La Stampa 16.3.18
“I dem e il Movimento convergano senza fare l’errore del 2013. Di Maio non è stato eletto premier”
L’intellettuale Settis: «Il M5S abbandoni l’alibi del web»
di Giuseppe Salvaggiulo
Salvatore
Settis, già presidente del Consiglio superiore dei beni culturali e
direttore della Normale di Pisa, intellettuale tra i più ascoltati sia
tra gli elettori di sinistra che tra quelli grillini, offre una chiave
di lettura del risultato elettorale e si schiera a favore di una
convergenza di governo tra Pd e M5S.
Professore, che lettura dà del risultato elettorale?
«Due
cose mi paiono chiare: la forte discontinuità con gli assetti
tradizionali, che denuncia la crisi di una classe dirigente che tende a
rifugiarsi nel privilegio di casta anziché a fare da motore al Paese; e
una mappa del voto che allontana il Sud dal Nord, confermando che il
Mezzogiorno è stato marginalizzato dall’agenda di governo, e deve
tornare al suo centro».
La somma dei voti di Lega, M5S e Fratelli d’Italia supera abbondantemente il 50 per cento: siamo diventati anti-europei?
«A
me pare che gli italiani non dicano “no” all’Europa, ma siano molto
insoddisfatti di come l’Unione sta gestendo se stessa, e in particolare
le questioni del debito pubblico e della spesa sociale. A questi
interrogativi non si risponde con slogan generici tipo “più Europa” o
“meno Europa”, ma chiedendosi quale è l’Europa che vorremmo. Passata la
febbre delle elezioni, è sul merito di questa domanda che si giocherà la
capacità progettuale dei partiti».
Come mai la sinistra non ha raccolto questo disagio?
«Lacerata
da contrasti interni, la “sinistra” ha passato questi anni a guardarsi
l’ombelico perdendo il contatto con il Paese. Anziché ricostruire la
forma-partito come luogo di discussione e di elaborazione di progetti,
si è chiusa in scontri di potere, in cui la competenza specifica (sulla
Costituzione, sulla scuola, sull’ambiente, sul lavoro) era meno
importante di una vuota retorica delle riforme. Questa “sinistra” ha
ignorato le tensioni e le sofferenze del Paese, cercando di tenerle a
bada con slogan e successi effimeri. Non ci è riuscita».
Lei non è entrato nella squadra di Di Maio prima delle elezioni. È una chiusura definitiva?
«Il
gioco di società del “toto-ministri” non mi interessa. Se anche Galileo
fosse ministro dell’Università e della ricerca, ma in un governo che
non ponga questi temi in assoluta priorità, non potrebbe fare nulla di
buono. E poi: secondo la Costituzione, di nomi ha senso parlare solo
quando vi sarà un presidente incaricato. Ed è facile profezia che si
arriverà a questo punto fra svariate settimane, se non mesi».
A cosa attribuisce il successo della Lega?
«Cancellando
dal proprio nome la parola Nord, ha raccolto consensi anche a Sud, ma
resta un partito imperniato su una concezione chiusa della società, e
senza nessun vero progetto che non sia la difesa di piccoli e grandi
privilegi e una dannosa xenofobia. Ma ha saputo canalizzare quella parte
di protesta che ieri si identificava in un Berlusconi ormai in caduta
libera».
Come legge il declino parallelo di Berlusconi e di Renzi?
«Un
punto in comune ce l’hanno, ed è la cieca personalizzazione della
politica, una sorta di egolatria da grande leader. Ma che qualcuno sia
“grande”, per verità, dovrebbero essere gli altri a dirlo. O la Storia».
Cosa pensa del M5S: movimento populista o nuova sinistra?
«“Populisti”,
nel linguaggio politico italiano, sono sempre gli altri, finché vengono
sdoganati arrivando al potere (come è successo alla Lega). Nei 5 Stelle
c’è dentro di tutto, una metà più o meno di sinistra ma anche una
componente centrista o di destra. Per diventare forza di governo, tali
contraddizioni dovrebbero essere affrontate accrescendo la democrazia
interna senza rifugiarsi nel facile alibi della piattaforma web».
Pd e M5S dovrebbero convergere per formare un governo?
«Dopo
le elezioni del 2013 firmai gli appelli di Barbara Spinelli e Michele
Serra per un governo di scopo M5S-Pd. Nonostante duecentomila firme,
tutto si risolse in niente, anzi da Beppe Grillo arrivarono solo
sberleffi per “gli intellettuali”. Guardando i numeri di questo
Parlamento, un esperimento di alleanza di questo tipo mi pare comunque
preferibile a ogni altro».
Su quale piattaforma e con quale tipo di compromesso?
«L’elaborazione
programmatica di entrambi è insufficiente. Questa debolezza può
diventare un punto di forza, se si avrà il coraggio di costituire un
tavolo di discussione in cui tener conto non solo di quel che dicono i
partiti, ma del confronto fra l’Italia e gli altri Paesi (ad esempio, lo
scarso investimento in cultura), nonché delle istanze che nascono “dal
basso”: dalle associazioni, dai movimenti per i beni comuni, dai
cittadini».
Per favorire una simile soluzione, sarebbe
auspicabile un passo di lato di Di Maio in favore di una personalità
terza che non sia il leader di un partito avversario, invotabile per il
Pd?
«I progetti per il futuro del Paese sono più importanti dei
nomi. La Costituzione non prevede che il presidente del Consiglio esca
dalle urne, ma che venga nominato dal Capo dello Stato (art. 92). Nel
costume italiano sta prevalendo una specie di “presidenzialismo debole”,
coi nomi dei leader indicati talvolta già sulla scheda. Io credo che
dovremmo optare per un “costituzionalismo forte”».
Nei prossimi giorni parteciperà al convegno torinese dedicato a Stefano Rodotà: com’era il vostro rapporto?
«Il
suo insegnamento non era solo di Diritto, ma di etica e di vita civile.
Non sono un giurista, e l’ho conosciuto relativamente tardi. Vorrei
cercare di dire perché e come il suo modo di affrontare il rapporto fra
diritti della persona e forma della società mi abbiano affascinato e
convinto».
Qual è oggi il valore della sua lezione?
«Ne
scelgo fra tanti solo uno, il nesso forte, anzi necessario, fra due idee
o principi: da un lato un’idea di cittadinanza inclusiva, intesa non
solo come il corredo di diritti e doveri del singolo ma come tessitura
della fabbrica sociale; dall’altro lato, la responsabilità individuale e
collettiva di tradurre i più alti principi giuridici in azione
politica».