di Roma. “Sarebbe interessante sapere cosa pensano il Presidente della Repubblica per la presenza del sindaco di Cassino e cosa pensa il Papa per la presenza dell’abate di Montecassino”. E sarebbe pure interessante sapere cosa ne pensano il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, quello della Regione, Nicola Zingaretti, e gli ambasciatori di Polonia, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Canada e di tanti altri Paesi i cui caduti riposano in terra cassinate. Terra italiana liberata dopo tanti lutti dal nazifascismo.
Repubblica 17.3.18
Il crollo nell’ex monastero di San Paolo Maggiore
Così il corpo di Napoli si disfa
di Tomaso Montanari
Il corpo di Napoli si disfa, ci precipita addosso. Non è un incidente quello di ieri, non una fatalità: ma l’ovvia, annunciatissima conseguenza di decenni di abbandono.
Quando, nel pieno Seicento, Napoli era la più grande metropoli d’Italia e una delle prime d’Europa, nel suo cuore antichissimo sorse una città nella città. Centinaia di chiese, conventi, monasteri, confraternite: una immensa “ Napoli sacra” che non conteneva solo luoghi di culto o dormitori, ma anche chiostri in cui il silenzio era rotto solo dalle acque abbondantissime delle fontane; incantati e profumatissimi giardini di agrumi; biblioteche; farmacie; opere d’arte d’ogni sorta. «Non è omo che non la brami, e che non desideri di morirvi … Napoli è tutto il mondo! » scriveva l’accademico Ozioso Giulio Cesare Capaccio nel suo Forastiero ( 1634). Il convento di San Paolo Maggiore era uno dei luoghi più illustri di questo ombelico del mondo: sorto sull’agorà della Napoli greca, ridette vita al tempio dei Dioscuri, usandone le colonne e conservandone l’aura. Ed è in uno dei suoi due chiostri che ieri sono venute giù due volte: senza provocare una strage solo per miracolo.
I lavori in corso erano quelli del Grande Progetto Unesco che, lentissimamente, sta finalmente provando a salvare ciò che rimane del centro di Napoli. Dove nel Seicento si visitavano 400 chiese, quelle accessibili e in discrete condizioni sono oggi una cinquantina. Almeno altre duecento esistono ancora: ma sono sprangate per tutti tranne che per i ladri che le spogliano inesorabilmente di marmi barocchi che finiscono nelle ville dei boss, o sul mercato internazionale.
Moltissime altre sono chiuse, spesso dal 1980: pericolosamente siringate di cemento dopo il terremoto, e poi riempite di ponteggi, disseminate di piccioni e topi in decomposizione, coperte da una infinita coltre di polvere. Negli ultimi decenni questa vertiginosa e perduta Napoli Sacra è stata la grande rimossa di ogni politica culturale. Lo Stato, il Comune e la Curia (i principali proprietari di un patrimonio frammentatissimo) si sono dedicati agli eventi, all’industria delle mostre, da ultimo ai musei: dimenticando, però, il corpo di Napoli. Che ora ci ricorda che esiste nell’unico modo possibile: sfarinandosi.
Sono mancati i soldi, certo. Ma prima ancora l’attenzione, l’amore, la conoscenza: e, soprattutto, un progetto unitario. Una visione chiara di come ridare senso a questa enorme città nella città senza stravolgerne il carattere storico e artistico, anzi tutelandolo ed esaltandolo. Mentre la Curia affitta chiese mirabili a improbabili imprenditori, e il Fondo Edifici di Culto del ministero dell’Interno organizza mostre con i pezzi pregiati, solo la giunta di de Magistris ha dimostrato di avere un’idea: per esempio destinando l’ex Asilo Filangieri ( che è parte di una altra grande insula monastica, quella di San Gregorio Armeno) ad un esemplare uso civico. È da qua che bisogna ripartire: perché la nostra generazione non salverà il corpo di Napoli se non saprà dargli un’anima nuova.
Repubblica 17.3.18
La storia
Bisanzio brucia nella crociata dimenticata
di Silvia Ronchey
Nel 1204, due secoli prima di cadere in mano turca, Costantinopoli fu presa dai “fratelli” latini. Parte del suo patrimonio di arte e cultura passò a Venezia. Ora nuovi studi ricostruiscono quell’episodio drammatico
Il 13 aprile 1204, in una fredda giornata di primavera, una colonna di profughi dall’aspetto di fantasmi si incamminò fuori dalla grande città di Costantinopoli. Era “gente vestita di stracci, emaciata dal digiuno, trascolorata, cadaverica, con gli occhi così rossi che parevano colare sangue anziché lacrime”.
Erano stati torturati, depredati delle loro case e dei loro beni, avevano visto rapite le loro mogli, violentate le loro figlie. Non erano stati i turchi a compiere quello scempio, come sarebbe accaduto due secoli e mezzo dopo, nel 1453.
Erano stati i crociati occidentali. E non era contro gli infedeli che lo avevano portato, ma contro i loro correligionari, i bizantini.
La ferocia di quella singolare guerra santa ebbe tra i suoi testimoni oculari il più acuto, spregiudicato e disincantato degli osservatori politici dello Stato più prospero del medioevo: lo storico Niceta Coniata, massimo intellettuale della sua generazione, segretario del basileus fino a poco prima in trono ma anche suo indomabile critico, pensatore indipendente e non certo corifeo del potere, della cui opera è ora stata completata dalla Fondazione Lorenzo Valla l’edizione italiana ( Grandezza e catastrofe di Bisanzio — Narrazione cronologica,
traduzione di A. e F. Pontani, testo greco a cura di J.-L. van Dieten, introduzione di G. Cavallo, Fondazione Valla Mondadori, tre volumi).
Come ha scritto Steven Runciman, le crociate furono “le ultime invasioni barbariche”. I “barbari”, nelle frasi di Niceta, non sono gli islamici, che anzi i bizantini difesero strenuamente quando fu attaccata la locale moschea, ma quell’“accozzaglia di stirpi oscure e disperse” che erano gli eserciti latini, quei “precursori dell’Anticristo” che “portavano la croce cucita sulle spalle” e che in quei giorni di aprile del 1204 avevano devastato la culla stessa dell’impero romano cristiano, la città che ne custodiva da nove secoli l’identità religiosa oltre che l’eredità artistica, culturale, bibliografica così come la vocazione politica: un modello di Stato multietnico, meritocratico e sostanzialmente egualitario, dotato di una struttura diplomatica rivolta, come l’aquila bicipite, tanto a oriente quanto a occidente.
I profughi che si incamminavano “come una colonia di formiche” stanata dal fuoco avevano assistito al “più grande saccheggio della storia del mondo”, come lo definì lo stesso cronista francese Goffredo di Villehardouin che vi aveva partecipato al seguito di Bonifacio di Monferrato. Le atrocità perpetrate dai cavalieri della quarta crociata sono testimoniate non solo dagli storici bizantini ma anche dai cronisti occidentali, nonché dal papa che l’aveva indetta, Innocenzo III, inorridito nel suo epistolario. La Città traboccava di capolavori d’arte e di inestimabili libri. Ma ad attrarre gli incolti latini era il fatto che, secondo i loro calcoli, contenesse i due terzi delle ricchezze del mondo conosciuto. Portarono “abominio e desolazione” nel Sacro Palazzo del Boukoleon, coprirono di sterco i marmi policromi della Grande Chiesa di Santa Sofia. Si precipitavano furiosi e urlanti per le strade distruggendo ogni cosa non apparisse trasportabile, fermandosi solo per trucidare gli abitanti e per spalancare le cantine e dissetarsi con il loro vino. Non risparmiarono monasteri, né chiese, né antichi monumenti, lasciarono bruciare gli archivi e le biblioteche. Una parte dei classici greci oggi perduti sarebbe arrivata fino a noi, non fosse stato per quella vandalica insipienza. Nel viaggio degli antichi testi la presa di Costantinopoli del 1204 segnò un naufragio paragonabile all’incendio della biblioteca di Alessandria.
Ciò che i veneziani non portarono a casa i francesi distrussero. I cavalli di bronzo dorato dell’Ippodromo sono oggi noti come Cavalli di San Marco, altre inestimabili opere d’arte formano il ricco bottino oggi conosciuto come Tesoro di San Marco. Ma le altre antiche statue bronzee dell’Ippodromo e quelle del Foro di Costantino furono fatte a pezzi e fuse. Nella stessa Santa Sofia si potevano vedere soldati ubriachi saccheggiare le reliquie, strappare i paramenti, svellere le suppellettili, calpestare i libri sacri e le icone, dilaniare gli arazzi.
L’orrore continuò per giorni, finché la capitale dell’ortodossia fu ridotta, scrivono i testimoni, a un macello. Perfino i saraceni, annotò Niceta, sarebbero stati più misericordiosi: “Dalla gente latina, ora come allora, Cristo è stato di nuovo spogliato e deriso, e le sue vesti sono state spartite, e il fiume del Sangue Divino ha di nuovo inondato la terra”, lamenta alla fine della sua opera.
La presa latina di Costantinopoli del 1204 è l’esempio più notevole di quella cruda verità economica delle crociate di cui, al di là dell’ideologia o della retorica confessionale, un libro dello storico oxfordiano Christopher Tyerman, in uscita in traduzione italiana, spiega in dettaglio mentalità, pragmatismo, finalità materiale e obiettivi strategici (C.
Tyerman, Come organizzare una crociata, Utet). Si parla di “deviazione” della Quarta Crociata, quasi fosse stata un’idea repentina e non un preciso piano di conquista, già prospettato da Federico Barbarossa e da Enrico VI. Ben prima di entrare a Costantinopoli gli alleati avevano minuziosamente discusso e patteggiato tra loro, e soprattutto con Venezia, la spartizione dell’impero che avrebbero sostituito a quello bizantino, istituendo anche una gerarchia ecclesiastica cattolica al posto di quella ortodossa e insediando sul soglio patriarcale un veneziano.
L’alleanza della Realpolitik dei papi di Roma con l’Europa dei traffici, del protocapitalismo delle repubbliche mercantili, portò, con il successivo aiuto dei turchi, alla distruzione di una realtà politica che aveva garantito per secoli benessere e pace governando i conflitti fra le diverse etnie in un immenso territorio unificato dalla lingua greca, dalla religione cristiana, dal diritto romano, dominato da un formidabile sistema di pubblica istruzione e di cooptazione nelle burocrazie che assicurava il dinamismo delle élite e il loro costante ricambio sociale.
Per cinque giorni Niceta, la moglie incinta e il loro gruppo di amici dell’intelligencija costantinopolitana rimasero nascosti. Poi anche loro dovettero sfollare strisciando per i vicoli, i bambini piccoli in spalla, il viso delle ragazze mimetizzato col fango, in direzione della Porta d’Oro. Appena superate le sue torri, Niceta si gettò a terra e inveì contro le grandi mura di Teodosio: perché si reggevano ancora dritte in piedi? non vedevano che la civiltà che custodivano era finita? Poi, “gettando lacrime come semi” lungo la loro strada, si incamminarono per ricongiungersi al resto degli esuli e al governo in esilio insediato a Nicea, in Asia Minore. Ma quella che Niceta, partito da Costantinopoli con in mano solo il suo manoscritto, pianse come un’irrimediabile fine si rivelò un inizio. Per più di cinquant’anni l’impero di Nicea coltivò non solo la resistenza politica ma anche quella culturale, ricreando un sistema scolastico e universitario, proseguendo la produzione libraria. Quegli intellettuali avevano imparato una lezione: i barbari esistevano. Non erano i popoli che si diceva avessero fatto cadere l’impero romano d’occidente, diversamente da quello d’oriente, che era stato invece capace di assimilarli e accoglierli nella sua classe dirigente. Erano i figli del feudalesimo, che il sistema statale di Bisanzio aveva sempre combattuto, e di quel “satanico spirito del commercio”, per citare Baudelaire, da sempre incompatibile con la mentalità bizantina, dove la diffidenza dei cittadini verso il mercato e il rifiuto delle premesse etiche della mercatura espresso dagli intellettuali si univa alla condanna teologica del profitto e del lucro.
Anche dopo la riconquista del 1261 e l’insediamento della nuova dinastia dei Paleologhi, la guerra tra banchieri — genovesi e veneziani — continuerà a devastare economicamente e militarmente Bisanzio, a scarnificare quell’istmo culturale e strategico tra oriente e occidente. Ma per quanto cieche possano essere le strategie finanziarie e belliche, gli intellettuali possono sempre, discretamente, mobilitarsi.
Sempre di più si affermerà, tra i protagonisti della cosiddetta rinascenza paleologa, la coscienza dell’insopprimibilità di un’arma incruenta: la cultura. Il duello dei governanti, il risentimento delle masse, lo scontro delle chiese saranno trascesi da una simmetrica e inversa, silenziosa e superiore solidarietà tra umanisti orientali e occidentali. Sarà l’inizio di quella sempre più fitta circolazione di maestri e libri, liberamente scambiati dall’internazionale dei dotti, che darà vita a ciò che chiamiamo “il” rinascimento. L’antica cultura oltraggiata dai crociati conquisterà la loro stessa patria, la loro stessa curia, la stessa repubblica di Venezia, dove sorgerà, per volere di un umanista bizantino, Bessarione, la prima biblioteca pubblica della storia occidentale moderna. Da Bisanzio verranno e si metteranno all’opera, alacri, i copisti. Nascerà la stampa e non uno ma dieci, cento, mille libri sorgeranno sulle ceneri di quelli distrutti, insieme alle vite dei loro possessori, nella primavera del 1204.
Corriere 17.3.18
Noi padri e l’algoritmo delle emozioni
Siamo diventati i migliori amici dei figli, ma non basta. È un altro il terreno su cui dobbiamo imparare a muoverci. Ed è più impervio
di Massimo Sideri
Noi padri sapiens — prima generazione dall’età della pietra capace di gestire le complesse tecnologie artificiali del pannolino, del biberon, del ciuccio e della favola a letto — siamo a metà del guado. Pensavamo di avere concluso il nostro salto darwiniano: più amici che papà, più affettuosi che autoritari. Ma ora scopriamo che non basta: la cosa più complicata è la gestione di una tecnologia naturale che tende a esplodere in una adolescenza sempre più anticipata. Le emozioni. Nulla di grave per i papà sapiens intendiamoci: non è una malattia o un difetto genetico, si tratta solo di migliorare.
Siamo una generazione che sta sperimentando per quelle future. Prima di noi si sentivano ancora sciocchezze di questo tipo: i figli non hanno bisogno dei padri fino a 8-10 anni (in sostanza fino a quando non arrivava l’età per lo stadio...).
Siamo belli — lo dico con orgoglio — quando con la nostra pancetta da papà-startupper giriamo appiccicati ai nostri figli. Siamo passati dai racconti in cui al «padre» si dava del lei a quelli in cui non ci chiamano nemmeno più papà ma per nickname. Ora però il pericolo è crogiolarsi nella soddisfazione di essere stati gli amichetti giusti: ci perderemmo una fase altrettanto importante che è la gestione dell’emotività.
Pensavamo di essere dei papà sapiens ma rischiamo di diventare dei «papà emoji», un faccino sorridente o un viso arrabbiato senza la sfumatura delle vere emozioni in mezzo. Una sorta di disturbo bipolare che, sospetto, faccia parte della psiche maschile.
La buona notizia (la fonte è una donna, dunque attendibile) è che stiamo imparando: la terapeuta dell’adolescenza Stefania Andreoli dopo aver scritto il facile (scherzo) «Mamma, ho l’ansia» si è addentrata per Bur Rizzoli su un tema molto più spinoso: «Papà, fatti sentire. Come liberare le proprie emozioni per diventare genitori migliori». Scrive la Andreoli: «Abbandonato lo stile autoritario, i padri di oggi cambiano i pannolini (fatto, ndr ), giocano con i figli (fatto, ndr ), passano del tempo libero con loro (fatto!! ndr ). Ma allora perché il loro modello è ancora percepito come fortemente in crisi?».
Provo a rispondere io: un amico di giochi non basta. Certo, per chi non ha avuto nemmeno quello è tanto. Ma verso la pre-adolescenza la sfera emotiva si fa sempre più complessa e diventa insufficiente il mito del Pleistocene (oggi si scia, si nuota, si corre e si gioca insieme con la PlayStation... magari si cucina insieme e si va anche alla Scala. Ma non cambia. È una sorta di rituale della caccia 2.0, meno cruenta e molto più divertente).
L’educazione sentimentale non finisce, al limite inizia qui. Gli adolescenti lamentano l’incapacità di comunicare emotività da parte dei padri. Se incrociamo questa informazione con il tema delicato dei social, dove la gestione (e la difesa) delle emozioni diventa di vitale importanza per non crollare sotto la cattiveria che il magma della collettività sembra sprigionare, si capisce quale ruolo cruciale possa avere il padre capace di sviluppare un algoritmo delle emozioni.
Come si fa? Il primo passo lo consiglia crudamente la Andreoli. Quando un padre, come racconta, esclama: «Ah, ma quindi posso mostrare come sto davvero?», lei gli risponde: «Guardi che si vede comunque». (Non la manda a dire).
Su una cosa non sono d’accordo: non siamo un «assemblaggio di fortuna con gli scarti trovati a disposizione». Siamo sperimentatori di frontiera che stanno facendo ciò che gli uomini hanno evitato per millenni.
Solo che dai bambini-figli-adolescenti-social non si finisce mai di imparare. Al Max Planch — istituto tedesco di ricerca — hanno chiesto a dei bimbi piccoli di entrare in una stanza piena di giochi raccomandandosi: dopo di te c’è una lunga fila di altri bambini. Cosa hanno fatto? Hanno racimolato più giochi possibili.
Lo hanno rifatto con bambini con qualche anno in più e la maggior parte di loro si è rifiutata di entrare per primo: troppe responsabilità, forse troppe emozioni relazionali da gestire. Non ci vorremo perdere questa sfida ora...
Repubblica 17.3.18
Pablo Picasso: disegnare è già scolpire
di Cesare De Seta
Il Masi di Lugano dedica un omaggio speciale al maestro spagnolo ripercorrendone l’evoluzione artistica attraverso 120 opere, alcune mai esposte La costante è il rapporto con la matita, lo strumento che dà corpo alle sue idee
Nessun artista del Novecento può reggere il confronto con Pablo Ruiz y Picasso, nato a Malaga nel 1881 e morto a Mougin nel 1973 nel Midi della Francia che dall’età di 19 anni, quando giunse a Parigi, divenne la sua patria elettiva. Ma rimase sempre un artista andaluso quantunque seppe attingere, come una piovra dai mille tentacoli, tutto quanto accadeva intorno a lui e quanto vedeva nei musei: da El Greco a Velázques a Goya, dai grandi veneti a Delacroix e Manet. Le pagine dedicate alla sua opera e alla biografia non si contano, così le mostre ed è persino un azzardo farne una che non ripeta il già detto e il già visto. Eppure ci è riuscita Carmen Giménez, malagueña come lui, con la mostra Picasso. Uno sguardo differente che si tiene al Masi di Lugano, in stretta sintonia con Coline Zella del Musée national Picasso di Parigi che possiede la più ricca collezione di opere al mondo donate dal maestro e dagli eredi. Frugando negli archivi le curatrici hanno messo in mostra un centinaio di disegni più acquerelli, olii, pastelli e soprattutto molte sculture spesso disattese e trascurate.
La mostra si snoda nelle sale che danno sullo scintillante lago e ha un saggio andamento cronologico. Con “uno sguardo differente” la mostra dipana la matassa dell’evoluzione stilistica del maestro soprattutto attraverso disegni e sculture e lo stretto legame che c’è tra gli uni e le altre. Si parte da uno studio per i Saltimbanchi (1905) e si passa a tre fogli per le
Demoiselles d’Avignon (1907) ragazze di un bordello di Barcellona, città con la quale ebbe un intenso rapporto fin dalla gioventù.
Gli studi per La moglie del fattore (1908) sono già sculture e nelle
Bagnanti nella foresta esplode il colore. Un sintagma stilistico che ne segna tutta l’opera fino alla morte sopraggiunta mentre faceva colazione. Poi la serie sfaccettata di nudi femminili che preludono alla magnifica testa in bronzo di Fernande Olivier (1909), la ragazza che aveva scoperto al Bateau Lavoir, con cui condivise anni difficili e un’intensa passione. Tra il 1909 e il 1911 disegni cubisti, ma anche ritratti femminili e maschili di fattura ingresiana. Ma l’opera di Picasso è un pendolo che non lascia mai una strada intrapresa. A Mandolino e clarinetto (1912), una splendida scultura in legno dipinto di fattura cubista, fanno pendant una serie di fogli che sono nature morte con gli usuali oggetti della vita corrente.
Bottiglie, giornali, bicchieri, pacchetti di sigarette monocromi o a colori fino alla scultura Violino (1915) che abbaglia per l’intensità cromatica dei pezzi che lo compongono. Gli strumenti musicali, come chitarre e mandolini, sono una sua passione e almeno fino al ’20 tornano con continuità nelle composizioni dalle tonalità mai uguali. Il buffet è l’arredo su cui dispone questi strumenti che sono anche in mano agli Arlecchini.
Il ritratto di André Derain (1919) è un filo sottile di matita che rimanda a quelli celebri di Strawinskj, Jacob, Apollinaire e Djagilev: si è già in piena temperie neoclassica. Ma con Bicchiere e pacchetto di tabacco
(1921) Picasso ritorna alla scansione cubista con una scultura in lamiera tagliata e dipinta con una squillante policromia. Con esili tratti di matita o di penna impagina in un foglio quattro sagome di donna, in un altro è seduta in poltrona: nello stesso anno il ’29 la figuratività è del tutto scomparsa come testimonia la Donna con il pallone a inchiostro su carta.
Una serie di studi di mani a penna, acquerello o pastello preludono alla scultura della sua magica Mano (1937) in gesso la cui ruvida forza è memoria della grande tradizione del romanico e del gotico catalano così come si vedono nelle cattedrali della terra d’origine.
Con la serie di Cerchi e segni, datate con acribia 29 ottobre 1930, Picasso vuole dirci qualcosa d’importante: sono solo tre cerchi due dei quali attraversati da linee verticali e tratti più spessi in orizzontale.
Una serie di fogli a china sono numerati sullo stesso tema grafico. Quasi un omaggio al surrealismo del più giovane Joan Miró che l’aveva conosciuto quando era tornato a Barcelona per seguire i belletti di Djagilev. Nel ’31 con le
Bagnanti torna a una figurazione stralunata ma non astratta, preludio alla scultura della Bagnante con le braccia levate o a quel magnifico totem in bronzo che è la Donna con mele (1934).
La figuratività ritorna con gli studi per il ritratto di Marie-Thérèse (1936), nella veduta di Juan-le-Pins, nel bellissimo guazzo, china e matita del Minotauro ferito da un cavaliere con cavallo.
Nei primi anni quaranta tornano i nudi delle Bagnanti con continuità ma trattati a matita di tre colori. Del ’43 in piena guerra la Testa di morto in ferro e rame, agghiacciante “memento mori”.
A guerra finita i disegni tornano al colore e alla gioia di vivere: la bellissima Capra ( 1950) incinta in bronzo sta a dire che la vita ha ripreso il suo corso e così Picasso torna a disegnare donne nude che molto amò e molto fece soffrire. La serie dei teatrini sono un interludio giocoso, i Ritratti di famiglia dei primi anni ’60 sono disegnati a matite e pastelli coloratissimi e preludono alla Coppia e uomo con pipa datata 6 luglio 1966.
Il mago Picasso ha sciolto fino all’ultimo la sua matassa con una mirabile coerenza e i testi di Carmen Giménez e Francisco Calvo Serraller in catalogo sono una guida sapiente che svelano tratti inediti di una prodigiosa creatività.
Repubblica 17.3.18
Le parole della curatrice Carmen Giménez
Il filo nascosto di un genio guidato dall’istinto
di Chiara Gatti
Quale rapporto esiste fra disegno e scultura? Fra un segno tracciato sulla carta e la materia che prende corpo nell’aria? Molti artisti del Novecento, da Giacometti a Fontana, videro nella scultura la rappresentazione tridimensionale di un sistema di linee divenute solide. Gesti trasformati in volumi, ma dettati, prima ancora, da un’idea, un disegno mentale affidato a una pagina bianca e poi trasmigrato nello spazio. Anche per Picasso fu lo stesso. «Le scultura per lui era un disegno tratteggiato nel vuoto», spiega Carmen Giménez curatrice della mostra Picasso. Uno sguardo differente allestita al MASI di Lugano. E aggiunge. «La sua lezione è stata ereditata da Alexander Calder, Julio Gonzales, David Smith. Tutti affascinati da questa dialettica fra piano e volume». Tutti sedotti dal potere germinativo di una traccia nell’etere. Davanti a opere come il Violino del 1915 si capisce il passaggio, la progressiva materializzazione del segno. Nei disegni a carboncino si profilano infatti i contorni dell’oggetto. In una fase successiva, ritagli di carte di giornale danno spessore alla cassa armonica. Poi tocca a sottili strati di legno, usati come collage, aumentare la profondità, fino a sbozzare lo strumento che uscirà dal fondo con l’atto deciso della mani impegnate a piegare la lamiera tagliata, dipinta e annodata con il filo di ferro. In un campionario di supporti diversi, le origini dal disegno si leggono ancora nella grammatica di linee che tratteggiano le ombre come avevano già fatto sul foglio. I colori sono gli stessi di un ampio ciclo di composizioni, guazzi e chine, con la Fruttiera e mandolino su buffet in cui il cubismo gioca a scavare su carte piccolissime (10 centimetri per lato) un volume illusorio.
Picasso disegnatore e scultore trovò proprio nell’esercizio dello “scavo” il punto di contatto fra i due linguaggi. Il solco della matita aveva per lui lo stesso valore della pressione della mano che asportava la creta o della punta che incideva le lastre di rame o zinco delle sue incisioni, stampate su un torchio di fortuna nel vecchio studio di Montmartre, il famoso Bateau-Lavoir, da cui uscirono gli acrobati e i pagliacci del suo “periodo rosa”. Anche i ritratti dei figli Claude e Paloma li aveva disegnati sulla pietra litografica inzuppando le dita nell’inchiostro. Il segreto dello scultore restava quello di pensare con le dita, guardare al foglio come se fosse profondo, concepire ogni segno come fosse uno spigolo. «Picasso pittore è un’altra cosa. Un altro genio. Ma diverso nell’approccio. La pittura è più istintiva, libera dalla materia, ma non scava, non affonda». E non cuce neanche. Le sculture in ferro della fine degli anni Venti, le asticelle saldate, le costruzioni con le scatole di latta e i brandelli di cartone, partivano a loro volta da un’idea disegnata, da un volume che non c’era. La porteuse de jarre, la donna con la giara, del 1935, è un capolavoro di linearismo grafico, fatto con barrette di legno dipinte e inchiodate fra loro. Nello stesso periodo, Alberto Giacometti stava allungando come un ramo la sua prima Femme qui marche; anche lui, traghettandola dalla carta alla forza plastica della materia mineralizzata. Non stupisce, seguendo il filo logico di questa dipendenza della scultura dal segno primitivo che, negli anni Sessanta, Picasso sia giunto a usare fogli di lamiera prima disegnati e subito piegati come origami. Aveva accorciato i passaggi, sintetizzato il processo, utilizzando direttamente la superficie come uno spazio piano pronto a librarsi nella terza dimensione.