venerdì 16 marzo 2018

Repubblica 16.3.18
L’Italia dopo il 4 marzo
La democrazia del pubblico
di Nadia Urbinati


Può non piacerci, ma non possiamo esorcizzare il senso del voto del 4 marzo. L’avanzata della Lega ci incute timore perché ne conosciamo l’ideologia. Il successo dei Cinquestelle ci inquieta perché le implicazioni ci sono ignote. Studiosi e opinionisti stranieri sono attenti a quello che sembra l’avvento di una nuova forma di rappresentanza. La democrazia non è avara di innovazioni; si presta alla sperimentazione perché non si appoggia su un modello predefinito, ma diventa come i cittadini la fanno essere. Certo, la democrazia post-totalitaria si è armata di regole costituzionali per limitare quel che la maggioranza poteva fare ( abbiamo visto come nei Paesi dell’Est Europa le maggioranze politiche abbiano messo in discussione questo principio). Si è anche armata di un’altra strategia di limitazione del potere: l’articolazione plurale del pubblico, con i partiti a competere per la maggioranza, non “i cittadini” e basta.
L’Italia del dopo 4 marzo mette in discussione questa strategia — il processo è solo cominciato. La reazione di rigetto nei confronti dei Cinquestelle da parte dei partiti tradizionali testimonia il timore di una democrazia nella quale potrebbe non esserci più posto per loro. La lotta contro i 5 Stelle è anche lotta per la sopravvivenza.
Chi ha studiato il governo rappresentativo, primo tra tutti Bernard Manin, ha riscontrato tre metamorfosi: dalla rappresentanza per notabilato, quando non c’era ancora il suffragio universale, alla rappresentanza dei partiti con l’avvento della democrazia; e da questa alla rappresentanza per mezzo del pubblico. Nei primi due casi, il pubblico era tenuto da chi gestiva la rappresentanza — i comitati elettorali, i partiti, i giornali. Nell’ultimo caso, il pubblico si impone direttamente e Internet rende ciò possibile. Partiti e giornalismo sono stati i due obiettivi contro i quali il M5S si è ripetutamente scagliato, fin dai suoi vagiti “vaffa”. La democrazia del pubblico vuole una direttezza di rappresentanza delle questioni e dei problemi dei cittadini, fuori dalle letture ideologiche. Come se i problemi debbano e possano parlare da sé, con i rappresentanti come procuratori e lo Stato un apparato per risolverli. Tutto questo può essere fatto senza la “casta” dei partiti, un costoso intralcio.
L’anti-partito non è nuovo. Ha partecipato addirittura alla scrittura della Costituzione. Negli anni ’40, due furono le idee anti- partitiche: quella iper- liberale dell’Uomo Qualunque, con uno Stato puro amministratore delle esigenze di sicurezza e di protezione della proprietà; e quella iper-democratica di Adriano Olivetti, con una “ comunità” federata di funzioni e professioni e una larga autonomia amministrativa. Senza partiti, in entrambi i casi, e senza ideologia — i problemi al centro. Nel Movimento 5 Stelle vivono queste pulsioni ( non dimentichiamo che Gianroberto Casaleggio operò nell’azienda di Ivrea). La matrice della democrazia dei partiti, egemonica anche grazie alla Resistenza, è stata sfidata fin dalle origini dunque; e il declino di legittimità aggravato dalla corruzione e dall’inefficienza ha fatto il resto. La democrazia post-partitica o del pubblico è populista in senso tecnico, perché rivendica una rappresentanza non per gruppi partigiani, ma per temi e problemi unificati in un leader o movimento; e con un’ambizione positivista che Internet alimenta. Qui si radica il rifiuto di filtri ideologici e il mito dei “fatti oggettivi”. Come questo muterà le istituzioni, i sistemi di controllo e la democrazia elettorale non sappiamo; ma dobbiamo preoccuparcene con prudenza. Ma è desiderabile essere avvertiti di una metamorfosi che è in corso e non si può rifiutare — un ipotetico fallimento del M5S non darà nuova linfa ai partiti. La democrazia del pubblico sembra essere giunta per restare.