mercoledì 14 marzo 2018

Repubblica 14.3.18
Adriana Faranda “L’ultimo giorno di Aldo Moro iniziò la fine di noi brigatisti”
di Ezio Mauro


ROMA Adriana Faranda, lei ha 67 anni è entrata nelle Br a 24, è stata condannata a trent’anni per il rapimento Moro e l’uccisione dei cinque uomini della scorta.
Quarant’anni dopo che giudizio dà di quei 55 giorni?
«Che sono stati una vera e propria tragedia. Noi sequestrando Moro lo abbiamo praticamente condotto in un vicolo che alla fine si è rivelato cieco, in nome della ragion di Stato e di una presunta ragione rivoluzionaria. È il più grande errore che le Br abbiano commesso, sia dal punto di vista politico che da quello umano».
Lei ha detto che anche se non ha mai ucciso nessuno, le responsabilità collettive sono un macigno. Sente la responsabilità morale anche per quello che non ha fatto?
«Sì, siamo tutti responsabili. Non da un punto di vista giudiziario, ovviamente, ma da un punto di vista morale sì: abbiamo accettato l’idea che si potesse uccidere e l’uso politico della violenza».Lei quando entra nelle Brigate Rosse? Chi le comanda in quel momento?
«Nel ’76, quando le Br a Roma stanno formando la colonna. In realtà in quel momento ci sono solo 3 militanti regolari…».
Regolari nel vostro gergo significa clandestini?
«Sì, anche se non necessariamente ricercati. Però nelle Br il politico e il militare marciavano insieme e la struttura di direzione aveva necessità di mantenersi clandestina, per sfuggire al controllo. Non comanda nessuno, alla guida c’è l’esecutivo: Moretti, Bonisoli, Azzolini e Micaletto».
Come arrivate alla decisione di sequestrare Moro?
«Attraverso un ragionamento.
Pensavamo che il potere reale si sarebbe spostato dallo Stato nazionale a strutture imperialiste come la Trilateral.
In Italia il perno di questa ristrutturazione era la Dc.
Nella Dc avevamo individuato tre nomi, Fanfani, Moro e Andreotti».
Poi?
«Poi poco per volta si arrivò a un nome solo. Fanfani venne accantonato perché un po’ fuori dai giochi. Andreotti perché era l’uomo del potere, mentre l’intelligenza che stava dietro era di Moro. Per noi lui era la mente della Dc».
Lei aveva seguito Moro nella chiesa di Santa Chiara a Roma. Cosa ricorda di quegli appostamenti?
«Ricordo gli uomini della scorta, molto bene. Leonardi che entrava insieme a Moro nella chiesa. E gli altri che chiacchieravano fuori, andavano a prendere il giornale all’edicola, certe volte mi passavano accanto. Quel primo progetto avrebbe salvato loro la vita».
Perché potevate prelevare Moro senza la strage?
«Sì, avremmo potuto sequestrare Moro immobilizzando semplicemente chi lo aveva accompagnato dentro la chiesa, senza bisogno di sparare, uscendo poi dalla sacrestia. Ma ci accorgemmo presto che qualunque cosa fosse andata storta, avrebbe innescato uno scontro a fuoco in una zona affollata: bambini, studenti, passanti».
Dunque?
«Dunque si cominciò a cercare un altro luogo adatto, seguendo il cammino delle auto a ritroso.
Risalimmo fino all’abitazione di Moro e capimmo che l’unico posto adeguato per fermare quelle macchine era proprio quell’incrocio molto tranquillo».
Tra via Stresa e via Fani?
«Sì, perché lì c’era lo stop, con poco traffico e abbastanza visibilità per veder arrivare le auto, senza scuole e senza folla.
È un calcolo da guerra, che valuta cinicamente il rischio e il successo di un’azione: ma è così».
Il passaggio dalla chiesa a via Fani è il passaggio da un sequestro alla strage di cinque uomini della scorta.
Nessuno ha sollevato questa obiezione?
«Era un dubbio che ci coglieva tutti, però il cinismo non appartiene solo alla lotta armata. Appartiene alla guerra e alla violenza in sé».
Moro però non sa di essere in guerra, tanto che i suoi uomini non viaggiano con le armi in pugno, voi sì…
«Ma noi non lo sapevamo.
Abbiamo studiato l’azione pensando di rischiare almeno quanto rischiavano loro».
Lei ha preparato l’agguato, ha comperato personalmente le quattro divise da avieri per il gruppo di fuoco. Davvero a via Fani hanno sparato solo in quattro?
«Pensi all’elemento sorpresa, al fatto che le macchine erano praticamente ferme, e che la distanza era ravvicinatissima: questo può far capire come quattro persone decise a tutto possano giungere a tanto. Non c’è bisogno di tiratori scelti appostati chissà dove».
Agnese Moro, incontrando voi ex terroristi, ha detto: posso finalmente domandarvi come facevate a mettere la sveglia, ad alzarvi al mattino e ad andare ad uccidere. Ecco, che cosa ricorda della notte prima dell’agguato?
«Le notti prima dell’azione erano sempre quasi insonni. Di quella sera ricordo l’ansia, la tensione, perché tutti sentivamo il peso incredibile di quello che stavamo per fare, con uno scompaginamento enorme. Non sapevamo bene cosa sarebbe successo dopo: e questa incognita pesava».
Il 16 marzo è il giorno in cui il governo Andreotti si presenta alle Camere, col Pci nella maggioranza. Una data simbolo?
«In realtà la data era un’altra, qualche giorno prima, quando si era riaperto il processo di Torino al nucleo storico delle Br: fu rinviata solo perché mancò una macchina. Volevamo un contro-processo contemporaneo, i compagni alla sbarra a Torino e la loro organizzazione che intanto metteva sotto processo lo Stato».
Quel mattino lei vede uscire Morucci insieme con Bonisoli e accende la radio sulle frequenze dei carabinieri: quando capisce cos’è successo in via Fani?
«Subito parlavano di una sparatoria, chiamavano le pattuglie. Poi dissero che bisognava portare in ospedale un ferito. Quindi che c’erano dei morti, e io non riuscivo a capire se erano da parte nostra, chi fosse il ferito. Non sapevo se Moro era stato preso, se erano riusciti ad arrivare alla prigione. Finché tornò Valerio».
Cosa le disse Morucci?
«Era sotto shock, mi disse solo: è stato un macello. Era talmente turbato che io non me la sentii di chiedergli altro. Aggiunse ancora: noi stiamo tutti bene ma è stato un macello».
Un macello a cui lui ha partecipato…
«Certo. Le ho detto, era sconvolto».
Lei ha discusso le vie di fuga, ma sapeva che la prigione era in via Montalcini?
«Sapevo che era stato acquistato un appartamento ed era stato attrezzato come prigione. Ma non sapevo dov’era. Però quando andai in via Montalcini con i magistrati, per la prima volta in vita mia, girai per casa, ragionai secondo i criteri di allora e individuai per terra le tracce…».
Il segno del cardine della parete che chiudeva la cella?
«Esattamente. Sono certa che la prigione è stata lì. Anche perché non potevamo permetterci di aver più di un appartamento attrezzato».
Lei e Morucci consegnate le lettere che Moro scrive. Ma lei in quei giorni come valuta quei messaggi?
«Avevano un’importanza politica enorme. Perché noi non ci aspettavamo un fronte di fermezza così compatto, e non sapevamo come incrinarlo».
Lui ci prova?
«Sì. Secondo me capisce che le Br sono un fenomeno estremo, ma che forse si può tenere sotto controllo se non si nega la sua natura politica. Per questo accetta di considerarsi prigioniero politico, e lancia l’idea dello scambio di prigionieri».
Le lettere del sequestrato alla famiglia diventano un documento via via sempre più disperato. Cosa ne pensava allora?
«Man mano che i giorni passavano Moro si spogliava dei suoi abiti di statista, dietro la funzione emergeva l’essere umano. Io oggi considero mostruoso levare la vita a chiunque, ma uccidere un prigioniero è la cosa più terribile che si possa fare. Esecuzione: già il termine… Noi ci battevamo perché gli Usa abolissero la pena di morte, e poi…».
La praticavate.
«La praticavamo».
Perché per fermarvi non è bastata la lettera del Papa agli uomini delle Br, l’appello del segretario Onu Waldheim?
Eravate in un delirio di onnipotenza o di impotenza?
«Forse ambedue… ma il problema era che le Br volevano essere riconosciute come forza combattente in opposizione allo Stato, quindi il loro interlocutore era la Dc».
Quando il 18 aprile viene scoperto il covo di via Gradoli, dove vivevano Moretti e Barbara Balzerani, per un’infiltrazione d’acqua dovuta a una doccia lasciata aperta, lei è con Balzerani: non ha avuto sospetti sulla dinamica di questa vicenda?
«No, nel senso che noi ce la prendemmo con Barbara, perché si sapeva che c’erano state delle perdite, che già avevano protestato dal piano di sotto, bisognava chiudere il rubinetto centrale. Barbara sbiancò quando vide le immagini della “base” al tg, però la fuga di notizie impedì il suo arresto e quello di Moretti».
Lei il 30 aprile alle 4 e mezza di pomeriggio è alla Stazione Termini con Moretti che fa l’ultima chiamata a casa Moro e parla con la moglie.
Chi decide la telefonata?
«Era un tentativo disperato di muovere qualcosa nella Dc, deciso da Mario indipendentemente dall’esecutivo. Mamma mia, eravamo in un sottopassaggio affollato e il compito mio, di Valerio e di Barbara era di coprire Mario sperando di non essere rintracciati dalla polizia».
La telefonata fu lunga…
«Sì. Ci fu un grosso rischio, ma Mario voleva essere certo che chi era all’altro capo del filo comprendesse fino in fondo la sua ultima richiesta per non arrivare all’uccisione di Moro».
Però formalmente soltanto lei e Morucci eravate contro l’esecuzione. Tutti gli altri si dichiararono a favore.
«Certo era necessario avere un corrispettivo, anche minimo.
Una dichiarazione della Dc per dire che si sarebbe affrontato il problema dei prigionieri politici».
Il 3 maggio c’è l’ultimo incontro in piazza Barberini tra lei, Morucci, Moretti, Seghetti e Balzerani. Che cosa vi dite in quelle due ore in piazza?
«Noi tirammo fuori tutti gli argomenti che spiegavano perché eravamo contrari all’uccisione di Moro. La certezza che sarebbe stato molto più destabilizzante da vivo. La considerazione che il risultato era stato comunque raggiunto perché Moro aveva dato le dimissioni dal partito. Il fatto che lui stesso aveva messo sotto accusa la Dc, come responsabile della sua morte».
Un momento, non va mai dimenticato che la mano sulla pistola è la vostra...
«Certo. Vede, io credo che le Br siano state sempre consapevoli dell’enormità delle responsabilità che si prendevano sulle spalle. Però si sono illuse che la morte di Moro fosse vissuta come una corresponsabilità».
C’è un’ultima riunione in cui decidete le modalità dell’esecuzione. È vero che doveva essere lei a scortare l’auto col cadavere in via Caetani?
«Sì, sì, è vero. Ci fu questa riunione in cui stavo malissimo perché mi sentivo sconfitta sotto tutti i punti di vista, politico e umano. Ero disperata.
Quando uscì fuori l’idea che dovevo essere io a fare da scorta all’auto che avrebbe portato il corpo di Moro rimasi agghiacciata e dissi qualcosa come “okay, lo faccio, ma solo per disciplina”. Non ero assolutamente in condizioni di svolgere quel ruolo con le garanzie che un’organizzazione politico-militare richiede. Infatti Valerio venne da me e mi disse: stai tranquilla, abbiamo deciso che è meglio se ci vado io».
Arriviamo al 9 maggio.
Moretti dice di essere stato solo a sparare, lei sostiene che ha sparato anche Maccari. Che cosa è successo in quel garage di via Montalcini?
«Io non posso saperlo con certezza perché non ero presente. Mi sono fatta una mia impressione sulla base delle cose che ho saputo dopo, ma …».
Secondo questi racconti sono state due persone a sparare?
«Quel che ho saputo da varie fonti è che poiché Moretti voleva assumersi questa responsabilità, ma allo stesso tempo il peso era estremamente grave, ebbe un cedimento in loco. E quindi… Capisca, sono cose talmente dolorose che non me la sento di dare certezze».
Lei raccoglie l’acqua di mare sul litorale romano e la sabbia che si troverà nel risvolto dei pantaloni di Moro con le gocce spruzzate sui vestiti per depistare le indagini, è così?
«Sì, questa era l’idea: depistare.
Sul litorale io e Barbara cercammo di prendere qualunque cosa anche dalle chiglie delle barche, pezzi di bitume, foglie dai vasi per disseminare indizi sparsi in modo da confondere gli investigatori».
Perché decidete via Caetani per far ritrovare il corpo di Moro?
«Volevamo una strada vicina ai due partiti che avevano scelto la fermezza. In via Caetani fu parcheggiata una macchina il giorno prima, per tenere il posto alla Renault. Se non ci fosse stato un parcheggio forse si sarebbe scelta un’altra strada».
Che cosa succede la mattina del 9 maggio quando lei incontra Morucci che è appena tornato da via Caetani dove aveva lasciato il corpo di Moro?
« Succede che siamo costretti a fare l’ultima telefonata e scegliamo ancora una volta la Stazione Termini, questa volta una cabina all’esterno. Niente, siamo entrambi devastati ma la telefonata finale la deve fare proprio Valerio, la voce che ha chiamato tutti gli intermediari e quindi, anche per non far identificare altri, tocca a lui.
Questa volta ci sono solo io a coprirlo. Fatta la telefonata ce ne andiamo proprio con la sensazione…».
Che quel momento è anche la fine delle Brigate Rosse?
«Non è ancora la fine, però certo è l’inizio del declino».