Corriere 16.3.18
Filosofia
Salvatore Veca (Feltrinelli) si misura con i vincoli che limitano l’azione sociale: stringenti, ma non insuperabili
La storia non è un senso unico
Margaret Thatcher aveva torto, c’è spazio per un’alternativa riformatrice
Il passato conteneva molte possibilità. Le cose potevano andare diveramente
di Maurizio Ferrera
Il
discorso politico contemporaneo, soprattutto in Europa, è sempre più
intriso di «necessità». La globalizzazione, si dice, impone conformità
alle logiche di mercato. Le tecnostrutture sovranazionali dettano regole
vincolanti basate su semplici numeri. Il motto di Margareth Thatcher —
there is no alternative — domina le scelte di governo e sempre più anche
quelle individuali (pensiamo al mercato del lavoro). È il trionfo di
quella colonizzazione del «mondo della vita» da parte degli «imperativi
sistemici» di cui parlano da molto tempo autori come Jürgen Habermas o
Axel Honneth. Una dinamica che genera inevitabilmente nuove
diseguaglianze: le capacità e le opportunità di adattamento non sono
equamente distribuite. Gli elettori esprimono disagio e protesta. Ma se
non si danno alternative reali e credibili, il confronto democratico
degenera in una inconcludente agitazione.
Nel suo ultimo libro Il
senso della possibilità (Feltrinelli), Salvatore Veca indica una strada
per uscire da questo vicolo cieco. Di fronte alla dittatura del presente
e delle sue supposte necessità, sostiene, occorre recuperare appunto il
«senso della possibilità». L’idea che non vi siano alternative nasce
dalla nostra ignavia, dal mancato esercizio di spirito critico nei
confronti dello status quo, dei paradigmi dominanti e delle loro false
necessità. E, soprattutto, dalla diffusa rinuncia a usare
l’immaginazione, a elaborare futuri possibili, a «prenderci per mano,
ragionare e operare per forme più decenti di convivenza».
Salvatore
Veca è uno dei più noti e originali filosofi contemporanei. Il volume
presenta i risultati di una nuova fase delle sue ricerche, che lo
avevano portato a riflettere prima sull’incertezza (su che cosa è il
mondo e su ciò che vale) e poi sull’incompletezza (sulla natura e i
limiti delle nostre interpretazioni del mondo). Per certi aspetti, il
«senso della possibilità» si può considerare la pars construens del
pensiero di Veca. Ai margini dell’incertezza e dell’incompletezza si
aprono infatti i varchi del possibile. Una modalità dell’essere che lo
sottrae al necessario, che conferisce al presente (all’attualità) un
carattere plastico e che apre margini per scegliere il futuro.
I
capitoli del libro sono spesso tecnici, si confrontano con teorie e
modelli situati alla frontiera del dibattito filosofico. Anche chi non
padroneggia gli strumenti della filosofia e della logica trova però nel
volume spunti di estremo interesse. Il «senso della possibilità» può
essere usato come una chiave per aprire due «scatole» da cui sono
scaturiti molti di quei discorsi sulla necessità di cui oggi ci sentiamo
prigionieri.
La prima scatola è quella della storia, dello
sviluppo umano nel tempo. Noi siamo inevitabilmente immersi nel
presente: l’attuale ha priorità su passato e futuro. Ciò che è stato non
può essere disfatto. E questo pone alcuni vincoli ineludibili (dunque
necessari) per costruire ciò che sarà. Eppure il presente è circondato
dal possibile. Lo è retrospettivamente, innanzitutto. Le cose avrebbero
potuto andare altrimenti. La realtà di oggi (compresi i famosi
«imperativi sistemici») non è che il distillato, nel bene e nel male, di
mondi possibili che abbiamo di volta in volta scartato nel passato in
base a fattori e scelte contingenti.
Il mondo attuale è l’unico
sopravvissuto. Ma il senso della possibilità ci sottrae all’incubo dei
destini inevitabili, degli ingranaggi storici che ci relegano al ruolo
di automi. Usato in ottica prospettica, il senso della possibilità ci
rende invece liberi di immaginare un’ampia gamma di scenari futuri e ci
sprona all’impegno per valutarli e realizzarli.
La seconda scatola
è quella della politica. Si tratta della sfera di attività umana che
gestisce il presente, lo guida nel mare aperto delle possibilità. La
chiave di Veca fa però fatica ad entrare in questa scatola. Gli
imperativi della necessità hanno come bloccato la serratura, soffocando
il più potente generatore di mondi possibili che siamo riusciti a
inventare come umani: la liberaldemocrazia. La colpa non è del
«sistema», intendiamoci, che è contingente nella sua genesi e non
necessitante rispetto al futuro. Il generatore liberaldemocratico si è
inceppato perché è stato usato in modo irresponsabile sia dai governati
sia dai governanti. Questi ultimi non hanno poi fatto adeguata
manutenzione (pensiamo al deficit democratico della Unione Europea).
Possiamo
sbloccare la serratura? Ovviamente sì, ma l’esercizio richiede alcuni
atti di equilibrismo. Chi governa il presente deve riappropriarsi del
senso di possibilità, sfidando i tanti sacerdoti del «non si può fare
altrimenti». Chi agita l’inquietudine dei governati (pensiamo ai leader
populisti) deve a sua volta calibrare la propria immaginazione in base
ai materiali disponibili, oggi, nel reale. I mondi possibili sono tanti,
ma non tutti sono accessibili dal punto in cui ci troviamo. E, come
ricorda Veca, alcuni non sono neppure desiderabili.