Repubblica 16.3.18
Intervista allo scrittore Khaled Khalifa
“La letteratura dimostra che la Siria splenderà ancora”
di Francesca Caferri
Era
il 2011 e mentre il vento di speranza delle primavere arabe travolgeva
la regione e arrivava a contagiare anche la Siria, usciva in Italia
l’Elogio dell’odio: un libro potente e senza compromessi che fece
conoscere la voce più importante della letteratura siriana di oggi,
quella di Khaled Khalifa. Da allora, lo scrittore non ha mai smesso di
esprimere il sostegno ai ragazzi che nel 2011 erano scesi in strada
sognando un Paese diverso: forte della sua fama e della scelta di non
lasciare Damasco neanche nei momenti più bui, Khalifa è diventato un
simbolo per chi sognava una Siria diversa. È dunque significativo, oltre
che triste, che Non ci sono coltelli nelle cucine di questa città, il
suo nuovo romanzo (Bompiani, traduzione di Maria Avino) arrivi nelle
librerie nel momento in cui i sogni di quelle giornate sembrano finiti. E
la Siria vive una delle fasi più tristi della sua storia. Una realtà
che Khalifa – domenica sarà a Roma, all’Auditorium per Libri Come –
conosce bene, da cui però rifiuta di farsi piegare: «Non è finita – dice
– i nostri sogni non sono morti del tutto. La letteratura, i libri e i
loro protagonisti, dimostrano che da sempre l’essere umano è in grado di
sopravvivere. E di continuare a sperare».
Signor Khalifa, anche
se lei narra una storia del passato, si capisce che il suo libro è un
durissimo attacco al regime. Come è possibile che la pubblicazione sia
stata permessa?
«Non lo so. Tutti i miei libri sono contro il
regime. Mi lasciano fare, forse perché si sono abituati, forse perché
hanno problemi più complicati da affrontare che non uno scrittore che
racconta storie passate».
Del passato ma anche del presente: vite spezzate dalla dittatura, città distrutte...
«È
la storia di una generazione, la mia. Quella vissuta negli anni ’80 in
una Aleppo che da città ricca e vitale si è trasformata in un luogo
pericoloso, dove tutti potevano finire in prigione per una parola, i
cinema e i teatri venivano chiusi, le scuole venivano trasformate in
centri di educazione al potere, la libertà e la cultura sparivano. Da
anni volevo scrivere di questo».
Facendolo scrive dell’oggi?
«È
innegabile che nel libro ci sia dentro molto presente. Vivere sotto una
dittatura è un’esperienza che non cambia. Oggi però è più complesso:
siamo finiti al centro di una guerra che non è la nostra, che il mondo
sta combattendo sulla nostra terra ma che non ci appartiene. Una guerra i
cui protagonisti hanno un tratto in comune, quello di non tenere in
nessuno conto i civili. Eppure la speranza non muore».
Muore però nelle pagine del libro. I personaggi la perdono pagina dopo pagina...
«Non
so se darle ragione. Questa è anche la storia di persone che continuano
ad amarsi nonostante tutto e di vite che continuano. È anche una storia
di ragazze forti e le assicuro che di ragazze forti io ne vedo molte
oggi in Siria. Non si fermano davanti a nulla. Una cosa che forse sfugge
a un lettore occidentale è che quando sei in Paesi soffocanti come era
la Siria degli anni ’ 80 e come è in modo diverso oggi, sviluppi una
vita segreta e lì riponi le tue speranze. I siriani sono forti: certo
che la vita da noi è dura, ma non sa quanti ragazzi vogliono studiare,
andare avanti. Hanno capito che il mondo è nostro nemico. E se non hai
amici devi ingegnarti ad andare avanti da solo».
È il secondo
libro che dedica ad Aleppo e alle conseguenze che la dittatura ha
portato sulla città: che scrittore è Khalifa? Un narratore di conflitti?
«Uno
scrittore e basta. So fare solo questo: letteratura. E questo voglio
continuare a fare. Il ruolo della letteratura nel tempo non è cambiato:
deve raccontare le storie. Voglio raccontare al mondo le storie della
mia gente».
La magia di Aleppo che lei descrive è andata persa con
la guerra. Lei ci è tornato da quando il governo ne ha ripreso il
controllo?
«No. Ma lo farò presto. Non ho paura di vedere ciò che è
rimasto e ciò che è andato perduto, se è questo il senso della sua
domanda.
Aleppo è stata distrutta più volte ed è sempre tornata a splendere.
Lo farà anche questa volta».
Perché è rimasto a Damasco?
«Perché sono uno scrittore e scrivo della mia gente. Come potrei farlo lontano dalla mia gente?».